Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Alessandro Manzoni

    Panegirico a Trimalcione

    Poi che sdegnato dai patrizi deschi
    Partissi Como, ed a la sua nemica
    Temperanza diè loco, a nove mense
    Bacco recando e la seguace Gioja
    E i rari augelli e i preziosi parti
    De la greggia di Proteo e i macri servi
    Del biondo nume, io, del bel numer uno,
    A la tua ricca mensa, o generoso
    Trimalcione, lo seguo, e a l’affollata
    Cena il mio ventre e la mia lira aggiungo.
    Ma che dirò che dal tuo divo ingegno
    Merti plauso indulgente? Ed al conviva
    Faccia dal caro piatto ergere il grifo,
    E strappi un bravo, al qual confuso e rotto
    Contenda il varco l’occupata bocca?
    Cui di tuo cuor l’altezza, e di tua mente
    Non è noto l’acume? E l’infinito
    Favor di Pluto e i greggi e i lati campi,
    Che apprestavano un tempo al cocollato
    Figliuol di Benedetto e di Bernardo
    Gli squisiti digiuni? Io de’ tuoi pregi
    Il men noto finor, forse il più grande,
    Farò soggetto al canto. Io di tua stirpe
    Porrò in luce i gran fatti, e torrò il velo
    A le origini auguste, a cui non giunse
    Occhio profano mai; siccome un tempo
    Negava il Nil le mistiche sorgenti
    Al curioso adorator d’Osiri.
    L’origin, dunque, gl’incrementi e i casi
    Dimmi, immortal Camena, onde l’egregio
    Trimalcion da l’occupata mente
    Di Giove e da l’inglorio ozio del caos
    Venne a l’onor de la beata mensa.
    A quel che primo a me rammenta Euterpe
    Piacquer l’armi eleusine e la divina
    Gloria del campo: come un tempo è fama
    Che profugo dal ciel di Giove il padre
    Col ferro il grembo conjugal fendesse
    De la gran madre de gli Dei Tellure.
    Ma il pacifico solco e le modeste
    Arti del padre fastidì l’ardente
    Spirto del figlio, e salutato il tetto
    Ed il natal suo regno, andò cercando
    Novo campo d’onor sott’altro cielo.
    Quei che da Troja fuggitivo e spinto
    Da l’iniqua Giunon tanti anni corse
    Ver la fuggente Italia, ov’ebbe alfine
    L’impero e il tempio e di Maron la tromba,
    Taccio innanzi a costui ch’esule, inerme,
    Sempre in guerra con Pluto, in terre estrane
    Portò su le pie spalle i Lari algenti.
    Taccio Creusa e l’infelice Elissa;
    Né a sue gran genti aggiungerò l’immenso
    Stuol de’ piccioli Ascanii, ond’egli accrebbe
    Le discorse città. Te sol rammento,
    Vergin bella e pudica, unico frutto
    Di stabile Imeneo, te che sdegnasti
    Giunger tua destra a mortal destra, e il Divo
    Nome sacro de’ tuoi cedere al nome
    Di terrestre marito. Ohimè! recisa
    Dunque è l’augusta pianta! Or dove sono
    Gli sperati nipoti ed il promesso
    Trimalcione? E tu il comporti, o Giove?
    Ma che favello io stolto? Ecco, oh stupore!
    Sotto la zona verginal, che appesa
    Al profano sacello Amor non vide,
    Crescer l’intatto grembo; e viva e vera
    Uscirne al mondo l’insperata prole.
    Di qual semenza, di qual gente assai
    Fu contesa fra il volgo. A me, dal volgo
    Tratto in disparte, la fatal cortina
    Rimove Apollo, ove i gran fatti ei cela.
    E m’accenna col dito il ferreo Marte
    Che in remota selvetta il santo rito
    d’Ilia rinnova, e l’atterrita virgo
    Che per fuggir s’affanna, rispingendo
    L’istante Nume, e fassi invano usbergo
    Le inviolate bende, e scuoter tenta
    Il futuro Quirin, che il destinato
    Alvo ricerca, e il puro seggio occupa;
    E Amor che sorridendo i rami affolta,
    Ed intricando i pronubi virgulti
    Fa siepe intorno, e la facella ammorza,
    Perché maligno non penetri il guardo!
    Tanta agli Dei di sì gran gente è cura!
    Né il sangue avito ed il natal divino
    Smentì il marzio fanciullo; anzi l’antico
    Padre emulando dei rettor del mondo
    Sparse il fraterno sangue, e quanti e quali
    Entro il solco fatal Romolo accolse
    Volle compagni al fianco. Oh! qual s’avanza
    D’amore esemplo e di gentili studj
    Nobilissima coppia? Io vi saluto,
    Chiari gemelli, onde la fama è vinta
    Del prisco ovo di Leda: e te cui piacque
    Impor cavalli al cocchio: e te che amasti
    Nei fori e ne le vie sacre a Diana
