Library / Literary Works |
Alessandro Manzoni
Urania
Su le populee rive e sul bel piano
Da le insubri cavalle esercitato,
Ove di selva coronate attolle
La mia città le favolose mura,
Prego, suoni quest’Inno: e se pur degna
Penne comporgli di più largo volo
La nostra Musa, o sacri colli, o d’Arno
Sposa gentil, che a te gradito ei vegna
Chieggo a le Grazie. Chè dai passi primi
Nel terrestre viaggio, ove il desio
Crudel compagno è de la via, profondo
Mi sollecita amor che Italia un giorno
Me de’ suoi vati al drappel sacro aggiunga,
Italia, ospizio de le Muse antico.
Nè fuggitive dai laureti achei
Altrove il seggio de l’eterno esiglio
Poser le Dive; e quando a la latina
Donna si feo l’invendicato oltraggio,
Dal barbaro ululato impaurite
Tacquero, è ver, ma l’infelice amica
Mai non lasciâr; chè ad alte cose al fine
L’itala Poesia, bella, aspettata,
Mirabil virgo, da le turpi emerse
Unniche nozze. E tu le bende e il manto
Primo le desti, e ad illibate fonti
La conducesti; e ne le danze sacre
Tu le insegnasti ad emular la madre,
Tu de l’ira maestro e del sorriso,
Divo Alighier, le fosti. In lunga notte
Giaceva il mondo, e tu splendevi solo,
Tu nostro: e tale, allor che il guardo primo
Su la vedova terra il sole invia,
Nol sa la valle ancora e la cortese
Vital pioggia di luce ancor non beve,
E già dorata il monte erge la cima.
A queste alme d’Italia abitatrici
Di lodi un serto in pria non colte or tesso;
Ché vil fra ’l volgo odo vagar parola
Che le Dive sorelle osa insultando
Interrogar che valga a l’infelice
Mortal del canto il dono. Onde una brama
In cor mi sorge di cantar gli antichi
Beneficj che prodighe a l’ingrato
Recar le Muse. Urania al suo diletto
Pindaro li cantò. Perché di tanto
Degnò la Dea l’alto poeta e come,
Dirò da prima; indi i celesti accenti
Ricorderò, se amica ella m’ispira.
Fama è che a lui ne la vocal tenzone
Rapisse il lauro la minor Corinna
Misero! e non sapea di quanto dio
L’ira il premea; ché a la famosa Delfo
Venendo, i poggi d’Elicona e il fonte
Del bel Permesso ei salutando ascese;
Ma d’Orcomene, ove le Grazie han culto,
Il cammin sacro omise. Il dévio passo
Vider da lunge e il non curar superbo
Del fatal giovanetto le Immortali,
E promiser vendetta. Al meditato
Inno di lode liberato il volo
Pindaro avea, quando le belle irate,
Aerie forme a mortal guardo mute,
Venner seconde di Corinna al fianco.
Aglaja in pria su la virginea gota
Sparse un fulgor di rosea luce, e un mite
Raggio di gioja le diffuse in fronte:
Ma la fragranza de’ castalj fiori
Che fanno l’opra de l’ingegno eterna,
Eufrosine le diede; e tu pur anco,
Dolce qual tibia di notturno amante,
Lene Talia, le modulasti il canto.
Di tanti doni avventurata in mezzo
Corinna assurse: il portamento e il volto
Stupia la turba, e il dubitar leggiadro
E il bel rossor con che tremando al seno
Posò la cetra; e, sotto la palpebra
Mezza velando la pupilla bruna,
Soave incominciò. Volava intorno
La divina armonia che, con le molli
Ale i cupidi orecchi accarezzando,
Compungea gl’intelletti, e di giocondo
Brivido i cori percotea. Rapito
L’emulo anch’ei, non alito, non ciglio
Movea, né pria de’ sensi ebbe ripresa
La signoria, che verdeggiar la fronda
Invidiata vide in su le nere
Trecce di lei, che fra il romor del plauso
Chinò la bella gota ove salia
Del gaudio mista e del pudor la fiamma.
