Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Alessandro Manzoni

    Del trionfo della libertà

    Canto I

    Coronata di rose e di viole
    Scendea di Giano a rinserrar le porte
    La bella Pace pel cammin del sole,

    E le spade stringea d’aspre ritorte,
    E cancellava con l’orme divine
    I luridi vestigi de la morte;

    E la canizie de le pigre brine
    Scotean dal dorso, e de le verdi chiome
    Si rivestian le valli e le colline;

    Quand’io fui tratto in parte, io non so come,
    Io non so con qual possa o con quai piume,
    Quasi sgravato da le terree some.

    E mi ferì le luci un vivo lume ,
    Ove non potea l’occhio essere inteso,
    E vinto fu del mio veder l’acume,

    Com’uom che da profondo sonno è preso,
    Se una vivida luce lo percote,
    Onde subitamente è l’occhio offeso,

    Le confuse palpebre agita e scote,
    Né può serrarle, né fissarle in lei,
    Che sua virtute sostener non puote;

    Così vinti cadevan gli occhi miei,
    Ma il Ciel forze lor diè più che mortali,
    Da sostener la vista de gli Dei.

    Non cred’io già che fosser questi frali
    Occhi deboli e corti e spesso infidi,
    Cui non lice fissar cose immortali.

    Forse fu, s’egli è ver che in noi s’annidi,
    Parte miglior che de le membra è donna;
    Onde come io non so, so ben ch’io vidi.

    Vidi una Dea; nulla era in lei di donna,
    Non era l’andar suo cosa mortale ,
    Né mai fu tale che vestisse gonna.

    Di portamento altera , e quanta e quale
    Su gli astri incede quella al maggior Dio
    Del talamo consorte e del natale.

    Nobile, umano, maestoso e pio
    Era lo sguardo, e l’armonia celeste
    Comprenderla non può chi non l’udio.

    Sovra l’uso mortal fulgida veste
    Copre le sante immacolate membra,
    E svela in parte le fattezze oneste.

    Tessuta è in Paradiso, e un velo sembra;
    Ma a tanto già non giunge uman lavoro;
    Oh con quanto stupor me ne rimembra!

    Siede su cocchio di finissim’oro
    Umilemente altera, ed il decenne
    Berretto il crine affrena, aureo decoro.

    Stringe la manca la fatal bipenne,
    E l’altra il brando scotitor de’ troni,
    Onde a cotanta altezza e poter venne

    La gran madre de’ Fabj e de’ Scipioni;
    Sotto cui vide i Regi incatenati
    Curvar l’alte cervici umili e proni.

    Pronte a’ suoi cenni stanle d’ambo i lati
    Due Dive, dal cui sdegno e dal cui riso
    Pendon de l’universo incerti i fati.

    L’una è soave e mansueta in viso,
    E stringe con la destra il santo ulivo,
    E il mondo rasserena d’un sorriso.

    E l’altra è la ministra di Gradivo,
    Che si pasce di gemiti e d’affanni,
    E tinge il lauro in sanguinoso rivo.

    Due bandiere scotean de l’aure i vanni;
    Su l’una scritto sta: Pace a le genti,
    Su l’altra si leggea: Guerra ai Tiranni.

    Taceano al lor passar l’ire de’ venti,
    Che, survolando intorno al sacro scritto,
    Lo baciavano umili e reverenti.

    Quinci è Colei, che del comun diritto
    Vindice, a l’ima plebe i grandi agguaglia,
    Sol diseguai per merto o per delitto;

    E se vede che un capo in alto saglia,
    E sdegni assoggettarsi a la sua libra,
    Alza la scure adeguatrice, e taglia.

    E con la destra alto sospende e libra
    L’intatta inesorabile bilancia,
    Ove merto e virtù si pesa e libra.

    Non del sangue il valor, ch’è lieve ciancia,
    E tanto nocque alle cittadi, e nuoce;
    E sal Lamagna, e ’l seppe Italia e Francia.

    Dolce in vista ed umano e in un feroce
    Quindi era il patrio Amor, che ai figli suoi
    Il cor con l’alma face infiamma e cuoce;

    E i servi trasformar puote in Eroi,
    E non teme il fragor di tue ritorte,
    O Tirannia, né de’ metalli tuoi;

    Non quella cieca che si chiama sorte,
    Che i vili in Ciel locaro, e fecer Diva;
    E scritto ha in petto: O Libertate o morte.

    D’ogn’intorno commosso il suol fioriva,
    L’aura si fea più pura e più serena,
    E sorridea la fortunata riva.

    E a color che fuggir l’aspra catena,
    Prorompeva su gli occhi e su le labbia
    Impetuosa del piacer la piena;

    Come augel, che fuggì l’antica gabbia,
    Or vola irrequieto tra le frondi,
    Rade il suol, poi si sguazza ne la sabbia.

    Quindi s’udian romor cupi e profondi,
    Un franger di corone e di catene,
    Un fremer di Tiranni moribondi.

    Impugnando un flagel d’anfesibene
    La Tirannia giacevasi da canto,
    E si graffiava le villose gene.

    E i torbid’occhi si copria col manto;
    Ché la luce vincea l’atre palpebre,
    E le spremea da le pupille il pianto;

    Come notturno augel, che le latebre
    Ospiti cerca allor che il Sole incalza
    Ne’ buj recinti l’orride tenebre.

