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Alessandro Manzoni
Contro i poetastri
Se alcun da furia d’irritato nervo
O da grave Ciprigna o da loquace
Tosse dannato a l’odiosa coltre
Me sanator volesse, il poverello,
Cred’io, n’andrebbe a giudicar se vera
D’Aristippo o di Plato è la sentenza.
Venga un altro e mi dica: Il mal vicino
Deviò l’acqua dal mio fondo: a lui
Vo’ mover piato e mio legal t’eleggo.
Fingi che, posto il trito Flacco, io tenti
Con l’inesperta man scotere il dritto
Fuor de la polve de l’enorme Baldo.
Che fia? Con danno il misero cliente,
Io con vergogna fuggirem dal Fòro,
Molto ridendo l’avversario e Temi.
Or d’onde è mai che il medico e il perito
Di legge osin far versi? Anzi non sia
Chi, dotto appena ad allogare un tempo
Le sparse membra di Maron, che a lui
Disgiunse ad arte il precettor, non creda
Poter, quando che voglia, esser poeta.
Nulla di questo appar più lieve: eppure
Tal vinse acri nemici e tenne il morso
A genti ardite, che domar non seppe
I numeri ritrosi: ed io conosco
Di questa plebe indocile i tumulti.
Tu, di cui su quel carme io leggo il nome,
Se onesto interrogar non è conteso,
Dimmi, sei tu poeta? — Il ciel mi guardi.
— Perché dunque far versi? — A le preghiere
E a lo sponsal solenne di un amico
Quattro versi negar come potea?
E sai che a figlia d’incolpato padre
Non è minor vergogna al santo giuro
Senza un sonetto andar, che se indotata
Porti a l’avaro conjugal piattello
La man rapace e l’affamato ventre.
Amico tal non credere che possa
Vantar l’antica età; poi che se Oreste,
Quando le Dire aveangli guasto il senno,
A quel suo fido d’amicizia specchio
Detto avesse: Fa’ versi, io non saprei
Se quel Pilade saggio avria potuto
Al matto amico compiacer. Ma dimmi:
Se per nuovo pensier questo marito
Sì t’avesse parlato: Io bramo, o caro,
Che la mia Betta o Maddalena o quale
Ch’ella si sia, come conviensi a sposa,
Esca in publico ornata; ond’io ti prego
Che tu con le tue man, se non ti grava,
A lei la vesta nuzial lavori:
Che detto avresti? — A le lattughe, ai bagni
Io mandato l’avrei con tanta fune,
Quanta al più pingue figlio di Francesco
Cinger potria l’incastigato addome.
Che se avessi obbedito, a me tal pena
Non converrebbe? Un che sartor non sia,
Se la rapace forbice e le spille
Osa trattar con le profane dita,
Stolto nol dici? — E chi non è poeta,
Se mai fa versi, con che nome il chiami?
O cucir drappi è più difficil opra
Che concluder poemi? A te vergogna
Sarà, se donna in publico apparisca
Abbigliata da te, sì che i fanciulli
Petulanti del trivio a lei d’intorno
Scaglin, gridando, i mezzi pomi e l’altre
Tante reliquie de la samia cena:
Ma onor sarà, quando a l’udir tue rime
Vanno in fuga le Muse, e al casto orecchio
De l’indice vocal si fanno scudo?
Io non dirò, come vantar da molti
Con riso udii, che l’arte del poeta
Sia necessaria e sacra. A l’arte prima,
Che dal sen de la terra a trarre insegna
Onde il mondo si nutra; a quella ond’hanno
Freno i ribaldi e sicurezza i buoni,
Tanto nome si dia. Ciò solo affermo,
Che un’arte ell’è, qual ch’ella siasi un’arte.
Or quale è mai scienza o disciplina
Tanto volgar, che da se stessa informi
Non sudato cerebro? Eppur non manca
Chi fogli empia di versi, onde la mente
Riposar da le pubbliche faccende
E dai privati affari, e per sollievo
Canti amori o battaglie, o lei che meglio
Suol gorgheggiar da l’alta scena, o quella
Che sa dir con le gambe: idolo mio.
Quando su l’orme de l’immenso Flacco
Con italico pie’ correr volevi,
E de’ potenti maledir l’orgoglio,
Divo Parin, fama è che spesso a l’ugne,
Al crin mentito ed a la calva nuca
Facessi oltraggio. Indi è che, dopo cento
E cento lustri, il postero fanciullo
Con balba cantilena al pedagogo
Reciterà: Torna a fiorir la rosa.
Ma Labeone al truce pedagogo
Trattar la verga non farà, né Codro
Al putto ignaro ruberà la cena.
La ruota, i serpi e la forata secchia,
O Pluto, a quel che col dannoso acume
Primo il tipo scoverse. A lui, di quanti
Versi in onta d’Apollo uscir da quella
Sua macchina infernal, rogo si faccia
D’eterne fiamme; o per maggior tormento,
Stretto a leggerli sia. Ché asciutto ancora
Su le carte febee non è l’inchiostro,
Che al torchio illustrator vanno. Ed omai
Tante fronde l’Aprile, e tanti sofi
L’Europa oggi non ha, né tante leggi
Già in venti lune partorì l’invitto
Senno e polmon degl’Insubri Licurghi,
Quanti ogni dì veggo apparir poeti.
Quando poi da lo scrigno e da le miti
Orecchie degli amici al banco aperto
De l’avaro librar passano i versi
E a le mani del volgo, a cui non lice
Dannar Flacco e Maron, laudar Pantilio,
E al crin di Mevio decretar corona?
Che dirò dei teatri? O sii tu servo
O duro fabbro, o venda in sui quadrivi
Castagne al volgo, un quarto di Filippo
Ti fa Visco e Quintilio. Entra e decidi.
Mentre Emon si spolmona e il crudo padre
Alto minaccia, o la viril sua fiamma
Ad Antigone svela, o con l’armata
Destra l’infame reggia e il cielo accenna,
Odi sclamar dai palchi: Oh duri versi!
Oh duro amante! Dal suo fero labbro
Un ben mio! non s’ascolta. Oh quanto meglio
Megacle ed Aristea, Clelia ad Orazio!
Che ti val l’alto ingegno e l’aspra lima,
Primo signor de l’Italo coturno?
Te ad imparar come si faccia il verso
De gl’Itali Aristarchi il popol manda.
Mirabil mostro in su le Ausonie scene
Or giganteggia. Al destro pie’ si calza
L’alto coturno, e l’umil socco al manco;
Quindi va zoppicando. Informe al volto
Maschera mal s’adatta, ove sul ghigno
Grondan lagrime e sangue. Allor che al denso
Spettatore ei si mostra, alzarsi ascolti
Di voci e palme un suon, che, per le cave
Volte romoreggiando, i lati fianchi
Scote al teatro, e fa restar per via
Maravigliato il passaggier notturno.
Io, perché de la plebe il grido insano
Non mi fieda l’orecchio, in questa cella
Mi chiudo, e meco i miei pensieri e libri,
Quanti con l’occhio annoverar tu possa.
Ché se alcuno è tra lor che ponga in mostra
Maldigesta dottrina o versi inetti,
Nel vimine ibernal presso al camino
O in loco va, che nel purgato verso
Nega pudica rammentar Talia.