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Antonio Fogazzaro
Un'idea di Ermes Torranza
I.
Il professor Farsatti di Padova, lo stesso ch’ebbe con M.r Nisard la famosa polemica sui fahulæque Manes di Orazio, soleva dire di Monte San Donà: «Cossa vorla? Poesia franzese!» Il solitario palazzo, il vecchio giardino dei San Donà gli erano poco meno antipatici di «monsiù Nisarde» sin dall’autunno del 1846, quando vi era stato invitato dai nobili padroni a mangiare i tordi, e fra questi gli si erano imbanditi gli stornelli. Dal viale d’entrata, con i suoi ippocastani tagliati a dado, al laberinto, ai giuochi d’acqua, alla lunga scalinata che sale il colle; dalla base all’attico pesante del palazzo, l’eccellente professore trovava tutto pretenzioso e meschino, artificioso e prosaico. «Cossa vorla? Poesia franzese!»
Al tempo degli stornelli, forse, sarà stato così. Il professore non ha più voluto rivedere Monte San Donà e dorme profondamente da parecchi anni nel suo campo di battaglia, come posson ben dirsi:
. . . . . Nox fabuæque Manes
Et domus exilis Plutonia.
Adesso la famiglia San Donà, che ha vissuto con un certo fasto sino al 1848, pratica rigidamente, sotto l’impero del nobile sior Beneto, la economia di cui qualche indizio apparve sino dal 1846. Per il sior Beneto non esiste poesia francese nè italiana; e, sulla collina, il giardino, lasciato pressochè interamente in balìa delle proprie passioni, ha sciupato le fredde eleganze, ha preso, fra i vigneti blandi degli altri colli, un aspetto selvaggio, vigoroso, che gli sta molto bene in quel seno solitario degli Euganei. Al piano il laberinto fu messo a prato; i tubi dei giuochi d’acqua son tutti guasti; agl’ippocastani il sior Beneto ha sostituito due filari di gelsi. Voleva abbattere con lo stesso scopo scientifico i pioppi secolari del viale pomposo che da Monte San Dona mette ad un’umile stradicciuola comunale; ma la signorina Bianca li difese con passione e lagrime contro l’acuto argomento di papà: «bezzi, bezzi». Quando, nell’aprile del 1875, Bianca sposò il signor Emilio Sparcina di Padova, chiese ed ebbe in dono dal padre la promessa di lasciar in pace i cari pioppi che Tavean tante volte veduta correre e saltare, prima del collegio, con le sue rustiche amiche, e più tardi leggere Roh Roy, Waverley e Ivhnhoe, tre poveri vecchi libri della sottile biblioteca di casa, tre poveri vecchi libri immortali che ora aspettano sul loro scaffale altre cupide mani, altri ardenti cuori inesperti della nostra grande arte moderna.
Ermes Torranza, il poeta, le diceva che ella stessa, a quindici anni, pareva un piccolo pioppo ridente a ogni soffio di vento, e che certo le colossali piante la ricambiavano di tenerezza paterna. Torranza lo diceva sul serio; egli aveva nel sangue questo fantastico sentimento della natura, questi istinti che i nostri freddi critici corretti gli rimproveravano forse a torto. Infatti, nel settembre del 79 Bianca tornò a Monte San Dona, sola, col cuore amaro; e le parve, passando fra i pioppi, che Torranza avesse ragione, che le piante pigliassero con lei la espressione di quel biasimo affettuoso che vien significato con la tristezza e il silenzio. Il piccolo sior Beneto non tenne questo metodo. Lo aveva sempre detto, quel padre sapiente e profetico, che la sarebbe andata a finire così, che troppi libri e troppa musica non conducono a niente di buono, che a forza di volersi raffinare ci si scavezza. Credeva, la signorina, di esser nata per sposare un principe, un Creso, un chi sa cosa diavolo mai? Eran questi gli esempi avuti dalla santa donna di sua madre. La mansueta signora Giovanna San Dona, una santa per forza, non partecipò alle collere del suo temuto signore, anzi godè segretamente che la ragazza non si fosse lasciata metter i piedi sul collo e santificare come lei. Bianca aveva riamato abbastanza sul serio il bel giovinotto biondo fattosi avanti, dopo un lungo sospirare, per la sua mano; ma i suoceri grossolani, avari, stizzosi, le eran riusciti intollerabili. Il marito, buono ma debole, non osava proteggerla a dovere; indi sdegni e lagrime. Non c’erano figli; e così Bianca aveva potuto, in un impeto di collera, tornarsene al suo solitario angolo degli Euganei, ai suoi pioppi venerabili.