    Èvvi una cruda, che uno stile innalza,
    E ’l caccia in mano a l’uomo e dice: Scanna,
    E forsennata va di balza in balza.

    Nera coppa di sangue ella tracanna,
    E lacerando umane membra a brani,
    Le spinge dentro a l’insaziabil canna.

    E con tabe-grondanti orride mani
    I sacrileghi don su l’ara pone,
    E osa tendere al Ciel gli occhi profani.

    Che più? Sue crudeltati ai Numi appone,
    E fa ministro il Ciel di sue vendette;
    E il volgo la chiamò Religione.

    Si scolorar le faccie maledette,
    E l’una a l’altra larva s’avviticchia,
    E stan fra lor sì avviluppate e strette,

    Che il cor de l’una al sen de l’altra picchia,
    Ansando in petto, e trabalzando, e poscia
    La coppia abbominosa si rannicchia.

    Qual’è lo can che tremando s’accoscia,
    Se il signor con la verga alto il minaccia,
    Tal ristrinsersi i mostri per l’angoscia.

    Ma poi che di quell’altra in su la faccia
    Vide languir la moribonda speme,
    Colei che in sacri ceppi il volgo allaccia,

    Incorolla dicendo: E mute insieme
    Morremo e inoperose? e il nostro lutto
    Fia di letizia a chi ’l procaccia seme?

    Tutto si tenti e si ritenti tutto;
    E se morire è forza pur, si moja ,
    Ma acerbo il mondo ne raccolga frutto.

    Qualunque aspira a Libertate moja,
    Né onor di tomba o pianto abbia il ribaldo.
    E l’altra surse e gorgogliava: Moja.

    Moja, sì moja, e temerario e baldo
    Cerchi in Inferno Libertade; il fio
    Paghi col sangue fumeggiante e caldo.

    Acuto allor s’intese un sibilio
    Via per le chiome ed un divincolarsi
    E di morsi e percosse un mormorio.

    Poscia terribilmente sollevarsi
    E un barlume di speme fu veduto
    Brillar sui ceffi lividi e riarsi;

    Come allor che nel fosco aer sparuto
    In fra ’l notturno vel si mostra e fugge
    Un focherello passeggiero e muto.

    L’infame coppia si rosicchia e sugge
    Di preda ingorda la terribil ugna,
    Si picchia i lombi risonanti e rugge.

    Contra miglior voler voler mal pugna ;
    E fra la vil perfidia e la virtute
    Secura è sempre e disegual la pugna.

    Ma stavan l’aure pensierose e mute,
    E il Ciel di brama e di timor conquiso,
    E pendevan le rive irresolute.

    La Dea mirolle, e rise un cotal riso
    Di scherno e di disdegno, che dipinge
    Di gioja al giusto, al rio di tema il viso.

    E immobile in suo seggio il cocchio spinge
    Su le attonite larve, e le fracassa,
    E l’auree rote del lor sangue tinge.

    Né per timore o per desio s’abbassa,
    Ma disdegnosa e nobile in sua possa
    Alteramente le sogguarda, e passa.

    Fumò la terra di quel sangue rossa,
    Ond’esalava abbominoso lezzo,
    E da l’ime radici ne fu scossa.

    Ondeggia, crolla, e alfin si spacca, il mezzo
    Apre del sen tenebricoso, e ingoja
    Quei vituperj, e parne aver ribrezzo.

    Quinci acuto s’udì grido di gioja,
    E quindi un fioco rimbombar di duolo,
    Simile a rugghio di Leon che moja.

    S’alzò tre volte, e tre ricadde al suolo
    Spossata e vinta l’Aquila grifagna,
    Ché l’arse penne ricusaro il volo.

    Alfin, strisciando dietro a la campagna,
    Le mozze ali e le tronche ugne, fuggio
    A gl’intimi recessi di Lamagna.

    Allor prese i Tiranni un brividio,
    Che gli fe’ paventar de la lor sorte,
    E mal frenato in su le gote uscio,

    E gliele tinse d’un color di morte.

    Canto II

    Col pensier, con gli orecchi e con le ciglia
    I’ era immerso in quell’altera vista,
    Come colui che tace e maraviglia;

    Qual dicon che de’ Spirti in fra la lista,
    Stette mirando le magiche note
    Il furente di Patmo Evangelista.

    Quand’io vidi la Dea, che su l’immote
    Maladette sorelle il cocchio spinse,
    E su le infami cigolar le rote,

    Primamente un terror freddo mi strinse,
    Poi surse in petto con subita forza
    La letizia, che l’altro affetto estinse.

    Qual se fiamma divora arida scorza
    Avidamente, e d’improvviso d’acque
    Talun l’inonda, subito s’ammorza,

    Così sotto la gioja il timor giacque;
    Poi surse un novo di stupore affetto,
    E l’uno e l’altro moto in sen mi tacque.

    Però ch’io vidi un bel drappello eletto
    Di Lor che sordi furo al proprio danno,
    Caldi d’amor di Libertade il petto.

    Vidi colui che contro al rio Tiranno
    Fe’ la vendetta del superbo strupo,
    Poi che s’avvide del lascivo inganno,

    E corse furioso, come lupo,
    Se mai rapace cacciator gli fura
    I cari figli dal natio dirupo.

    E seco è Lei, che d’alma intatta e pura,
    Benché polluta ne la spoglia in vita,
    Lavò col sangue la non sua lordura.

