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Alessandro Manzoni
A G. Battista Pagani
Saepe stylum vertas
Perché, Pagani, de l’assente amico
Non immemore vivi, il ciel ti serbi
Sano e celibe sempre: or breve al tuo
Di me benigno interrogar rispondo.
Valido è il corpo in prima, e tal che l’opra
Non chiegga di Galen; men sano alquanto
Il frammento di Giove; e non è rado
Che a purgar quei due morbi, ira ed amore,
O la smania d’onor mi giovin l’erbe
De l’orto Epicureo. Che se mi chiedi
A che l’ingegno giovanetto educhi:
Non a cercar come si possa in campo
Mandar più vivi a Dite, o con la forza
Nel robusto cerebro ad un volere
Ridur le mille volontà del volgo;
Ma misurar parole, e i miei pensieri
Chiuder con certo pie’, questa è la febre,
Da cui virtù di Farmaco o di voto
Non ho speranza che sanar mi possa.
Pensier null’altro io m’ebbi in fin d’allora
Che a me tremante il precettor severo
Segnava l’arte, onde in parole molte
Poco senso si chiuda; ed io, vestita
La gonna di Vetturia, al figlio irato
Persuadea coi gonfi sillogismi
Che, posto il ferro parricida, amico
E umil tornasse e ripentito a Roma,
Allor sol degno del materno amplesso.
Me da la palla spesso e da le noci
Chiamava Euterpe al pollice percosso
Undici volte; né giammai di verga
Mi rosseggiò la man perché di Flacco
Recitar non sapessi i molli scherzi
O le gare di Mopso, o quel dolente:
“Voi che ascoltate in rime sparse il suono”.
Ed or, di pel già asperso il volto e quasi
Fra i coscritti censito, in quella mente
Vivo; e quant’ozio il fato e i tempi iniqui
A me concederanno ho stabilito
Consecrarlo a le Muse. Or come il mio
Furor difenda, o dolce amico, ascolta.
“Il Savio è re, libero, bello e Giove”,
Zenon barbato insegna; or, perché pari
Temeaci a lui, quel buon Figliuol di Rea
Temprò di molta insania il divo foco,
Onde il Deucalioneo selce s’informa.
Quindi brama talun che dal suo muro
pendan avi dipinti; altri che a lui
Ridan da l’arca impenetrabil molti
Cesari fulvi; altri a l’avita Pale
Nato in capanna umil vorria la veste
Sparger d’oro pretorio. Odi quest’altro:
Oh s’io posso il mio tetto alzar sul fumo
De l’umile vicino, e nel palagio
Entrar da quattro porte! E quei che tenta
Eccelsi fatti, onde del figlio il figlio
Di lui favelli; e seminar s’affanna
Ciò che raccolga ne la tomba? E sano
Direm colui, che di precetti spera
Far sano il mondo? A me più mite forse
Giove impose il far versi; a che la mente
Di sì bella follia purgar mi curo,
Onde ad altra nocente, o men soave
Dare il voto cerebro e il docil petto?
Or ti dirò perché piuttosto io scelga
Notar la plebe con sermon pedestre,
Che far soggetto ai numeri sonanti
Opre d’antichi eroi. Fatti e costumi
Altri da quel ch’io veggio a me ritrosa
Nega esprimer Talia. Che se propongo
Dir Penelope fida e il letto intatto
De l’aspettato Ulisse, ecco a la mente
Lidia m’occorre, che di frutti estrani
Feconda l’orto del marito, cui
Non Ilio pertinace o il vento avverso,
Ma il prego mattutino o l’affrettata
Visita de l’amico, o il diligente
Mercurio tiene ad ingrassare il censo
De l’erede non suo. L’imprese appena
Tento di Cincinnato e il glorioso
Ferro alternato alla callosa destra
O i Legati di Pirro innanzi al duro
Mangiator del magnanimo Legume,
Tosto Fulvio rammento, il qual pur jeri
Villano, oggi pretor, poco si stima
Minor di Giove, e spaventarmi crede
Con la forzata maestà del guardo.
Che se dirai, che di famose gesta
Non men che al tempo di quei prischi grandi
Abbonda il secol nostro, io lo confesso:
Ma non ho voce onde a cantare io vaglia
Le battaglie, le Leggi, e i rinnovati
Fra noi Greci e Quiriti, e quella cieca
Famosa falce, che trovò l’acuto
Gallico ingegno, onde accorciar con arte
La troppo lunga in pria strada di Lete.
Venezia, 25 marzo 1804