Di dolor punto e di vergogna, al volgo
L’egregio vinto si sottrasse, e solo
Sul verde clivo, onde l’aeria fronte
Spinge il Parnaso, s’avviò. Dolente
Errar da l’alto Licoreo lo scòrse
Urania Dea, cui fu diletto il fato
Del giovanetto, e di blandir sua cura
Nel pio voler propose. È nei riposti
Del sacro monte avvolgimenti un bosco
Romito, opaco, ove talor le Muse,
Sotto il tremolo rezzo esercitando
L’ambrosio piè, ringioviniscon l’erbe
Da mortal orma non offese ancora.
A l’entrar de la selva, e sovra il lembo
Del vel che la tacente ombra distende,
Balza l’Estro animoso, e de le accese
Menti il Diletto, e, ne la palma alzata
Dimettendo la fronte, il Pensamento
Sta col Silenzio, che per man lo tiene.
Bella figlia del Tempo e di Minerva
V’è la Gloria, sospir di mille amanti:
Vede la schiva i mille, e ad un sorride.
Ivi il trasse la Diva. A l’appressarsi,
De l’aura sacra a l’aspirar, di lieto
Orror compreso in ogni vena il sangue
Sentia l’eletto, ed una fiamma leve
Lambir la fronte ed occupar l’ingegno.
Poi che ne l’alto de la selva il pose
Non conscio passo, abbandonò l’altezza
Del solitario trono, e nel segreto
Asilo Urania il prode alunno aggiunse.
Come tal volta ad uom rassembra in sogno,
Su lunga scala o per dirupo, lieve
Scorrer col piè non alternato a l’imo,
Né mai grado calcar né offender sasso;
Tal su gli aerei gioghi sorvolando,
Discendea la celeste. Indi la fronte
Spoglia di raggi, e d’ale il tergo, e vela
D’umana forma il dio; Mirtide fassi,
Mirtide già de’ carmi e de la lira
A Pindaro maestra; e tal repente
A lui s’offerse. Ei di rossor dipinto,
A che, disse, ne vieni? a mirar forse
Il mio rossore? o madre, oh! perché tanta
Speme d’onor mi lusingasti in vano?
Come la madre al fantolin caduto,
Mentre lieto al suo piè movea tumulto,
Che guata impaurito, e già sul ciglio
Turgida appar la lagrimetta, ed ella
Nel suo trepido cor contiene il grido,
E blandamente gli sorride in volto
Perch’ei non pianga; un tal divino riso,
Con questi detti, a lui la Musa aperse:
A confortarti io vegno. Onde sì ratto
“L’anima tua è da viltate offesa”?
Non senza il nume de le Muse, o figlio,
Di te tant’alto io promettea. Deh! come,
Pindaro rispondea, cura dei vati
Aver le Muse io crederò? Se culto
Placabil mai de gl’Immortali alcuno
Rendesse a l’uom, chi mai d’ostie e di lodi,
Chi più di me di preci e di cor puro
Venerò le Camene? Or se del mio
Dolor ti duoli, proseguia, deh! vogli
L’egro mio spirto consolar col canto.
Tacque il labro, ma il volto ancor pregava,
Qual d’uom che d’udire arda, e fra sé tema
Di far parlando a la risposta indugio.
Allor su l’erba s’adagiaro: il plettro
Urania prese, e gli accordò quest’Inno
Che in minor suono il canto mio ripete.
Fra le tazze d’ambrosia imporporate,
Concittadine degli Eterni e gioja
De’ paterni conviti eran le Muse
Ne’ palagi d’Olimpo, e le terrene
Valli non use a visitar; ma primo,
Scola e conforto de la vita, in terra
Di Giove il cenno le inviò. Vedea
Giove da l’alto serpeggiar già folta
La vaga mortale orma, e sotto il pondo
Di tutti i mali andar curvata e cieca
L’umana stirpe: del rapito foco
Piena gli parve la vendetta; e a l’ira
Spuntate avea l’acri saette il tempo.