    Quei che ritolse ai figli suoi la vita,
    Poi che ne fero uso malvagio e rio,
    Immolando a la Patria, ostia gradita,

    L’affetto di parente, e dir s’udio:
    Quei che di fede a la sua patria manca
    Non è figlio di Roma, e non è mio.

    Siegue Quei che la destra ardita e franca
    Cacciò fremendo ne le fiamme pie,
    E fe’ tremar Porsenna colla manca.

    Ve’ la Vergin che corse a le natie
    Piaggie, fuggendo del Tiranno l’onte,
    Per le amiche del Tebro ospite vie.

    Ecco quel forte, che al famoso ponte
    Contra l’Etruria congiurata tenne
    Ferme le piante e immobile la fronte.

    E l’urto d’un esercito sostenne,
    E contra mille e mille lancie stette,
    Onde immortale a’ posteri divenne.

    Ma ben poria le più sottili erbette
    Annoverar nel prato e ’n ciel le stelle
    E le arene nel mar minute e strette

    Chi noverar volesse l’alme belle
    Ch’ivi eran, di valore inclito speglio,
    Sol de la Patria e di Virtute ancelle.

    Sorgea fra gli altri il generoso Veglio,
    Che involò del Tiranno ai sozzi orgogli
    La figlia intatta, e ben fu morte il meglio.

    Fu la figlia che disse al padre: Cogli
    Questo immaturo fior: tu mi donasti
    Queste misere membra, e tu le togli,

    Pria che impudico ardir le incesti e guasti;
    E in quello cadde il colpo, e impallidiro
    Le guancie e i membri intemerati e casti,

    E uscì dal puro sen l’ultimo spiro,
    Ed a la vista orribile fremea
    Il superbo e deluso Decemviro,

    Cui stimolava la digiuna e rea
    Libidine, e struggea l’insana rabbia,
    Che i già protesi invan nervi rodea;

    Qual lupo, che la preda perdut’abbia,
    Batte per fame l’avida mascella,
    Rugge, e s’addenta le digiune labbia.

    Quindi segue una coppia rara e bella,
    Che ria di ben oprar mercede colse
    Ahi! da la Patria troppo ingrata e fella.

    V’è quel grande che Roma ai ceppi tolse,
    Indi de l’Afro le superbe mine
    E le audaci speranze in lui rivolse:

    Per cui sovra le libiche ruine
    Vide Roma discesa al gran tragitto
    Il fulgor de le fiaccole Latine.

    E quei che Magno detto era ed invitto,
    Che, insiem con Libertà, spoglia schernita
    Giacque su l’infedel sabbia d’Egitto.

    V’era la non mai doma Alma, che ardita
    Temé la servitù più de la morte,
    Amò la Libertà più de la vita;

    Dicendo: Poi che la nimica sorte
    Tanto è contraria a Libertate, e invano
    La terribile armò destra quel forte,

    Alzisi omai la generosa mano,
    E l’alma fugga pria che servir l’empio,
    Ch’io nacqui e vissi e vo’ morir Romano.

    E seco è Lei, che con novello scempio
    Dietro la fuggitiva Libertate
    Corse animata dal paterno esempio.

    Quindi un drappel venia d’ombre onorate
    Sacre a la patria, che di sangue diro
    Ne spruzzar le ruine inonorate.

    Bruto primo sorgea, che torvi in giro
    Pria torse i lumi, indi a Roma gli volse,
    E da l’imo del cor trasse un sospiro.

    E a l’ombre circostanti si rivolse,
    In cui non fu la virtù patria doma,
    Indi la lingua in tai parole sciolse:

    Ahi cara Patria! Ahi Roma! ah! non più Roma,
    Or che strappotti il glorioso lauro
    Invida man da la vittrice chioma.

    Ov’è l’antico di virtù tesauro?
    Ove, ove una verace alma Latina?
    Ove un Curio, un Fabricio, ove uno Scauro?

    Ahi! de la Libertà l’ampia ruina
    Tutto si trasse ne la notte eterna,
    Ed or serva sei fatta di reina;

    Ché il celibe Levita ti governa
    Con le venali chiavi, ond’ei si vanta
    Chiuder la porta e disserrar superna.

    E i Druidi porporati: oh casta, oh santa
    Turba di Lupi mansueti in mostra,
    Che de la spoglia de l’agnel s’ammanta!

    E il popol reverente a lor si prostra
    In vile atto sommesso, e quasi Dii
    Gli adora e cole: oh sua vergogna e nostra!

    Che valse a me di sacri ferri e pii
    Armar le destre, e franger la catena?
    Lasso! e per chi la grande impresa ardii?

    Spento un Tiranno, un altro surse, piena
    Di schiavi de la terra era la Donna,
    Infin che strinse la temuta abena

    Quei che la Galilea dimessa donna
    Trasse dal fango, e i membri sozzi e nudi
    Vestì di tolta altrui fulgida gonna;

    E maritolla a’ suoi nefandi Drudi
    Incestamente, e al vecchio Sacerdote
    A la canna scappato e a le paludi,

    Che infallibil divino a le devote
    Genti s’infinse, che a la Putta astuta
    Prestaro omaggio e le fornir la dote.

    E nel Roman bordello prostituta,
    Vile, superba, sozza e scellerata
    Al maggior offerente era venduta.