    Scagliar pietre volanti, ed incombente
    Corpo atterrar di poderoso atleta.
    Che più vi resta? Alti nel ciel locarvi
    Fra il Cancro ardente e il rapitor d’Europa.
    Raggio invocato ai pallidi nocchieri,
    E accoglier miti con sereno volto
    Da le salvate prore inni votivi.
    Spesso Saturnio e il popol suo degnaro,
    Velato intorno di mortal sembianza
    L’inostensibil Dio, scender dal cielo
    A popolar la terra. Il sa di Acrisio
    La invan triplice torre: il sa la bella
    Sicula piaggia che mirò presente
    L’amante Pluto e vide il puro cielo
    Contaminato d’infernal tenebra
    Ed immonda favilla, e allividite
    L’erbe e i fior pesti da l’ugne fuggenti
    Dei corsieri d’Averno, e i chiari fonti
    Arsi al passar de le roventi rote.
    Né pochi eroi di sempiterno seme
    Creati o di divin concepimento
    Vanta l’evo primier; ma poi che mista,
    E adulterata di mortal semenza
    Cresce la stirpe, ne la turba immensa
    Dei morituri si confonde, e accusa
    La comun pasta del Giapezio loto.
    Non così l’alta stirpe, onde cantiamo,
    Muse figlie di Giove; anzi dal suolo
    Poggia a le sfere, e per sublimi gradi
    De’ semidei terrestri ascende ai Numi.
    Ché un Dio ben è colui che segue, al pari
    Del facondo Cillenio abil messaggio
    Di nunzi arcani e con giocoso furto
    Al par destro a celar quanto gli piacque.
    Quale stupor se a tanto senno, a tanta
    Virtù mercede infami ceppi e dira
    Croce donar di Pirra i ciechi figli!
    O degnato abitar l’ingrata terra,
    Perché, divo immortal, perché patisti
    Sì ratto esserci tolto? Oh se a la nostra
    Età più saggia eri servato, allora
    Che i primi fasci a noi recò Sofia,
    Te gran lator di legge e del comune
    Dritto tutor sui clamorosi scanni
    Mirato avria lo stupefatto volgo.
    Or m’aprite Elicona, o Dee sorelle,
    Abitatrici dell’Olimpia rocca
    Che alta la cima infra le nubi asconde,
    Ov’io poeta or salgo. E qual di voi
    Tant’alto il canto mio sciorrà, ch’io vaglia
    Con degno verso celebrar, se tanto
    Lice a lingua mortal, de l’arbor sacro
    L’estreme frondi, onde il gran frutto è nato
    Ch’io qui presente adoro? Ei l’arti vostre
    Seguir degnossi, e il nome suo risplende
    Negli annali di Pindo. Ei sol potea
    Cantar se stesso; io le famose gesta
    Di tenue Musa adombrerò qual posso.
    E certo al nascer suo l’acuto ingegno
    Invase auspice Febo. Ospite muro
    Né certa patria a lui concesse il fato,
    Né d’altro avea del suo fuor che la lira.
    Tal che il sommo poeta, ohimè! vergogna!
    Fu costretto a varcar le iberne cime;
    E in man recando la frassinea cetra
    Ed il Dircio turcasso, andò gli orecchi
    A lusingar de gli unguentati eroi
    E del Mavorzio mercator britanno.
    Poi che la sorte e l’onorate prove
    Di Guerrino ei cantava, e i detti alteri,
    Gl’incantati palagi e l’aste infrante,
    Gli arcion vuotati e le guerriere vergini
    Dei convivi d’Artur. Né tu, ch’io creda,
    A contesa verrai, benché ti vanti
    Secondo ad Alighier, primo ad ogni altro,
    Eridanio cantore. I merti e l’opre
    Di quella tacerò che a lui fu sposa,
    Madre a Trimalcion. Che non, se cento
    Bocche a voce di bronzo in petto avessi,
    Potrei dir tanto che il soggetto adegui.
    Sol questo io canterò, ch’ella fu prima
    Di Venere ministra e dei suoi doni
    Larga dispensatrice: e se null’altra
    Luce di padri e nobiltà di sangue
    Ell’avesse quaggiù, ciò fora assai
    Per collocarla infra l’eccelse dame.
    Or chi m’apre il futuro? Oh qual vegg’io
    Schiera d’eroi non nati! Ecco togati
    Vindici de le leggi e d’oro aspersi
    Correttori di popoli. Tremate,
    Barbare madri: ecco i guerrier di Marte.
    Oh quanto sangue a voi sovrasta! Oh quanto
    Pianger pe’ figli in stranio suol sepolti!
    Ma dove siamo, o Febo? Io te sì ratto
    Seguia con l’ale del pensier su l’alte
    Cime di Pindo, che sul desco adorno
    Il fagian si raffredda, ed il valletto
    Toglier l’onor già de la mensa anela;
    E me a l’usato uffizio e al lavor dolce
    Chiama il rinato lamentar del ventre.




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