Alfin più mite ne l’eterno senno
Consiglio il Padre accolse, ed, Assai, disse,
E troppo omai le Dire empio governo
Fer de la terra; assai ne’ petti umani
Commiser d’odj, e volser prone al peggio
Le mortali sentenze. Di felici
Genj una schiera al Dio facea corona,
Inclita schiera di Virtù (ché tale
Suona qua giù lor nome). A questi in pria
Scorrer la terra e perseguir le crude
De l’uom nemiche ed a più miti voglie
Ricondur l’infelice, impose il Dio.
Al basso mondo ove la luce alterna,
Sceser gli spirti obbedienti, e tutto
Ricercarlo, ma in van; ché non levossi
A tanto raggio de’ mortali il guardo;
E di Giove il voler non s’adempìa.
Però baldanza a quel voler non tolse
Difficoltà che a l’impotente è freno,
Stimolo al forte; essa al pensier di Giove
Novo propose esperimento. Al desco
Del Tonante le Muse una concorde
Movean d’inni esultanza; inebriate
Tacean le menti de gli Dei; fe’ cenno
Ei la destra librando; e la crescente
Del volubile canto onda ristette
Improvviso. Raggiò pacato il guardo
A le Vergini il Padre; e questo ad elle
D’amor temprato fe’ volar comando,
Figlie, a bell’opra il mio voler ministre
Elegge or voi. Non conosciute ancora
Errar vedete le Virtù fra i ciechi
Figli di Pirra: d’amor santo indarno
Arder tentaro i duri petti, e vinte
Farsi de l’ardue menti aprir le porte:
La forza sol de l’arti vostre il puote:
Là giù dunque movete: a voi seguaci
Vengan le Grazie; e senza voi men bella
Già la mia reggia il tornar vostro attende.
Tacque a tanto il Saturnio; e su gli estremi
Detti, dal ciglio e da le labra rise
Blandamente. Al divino atto commossa
Balzò l’eterea vetta, e d’improvviso
Di tutta luce biondeggiò l’Olimpo.
Nel primo aspetto de la terra intanto
Il lungo duol de le Virtù neglette
Vider le Muse: ma di lor la prima
Chi fu che volse le propizie cure
I bei precetti ad avverar del Padre?
Calliope fu che fra i mortali accorta
Orfeo trascelse; e sì l’amò che il nome
A lui di figlio non negò. Vicina
A l’orecchio di lui, ma non veduta,
Stette la Diva, e de l’alunno al core
Sciolse la bella voce onde si noma.
Il bel consiglio di Calliope tutte
Imitar le sorelle; e d’un eletto
Mortal maestra al par fatta ciascuna,
L’alme col canto ivan tentando, e l’ira
Vincea quel canto de le ferree menti.
Così dal sangue e dal ferino istinto
Tolser quei pochi in prima; indi lo sguardo
Di lor, che a terra ancor tenea il costume
Che del passato l’avvenir fa servo,
Levar di nova forza avvalorato.
E quei gli occhi giraro, e vider tutta
La compagnia de gli stranier divini,
Che a le Dire fea guerra. Ove furente
Imperversar la Crudeltà solea,
Orribil mostro che ferisce e ride,
Vider Pietà che, mollemente intorno
Ai cor fremendo, dei veduti mali
Dolor chiedea; Pietà, de gl’infelici
Sorriso, amabil Dea. Feroce e stolta
Con alta fronte passeggiar l’Offesa
Vider, gl’ingegni provocando, e mite
Ovunque un Genio a quella Furia opporsi,
Lo spontaneo Perdon che con la destra
Cancella il torto e nella manca reca
Il beneficio, e l’uno e l’altro obblia.
Blando a la Dira ei s’offeria: seguace
Lenta ma certa, l’orme sue ricalca
Nemesi, e quando inesaudito il vede,
Non fa motto, ed aspetta. Un giorno al fine
Ne gl’iterati giri, orba dinanzi
Le vien l’Offesa: al tacit’ arco impone
Nemesi allor l’amata pena; aggiunge
L’aerea punta impreveduta il fianco,
E l’empio corso allenta. Inonorata
La Fatica mirar, che gli ermi intorno
Campi invano additava, a cui per anco
Non chiedea de la messe il pigro ferro
Gli aurei doni dovuti: a lei compagno
L’Onor si fea; se forse a la sua luce
Più cara a l’occhio del mortal venisse
L’utile Dea. Vider la Fede, immota
Servatrice dei giuri, e l’arridente
Ospital Genio che gl’ignoti astringe
Di fraterna catena; e tutta in fine
La schiera dia ne l’opra affaticarsi.