    Ivi un postribol fece, ove sfacciata
    Facea di sé mercato, ed a’ suoi Proci
    Dispensava ora un detto, ora un’occhiata.

    Ma poi che ferma in trono fu, feroci
    Sensi vestì, l’armi si cinse, e infece
    D’innocuo sangue le mal compre croci.

    E sue ministre ira e vendetta fece,
    L’inganno, la viltà, la scelleranza,
    E fe’ sua legge: Quel che giova lece.

    Quindi la maladetta Intolleranza
    Del detto e del pensier, quindi Sofia
    Stretta in catene, e in trono l’Ignoranza.

    O ditel voi, che di saver sì ria
    Mercede aveste di sospiri e pianto
    Da l’empia de l’ingegno tirannia.

    O ditel voi, ch’io già non son da tanto;
    Gridino l’ossa inonorate, e il suono
    A l’Indo ne pervenga e al Garamanto.

    Questi i diletti de l’Eterno sono?
    Questi i ministri del divin volere?
    E questi è un Dio di pace e di perdono?

    Dillo, o gran Tosco, tu, che de le spere
    Librasti il moto, e a’ tuoi nepoti un varco
    Di veritate apristi e di sapere.

    Contra te i dardi dal diabolic’arco
    Sfrenò l’invidia, e contra i tuoi sistemi
    Indarno trasse in campo e Luca e Marco.

    Empj! che di ragione i divi semi
    Spegner tentaro ne gli umani petti,
    E colpirono il ver con gli anatemi.

    Van predicando un Nume, e a’ suoi precetti
    Fan fronte apertamente, e a chi gl’imita
    Fulminan le censure e gl’interdetti.

    Povera, disprezzata, umil la vita
    Quel che tu adori in Galilea menava,
    E tu suo servo in Roma un Sibarita.

    O greggia stolta, temeraria e prava,
    Che col suo Nume e con se stessa pugna;
    Di Dio non già, ma di sue voglie schiava.

    Altri nemico di se stesso impugna
    Crudo flagello, e il sangue fonde, e ’l fura,
    A la Patria, e de’ suoi dritti a la pugna,

    Devoto suicida, ed a la dura
    Verginità consacrasi, i desiri
    Soffocando e le voci di natura.

    Stolto crudel, che fai? de’ tuoi martiri
    Forse l’amante comun Padre frue?
    O si pasce di sangue e di sospiri?

    Oh stolto! Ei nel tuo core, Ei con le sue
    Dita divine la diversa brama
    Pose Colui, che disse “sia”, e fue.

    Ei con la voce di natura chiama
    Tutti ad amarsi, e gli uomini accompagna,
    E va d’ognuno al cor ripetendo: Ama.

    E tu fuggi colei che per compagna
    Ei ti diede, e i fratei credi nemici,
    E invan natura, invan grida e si lagna.

    E tal sotto i flagelli ed i cilici
    Cela i pugnali, e vassi a capo chino
    Meditando veleni e malefici.

    O degenere figlia di Quirino,
    Che i tuoi prodi obliando, al Galileo
    Cedesti i fasci del valor Latino,

    Questi sono i tuoi Cati, e in sul Tarpeo
    Dei nostri figli si fan scherno e gioco...
    Ma qui si tacque, e dir più non poteo;

    Ché tal la carità del natio loco
    Lo strinse, e sì l’oppresse, che morio
    La voce in un sospir languido e fioco.

    Quindi tra le commosse ombre s’udio
    Sorgere un roco ed indistinto gemito,
    Poscia un cupo e profondo mormorio;

    Sì come allor che con interno tremito
    Quassano i venti il suol che ne rimbomba,
    S’ode sonar da lunge un sordo fremito,

    Che tra le foglie via mormora e romba.

    Canto III

    I tronchi detti e il lagrimoso volto
    Di quella generosa Anima bella
    Avean là tutto il mio pensier raccolto,

    Quando tutto a sé ’l trasse una novella
    Turba, che di rincontro a me venia,
    D’abito più recente e di favella.

    Confuso e irresoluto io me ne gìa,
    Com’uom che in terra sconosciuta mova,
    Che lento lento dubbiando s’avvia.

    Ed erano color che per la nova
    Libertade s’alzar fra l’alme prime,
    Di sé lasciando memoranda prova.

    Grandeggiava fra queste una sublime
    Alma, come fra ’l salcio umile e l’orno
    Torreggian de’ cipressi alto le cime.

    Avea di belle piaghe il seno adorno,
    Che vibravan di luce accesa lampa,
    E fean più chiaro quel sereno giorno;

    Ché men rifulge il sol quando più avvampa,
    E sovra noi da lo stellato arringo
    L’orme fiammanti più diritte stampa.

    Allor ch’egli me vide il pie’ ramingo
    Traggere incerto per l’ignota riva,
    Meditabondo, tacito e solingo,

    A me corse, gridando: Anima viva,
    Che qua se’ giunta, u’ solo per virtute,
    E per amor di Libertà s’arriva;

    Italia mia che fa? di sue ferute
    È sana alfine? è in Libertate? è in calma?
    O guerra ancor la strazia e servitute?

    Io prodigo le fui di non vil alma,
    E nel cruento suo grembo ospitale
    Giacqui barbaro pondo, estrania salma.

    Né m’accolse nel seno il suol natale,
    Né dolce in su le ceneri agghiacciate
    Il suon discese del materno vale.

    Barbaro estranio tu? non son sì ingrate
    L’anime Italiane, e non è spento
    L’antico senso in lor de la pietate.

    Oh qual non fece Insubria mia lamento
    Più sul tuo fato, che sul suo periglio!
    Ahi! con lagrime ancor me ne rammento.

    E te, discinta e scarmigliata, figlio
    Chiamò, baciando il tronco amato e santo,
    E con la destra ti compose il ciglio.

    E adorò ’l tuo cipresso al quale accanto
    Il caro germogliò lauro e l’ulivo,
    Che i rai le terse del bilustre pianto.

    Li terse? Ahi no! ché a lei costonne un rivo,
    Che inondò i membri inanimati e rubri
    Di te, che ’n cielo e ne’ bei cor se’ vivo.

    Deh! resti a noi, dicean le rive Insubri,
    Deh! resti a noi, ma l’onorata spoglia
    Trasse Francia gelosa a’ suoi delubri.

    Ma de l’itala sorte, onde t’invoglia
    Tanto desio, come farò parola?
    Ché un seme di Tiranni vi germoglia.

    E sotto al giogo de la greve stola
    La gran Donna del Lazio il collo spinse,
    E guata le catene, e si consola.

    E Partenope serve a lei, che vinse
    In crudeltà la Maga empia di Colco,
    E de’ più disumani il grido estinse.

    Ed il Siculo e ’l Calabro bifolco
    Frange a crudo signor le dure glebe,
    E riga di sudore il non suo solco.

    Al mio dir disiosa urtò la plebe
    Un’ombra, sì com’irco spinge e cozza
    In su l’uscita le ammucchiate zebe.

    Avea i luridi solchi in su la strozza
    Del capestro, e la guancia scarna e smunta,
    E la chioma di polve e sangue sozza.

    E’ surse de le piante in su la punta,
    Come chi brama violenta tocca,
    E uno sciame d’affetti in sen gli spunta,

    Ed il cor sopraffatto ne trabocca
    Inondato e sommerso, e l’alma fugge
    Su la fronte, su gli occhi e su la bocca.

    Poi gridò: L’empia vive, e non l’adugge
    Il telo, che temuto è sì là giue?
    E ’l dolce lume ancor per gli occhi sugge?

    Né pur la pena di sue colpe lue,
    Ma vive, e vive trionfante, e regna:
    Regna, e del frutto di sue colpe frue.

    O tu, diss’io, che sì contra l’indegna
    Ardi, che in crudeltate al mondo è sola,
    Spiegami il duol che sì l’alma t’impregna.

    Più volte egli tentò formar parola,
    Ma sul cor ripiombò tronca la voce;
    Che ’l duol la sospingeva ne la gola;

    Sì come arretra il suo corso veloce,
    E spumeggia e gorgoglia onda restia,
    Se impedimento incontra in su la foce.

    Ma poi che vinse il duol la cortesia,
    E per le secche fauci il varco aperse,
    E fu spianata al ragionar la via,

    Gridò: Tu vuoi ch’io fuor dal seno verse
    Il duol, che tanto già mi punse e punge,
    Se pur si puote anco qua su dolerse.

    Ma in quale arena mai grido non giunge
    Di sua nequizia e de’ fatti empi e rei?
    E sia pur, quanto esser si voglia, lunge.

    Io di sua crudeltà la prova fei,
    E giacqui ostia innocente in su l’arena,
    Per amor de la Patria e di Costei,

    Di ciò l’alma e la bocca ebbi ognor piena,
    Che a me fu sempre fida stella e duce,
    Ed or mi paga la sofferta pena.

    Poi che apparve un’incerta e dubbia luce
    Sovra l’Italia addormentata, e sparve,
    Onde la notte nereggiò più truce,

    E una benigna Libertade apparve,
    Che al duro appena ci rapì servaggio,
    Indi sparì come notturne larve,

    Io corsi là, com’a un lontano raggio
    Correndo e ansando il pellegrin s’affretta,
    Smarrito fra ’l notturno ermo viaggio.

    Ahi breve umana gioja ed imperfetta!
    Venne, con l’armi no, con le catene
    Una ciurma di schiavi maladetta.

    E gli abeti secati a le Rutene
    Canute selve del Cumeo Nettuno
    Gravaro il dorso, e ne radean le arene.

    Corse fremendo ed ululando il bruno
    Tartaro antropofàgo, che per fame
    Spalanca l’atro gorgozzul digiuno.

    E l’Anglo avaro, che mercato infame
    Fa de le umane vite, e in quella sciarra
    Lo spinsero de l’or le ingorde brame.

    Né più i solchi radea sicula marra,
    Né più la falce, ma le verdi biade
    Mieteva la cosacca scimitarra.

    E non bastar le peregrine spade;
    Ché la Patria ancor essa, ahi danno estremo!
    Vomitò contra sé fiere masnade.

    Ahi che in pensando ancor ne scoppio e fremo!
    Qual dal carcer sboccato e qual dal chiostro,
    Qual tolto al pastorale e quale al remo.

    Oh ciurma infame! e un porporato mostro
    Duce si fe’ de le ribelli squadre,
    Celando i ferri sotto al fulgid’ostro.

    Costor le mani violente e ladre
    Commiser ne la Patria, e tutta quanta
    D’empie ferite ricovrir la madre.