Videro, e novo di pietà, d’amore
Ne gli attoniti surse animi un senso,
Che infiammando occupolli. E già de’ lieti
Principj in cor secure, il plettro e l’arte
Sacra del plettro ai figli lor le Muse
Donar, le Grazie il dilettar donaro
E il suader potente. Essi a la turba
Dei vaganti fratelli ivan cantando
Le vedute bellezze. Al suon che primo
Si sparse a l’aura, dispogliò l’antico
Squallor la terra, e rise: e tu qual fosti,
Che provasti, o mortal, quando sul core
La prima stilla d’armonia ti scese?
Quale a l’ara de’ Numi allor che il sacro
Tripode ferve, e tremolando rosse
Su le brage stridenti erran le fiamme,
Se la man pia del sacerdote in esse
Versi copia d’incenso, ecco di bruno
Pallor vestirsi il foco, e dal placato
Ardor repente un vortice s’innalza
Tacito, e tutto d’odorata nebbia
Turba l’etere intorno e lo ricrea;
Tal su i cori cadea rorido, e l’ira
V’ammorzava quel canto, e dolce, in vece,
Di carità, di pace vi destava
Ignota brama. A l’uom così le prime
Virtù fur conosciute onde beata,
Quanto ad uom lice, e riposata e bella
Fassi la vita. Allor in cor portando
Il piacer de l’evento, e la divina
Giocondità del beneficio in fronte,
A l’auree torri de l’Olimpo il volo
Rialzar le Camene. Ivi le prove
De l’alma impresa e le fatiche e il fine
Dissero al Padre; e pieno, in ascoltarle,
Da la bocca di lui scorrea quel dolce
Canto a l’orecchio dei miglior, la lode.
Ma stagion lunga ancor volta non era,
Che ne le Nove ritornate un caro
De la terra desio nacque; ché ameno
Oltre ogni loco a rivedersi è quello
Che un gentil fatto ti rimembri: e questa
Elesser sede che secreta intorno
Religion circonda, e, l’arti antiche
Esercitando ancor, l’aura divina
Spirano a pochi in fra i viventi, e dànno
Colpir le menti d’immortal parola.
E te dal nascer tuo benigna in cura
Ebbe, o Pindaro, Urania. E s’oggi, o figlio,
Tanto amor non ti valse, ell’è d’un Nume
Vendetta: incauto, che a le Grazie il culto
Negasti, a l’alme del favor ministre
Dee, senza cui né gl’Immortai son usi
Mover mai danza o moderar convito.
Da lor sol vien se cosa in fra i mortali
È di gentile, e sol qua giù nel canto
Vivrà che lingua dal pensier profondo
Con la fortuna de le Grazie attinga;
Queste implora coi voti, ed al perdono
Facili or piega. E la rapita lode
Più non ti dolga. A giovin quercia accanto
Talor felce orgogliosa il suolo usurpa,
E cresce in selva, e il gentil ramo eccede
Col breve onor de le digiune frondi:
Ed ecco il verno la dissipa; e intanto
Tacitamente il solitario arbusto
Gran parte abbranca di terreno, e, mille
Rami nutrendo nel felice tronco,
Al grato pellegrin l’ombra prepara.
Signor così de gl’inni eterni, un giorno,
Solo in Olimpia regnerai: compagna
Questa lira al tuo canto, a te sovente
Il tuo destino e l’amor mio rimembri. ―
Tacque, e porse la cetra: indi rivolta,
Candida luce la ricinse: aperte
Le azzurre penne s’agitar sul tergo,
Mentre nel folto de la selva al guardo
Del suo Poeta s’involò. La Diva
Ei riconobbe, e di terror, di lieta
Maraviglia compunto, il prezioso
Dono tenea: ne l’infiammata fronte
Fremean d’Urania le parole e l’alta
Promessa e il fato: e la commossa corda,
Memore ancor del pollice divino,
Con lungo mormorar gli rispondea.