    Di Libertà la tenerella pianta
    Crollar, sì come d’Eolo irato il figlio
    L’aereo pin da le radici schianta.

    Poscia un confuso regnava bisbiglio,
    Un sordo mormorar fra denti ed una
    Paura, un cupo sovvolger di ciglio;

    Come allor che da lunge il ciel s’imbruna,
    Siede sul mar, che a poco a poco s’ange,
    Una calma che annunzia la fortuna;

    Mentre cigola il vento, che si frange
    Tra le canne palustri, e cupo e fioco
    Rotto dai duri massi il fiotto piange.

    Ma surse irata la procella, poco
    Durò la calma e quel servir tranquillo;
    Sangue al pianto successe e ferro e foco.

    E l’aer muto ruppe acuto squillo
    Annunziator di stragi, e sulla torre
    L’atro di morte sventolò vessillo.

    Il furor per le vie rabido scorre,
    E con grida i satelliti, e con cenni
    Incora e sprona, e a nova strage corre.

    Allor s’ode uno strider di bipenni,
    Un cupo scroscio di mannaje. Ahi come
    Oltre veder con questi occhi sostenni!

    Chi solo amò di Libertate il nome,
    O appena il proferì, dai sacri lari
    Strappato e strascinato è per le chiome.

    Ai casti letti venian que’ sicari,
    Qual di lupi digiuni atro drappello,
    D’oro e di sangue e di null’altro avari.

    E invan le spose al violato ostello,
    Di lagrime bagnando il sen discinto,
    Fean con la debil man vano puntello;

    Ché fin fu il ferro, ahimè! cacciato e spinto
    Entro il seno pregnante: oh scelleranza!
    E il ferro, il ferro da l’orror fu vinto.

    Gli empj no, che con fiera dilettanza
    Pascean gli sguardi disiosi e cupi,
    E fean periglio di crudel costanza.

    E i pargoletti a que’ feroci lupi
    Con un sorriso protendean le mani,
    Con un sorriso da spetrar le rupi.

    Ed essi, oh snaturati! oh in volti umani
    Tigri! col ferro rimovean l’amplesso,
    E fean le membra tenerelle a brani.

    Non era il grido ed il sospir concesso;
    Era delitto il lagrimar, delitto
    Un detto, un guardo ed il silenzio istesso.

    Morte gridava irrevocando editto.
    La coronata e la mitrata stizza
    L’avean col sangue d’innocenti scritto.

    Intanto a mille eroi l’anima schizza
    Dal gorgozzule oppresso, e brancolando
    Il tronco informe su l’arena guizza.

    Anelando, fremendo, mugolando
    Gli spirti uscien da’ straziati tronchi,
    Non il lor danno, ma il comun plorando.

    Ivi sorgean due smisurati tronchi,
    Cui l’adunato sangue era lavacro,
    E d’intorno eran membri e capi cionchi.

    Quinci era il tronco infame a morte sacro,
    Irto e spumoso di sanguigna gruma,
    Quindi stava di Cristo il simulacro;

    E il percotea la fluttuante schiuma,
    Che fea del sangue e de la tabe il lago,
    Che ferve e bolle e orrendamente fuma.

    Fiero portento allor si vide, un vago
    Spettro spinto da voglia empia ed infame
    Lieto aggirarsi intorno al tristo brago.

    Avidamente pria fiutò il carname,
    E rallegrossi, e poi con un sogghigno
    Guatò de’ semivivi il bulicame.

    Quindi il muso tuffò smilzo ed arcigno,
    E il diguazzò per entro a la fiumana,
    E il labbro si lambì gonfio e sanguigno.

    Come rabido lupo si distana,
    Se a le nari gli vien di sangue puzza,
    E ringhia e arrota la digiuna scana,

    E guata intorno sospicando, e aguzza
    Gli orecchi e ognor s’arretra in su i vestigi,
    Così colei, che di sua salma appuzza

    Le viscere cruente di Parigi,
    Rigurgitando velenosa bava,
    La barbara consorte di Luigi,

    Venia gridando: Insana ciurma e prava,
    Che noi di crudi e di Tiranni incolpe,
    E al regno agogni, nata ad esser schiava,

    Godi or tuoi dritti, e de le nostre colpe
    Il fio tu paga, e sì dicendo morse
    Le membra, e rosicchiò l’ossa e le polpe.

    Indi da l’atro desco il grifo torse
    Gonfia di sangue già, ma non satolla,
    Quando novo spettacolo si scorse.

    Venia uno stuolo di Leviti, colla
    Faccia di rabbia e di furor bollente,
    E inzuppata di sangue la cocolla.

    Ciascun reca una coppa, e d’innocente
    Sangue l’empiero, e le posar su l’ara.
    E lo vide e ’l soffrì l’Onnipossente!

    E disser: Bevi, e fean quegli empj a gara.
    Danzava intorno oscenamente Erinni,
    E scoteva la cappa e la tiara.

    E i profani s’udian rochi tintinni
    De’ bronzi, e l’aria, con le negre penne,
    Gl’infernali scotean diabolic’inni.

    Bramata alfine ed aspettata venne
    A me la morte, ed il supremo sfogo
    Compì su la mia spoglia la bipenne.

    Allora scossi l’abborrito giogo,
    E, l’ali aprendo a la seconda vita,
    Rinacqui alfin, come fenice in rogo.

    Ed ancor tace il mondo? ed impunita
    È la Tigre inumana, anzi felice,
    E temuta dal mondo e riverita?

    Deh! vomiti l’accesa Etna l’ultrice
    Fiamma, che la città fetente copra,
    E la penetri fino a la radice.

    Ma no: sol pera il delinquente, sopra
    Lei cada il divo sdegno e sui diademi,
    Autori infami de l’orribil’opra.

    E fin da lunge ne’ recessi estremi,
    Ove s’appiatta, e ne’ covigli occulti
    L’oda l’empia Tiranna, odalo e tremi.

    E disperata mora, e ai suoi singulti
    Non sia che cor s’intenerisca e pieghi,
    E agli strazj perdoni ed a gli insulti,

    O dal Ciel pace a l’empia spoglia preghi;
    Ma l’universo al suo morir tripudi,
    E poca polve a l’ossa infami neghi.

    E l’alma dentro a le negre paludi
    Piombi, e sien rabbia assenzio e fel sua dape,
    E tutto Inferno a tormentarla sudi,

    Se pur tanta nequizia entro vi cape.

    Canto IV

    Tacque ciò detto, e su l’enfiate labbia
    Gorgogliava un suon muto di vendetta,
    Un fremer sordo d’intestina rabbia.

    E le affollate intorno ombre, “vendetta”
    Gridar, “vendetta”, e la commossa riva
    Inorridita replicò “vendetta”.

    I torbid’occhi il crino a lui copriva;
    Fascio parea di vepri o di gramigna,
    Onde un’atra erompea luce furtiva;

    Come veggiamo il sol, se una sanguigna
    Nugola il raggio ne rinfrange, obbliqua
    Vibrar l’incerta luce e ferrugigna.

    Ahi di Tiranni ria semenza iniqua,
    De gli uomini nimica e di natura,
    Or hai pur spenta l’empia sete antiqua!

    Gonfia di sangue la corrente e impura
    Portò l’umil Sebeto, e de la cruda
    Novella Tebe flagellò le mura.

    Tigre inumana di pietate ignuda,
    Tu sopravvivi a’ tuoi delitti? un Bruto
    Dov’è? chi ’l ferro a trucidarti snuda?

    Questi sensi io volgea per entro al muto
    Pensier, che tutto in quell’orror s’affisse,
    Allor che venne al mio veder veduto

    D’Insubria il Genio, che le luci fisse
    In me tenendo, armoniosa e scorta
    Voce disciolse, e scintillando disse:

    Mortal, quello che udrai là giuso porta.
    Deh! gli alti detti a la mal ferma e stanca
    Mente richiama, o Musa, e mi sia scorta.

    Tu la cadente poesia rinfranca,
    Tu la rivesti d’armonia beata,
    E tu sostieni la virtù, che manca;

    Tu l’ali al pensier presta, o Diva nata
    Di Mnemosine, e fa’ che del mio plettro
    Esca la voce ai colti orecchi grata,

    E spargi i detti miei d’eterno elettro.
    Già, proseguiva, del real potere
    Sei sciolta, Insubria, e infranto hai l’empio scettro.

    Ché gli ubertosi colli e le riviere,
    Ove Natura a se medesma piace,
    No, che non son per le Tedesche fiere.

    Pace altra volta tu le desti, pace,
    O Tiranno, giurasti, e udir le genti
    Il real giuro, e lo credean verace.

    Ma di Tiranno fede i sacramenti
    Frange e calpesta, e la legge de’ troni
    Son gl’inganni, i spergiuri, i tradimenti.

    Venne in fin dai settemplici trioni,
    Da te chiamato, e da le fredde rupi
    Un torrente di bruti e di ladroni.

    Come in aperto ovile iberni lupi,
    Tal su l’Insubria si gittar quegli empi,
    Di sangue ghiotti, di rapine e strupi.

    Fino i sacri vestibuli di scempi
    Macchiaro e d’adulteri. Oh quali etati
    Fur mai feconde di siffatti esempi?

    Ma non fur quegli insulti invendicati,
    Né il vizio trionfò: l’infame tresca
    Franse il ferro e ’l valor: gli addormentati

    Spirti destarsi alfin, e la Tedesca
    Rabbia fu doma, e le fiaccò le corna
    La virtù Cisalpina e la Francesca.

    Torna, arrogante a questi lidi, torna;
    Qui roco ancor di morte il telo romba,
    Qui la tua morte appiattata soggiorna.

    Qui il cavo suol de’ sepolcri rimbomba
    De la tua pube, che ancor par che gema:
    Vieni in Italia, e troverai la tomba.

    Altra volta scendesti avido, e scema
    Ti fu l’audacia temeraria e sciocca:
    Rammenta i campi di Marengo, e trema.

    Ché la fatal misura ancor trabocca;
    Non affrettar de la vendetta il die,
    Il dì che impaziente è su la cocca.

    Pace avesti pur anco, e questa fie
    La novissima volta; in l’alemanno
    Confin le tigri tue frena e le arpie.

    Ma tu, misera Insubria, d’un Tiranno
    Scotesti il giogo, ma t’opprimon mille.
    Ahi che d’uno passasti in altro affanno!

    Gentili masnadieri in le tue ville
    Succedettero ai fieri, e a genti estrane
    Son le tue voglie e le tue forze ancille.

    Langue il popol per fame, e grida: “pane”;
    E in gozzoviglia stansi e in esultanza
    Le Frini e i Duci, turba, che di vane

    Larve di fasto gonfia e di burbanza,
    Spregia il volgo, onde nacque, e a cui comanda,
    A piena bocca sclamando: Eguaglianza;

    Il volgo, che i delitti e la nefanda
    Vita vedendo, le prime catene
    Sospira, e ’l suo Tiranno al ciel domanda.

    De l’inope e del ricco entro le vene
    Succian l’adipe e ’l sangue, onde Parigi
    Tanto s’ingrassa, e le midolle ha piene.

    E i tuoi figli? I tuoi figli abbietti e ligi
    Strisciangli intorno in atto umile e chino.
    E tal di risse amante e di litigi

    D’invido morso addenta il suo vicino,
    Contra il nemico timido e vigliacco,
    Ma coraggioso incontro al cittadino.

    Tal ne’ vizj s’avvolge, come ciacco
    Nel lordo loto fa; soldato esperto
    Ne’ conflitti di Venere e di Bacco.

    E tal di mirto al vergognoso serto
    Il lauro sanguinoso aggiunger vuole,
    Ricco d’audacia, e povero di merto.

    Tal pasce il volgo di sonanti fole:
    Vile! e di patrio amor par tutto accenso,
    E liberal non è che di parole.

    E questi studio d’allargare il censo
    Avito rode, e quel tal altro brama
    Di farsi ricco di tesoro immenso.

    Senti costui, che “morte, morte” esclama,
    E le vie scorre, furibonda Erinni,
    Di sangue ingordo, e dove può si sfama.

    Vedi quei, che sua gloria nei concinni
    Capei ripone. Oh generosi Spirti
    Degni del giogo estranio e de’ cachinni!

    Odimi, Insubria. I dormigliosi spirti
    Risveglia alfine, e da l’olente chioma
    Getta sdegnosa gli Acidalj mirti.

    Ve’ come t’hanno sottomessa e doma,
    Prima il Tedesco e Roman giogo, e poi
    La Tirannia, che Libertà si noma.

    Mira le membra illividite e i tuoi
    Antichi lacci; l’armi, l’armi appresta,
    Sorgi, ed emula in campo i Franchi Eroi.

    E a l’elmo antico la dimessa cresta
    Rimetti, e accendi i neghittosi cori,
    E stringi l’asta ai regnator funesta;

    Come destrier, che fra l’erbette e i fiori,
    Placido, in diuturno ozio recuba,
    Sol meditando vergognosi amori,

    Scote nitrendo la nitente giuba,
    Se il torpido a ferirlo orecchio giugne
    Cupo clangor di bellicosa tuba,

    E stimol fiero di gloria lo pugne,
    Drizza il capo, e l’orecchio al suono inchina,
    E l’indegno terren scalpe con l’ugne.

    Contra i Tiranni sol la cittadina
    Rabbia rivolgi, e tienti in mente fiso,
    Che fosti serva, ed or sarai reina.

    Disse e tacque, raggiandomi d’un riso,
    Che del mio spirto superò la forza,
    Così ch’io ne restai vinto e conquiso.

    Mi scossi, e la rapita anima a forza,
    Come chi tenta fuggire e non puote,
    Cacciata fu ne la mortale scorza.

    Io restai come quel che si riscote
    Da mirabile sogno, che pon mente
    Se dorme o veglia, e tien le ciglia immote.

    O Pieride Dea, che ’l foco ardente
    Ispirasti al mio petto, e i sempiterni
    Vanni ponesti a la gagliarda mente,

    Tu, Dea, gl’ingegni e i cor reggi e governi,
    E i nomi incidi nel Pierio legno,
    Che non soggiace al variar de’ verni.

    Tu l’ali impenni al Ferrarese ingegno,
    Tu co’ suoi divi carmi il vizio fiedi,
    E volgi l’alme a glorioso segno.

    Salve, o Cigno divin, che acuti spiedi
    Fai de’ tuoi carmi, e trapassando pungi
    La vil ciurmaglia, che ti striscia ai piedi.

    Tu il gran Cantor di Beatrice aggiungi,
    E l’avanzi talor; d’invidia piene
    Ti rimiran le felle alme da lungi,

    Che non bagnar le labbia in Ippocrene,
    Ma le tuffar ne le Stinfalie fogne,
    Onde tal puzzo da’ lor carmi viene.

    Oh limacciosi vermi! Oh rie vergogne
    De l’arte sacra! Augei palustri e bassi;
    Cigni non già, ma Corvi da carogne.

    Ma tu l’invida turba addietro lassi,
    E le robuste penne ergendo, come
    Aquila altera, li compiangi, e passi.

    Invano atro velen sovra il tuo nome
    Sparge l’invidia, al proprio danno industre,
    Da le inquiete sibilanti chiome.

    Ed io puranco, ed io, Vate trilustre,
    Io ti seguo da lunge, e il tuo gran lume
    A me fo scorta ne l’arringo illustre.

    E te veggendo su l’erto cacume
    Ascender di Parnaso alma spedita,
    Già sento al volo mio crescer le piume.

    Forse, oh che spero! io la seconda vita
    Vivrò, se a le mie forze inferme e frali
    Le nove Suore porgeranno aita.

    Ma dove mi trasporti, estro? mortali
    Son le mie penne, e periglioso il volo,
    Alta e sublime è la caduta; l’ali

    Però raccogli, e riposiamci al suolo.




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