Aveva creduto, sì, a prima giunta, esserne guardata severamente; ma poi raccontò loro tante e tante cose che ogni freddezza fra le vecchie piante e lei ne fu tolta. Due mesi dopo il suo ritorno, quand’ella vide, un lucido giorno di novembre, che le ultime brine e il gran vento del dì innanzi le aveano spogliate di foglie sin quasi alla vetta, quei tremoli pennacchi giallo-rossicci le misero una malinconia da non dire; sentì che i piòppi la salutavano da lontano come amici fedeli, prossimi a venir meno, a perder la parola ed i sensi.
Tutto veniva meno con essi nella gran pace, nella luce limpida del pomeriggio di novembre; tutto, tranne il bruno dorato dei cipressi che dai vigneti deserti presso a Monte San Dona si rizzavano qua e là sul cielo biancastro d’oriente. La giovane signora avea lungamente passeggiato i vigneti, e ora, al cader del sole, scendeva piano piano la costa che ne beve con i suoi cavi sassi e con le querele inclinate l’ultimo tepore. Ella guardava, distratta, più le foglie dense sul sentiero, più l’erbe grigie e gialliccie del pendio che il piano e i colli dorati, e il tenero cielo caldo del ponente. Perchè mai aveva pensato, la sera precedente, appena spento il lume, a Ermes Torranza? Perchè ne aveva sognato tutta la notte. Perchè non poteva ancora liberarsi da questa immagine? Eran pur quasi tre mesi che non vedeva il poeta, di cui nessuno a Monte San Dona le parlava mai; ed egli le aveva scritto una volta sola in principio d’ottobre per inviarle una romanza da camera. Bianca credeva ai presentimenti, non dubitava che avrebbe presto riveduto l’amico suo; ma pure, come spiegare una impressione così forte? Ella ammirava l’ingegno di Ermes Torranza, gli voleva un gran bene per la squisita nobiltà dell’animo, per la conoscenza che ne aveva sin da bambina; ma il poeta era sui sessant’anni, e benchè le portasse un’amicizia più appassionata che paterna, e la sapesse esprimere molto bene in prosa e in versi, con la musica e i fiorii non poteva turbare il cuore della giovine signora; la quale correva con esso il solo pericolo di offenderlo quando bisognava posare una delicata parola fredda sulle sue effervescenze troppo giovanili. Avea ben pensato alni tante volte con affetto, povero Torranza; non era mai stata assediata come ora dalla sua immagine. Proprio nello spegnere il lume le era venuto in cuore il nome strano Ermes; e subito avea veduto l’uomo, la barba bianca, l’abito nero, la gardenia all’occhiello. Si fermò involontariamente per una foglia che cadeva in lenti giri, davanti a lei; e ripensò come lo aveva riveduto in sogno, i versi dolcissimi che le aveva letti, la divina musica che aveva suonato stendendo la mano sul piano senza toccarlo. Venendole meno la vivezza del ricordare, a poco a poco le voci lontane per la pianura, un frequente zittir d’insetti nell’erba la richiamarono al vero. Si ripose in cammino sotto le querele piene di sole, guardando trasparir dal fogliame secco gli antichi tronchi verdi d’edera che le parlavano, anch’essi! della strofa in cui il Torranza parla a certa gente del proprio ideale:
Se voi seguite, aride foglie, il vento,
Tutti vi sdegna il mio fedele cor;
Di ruine, com’edera, è contento.
Sul nobil tronco ch’egli ha amato, muor.
Glieli racconterebbe, a Torranza, questi fatti bizzarri. Lui già metterebbe in campo il suo spiritismo, la occulta influenza di una psiche sopra un’altra. Quest’idea le toccò il cuore come la sensazione di un mondo strano, forse non reale ma possibile; e, se reale, anche presente, anche circonfuso a lei; non solamente circonfuso, ma nascosto nel suo petto, inconscio nei misteri dell’anima.
Una campanellina flebile suonò le ore da lontano, in mezzo ai campi; una, due, tre e mezzo. Non era più da credere che Torranza venisse in quel giorno.
Bianca trasalì. Le pareva udire una carrozza sulla strada di Padova; ma ne passavano tante! Tutti volevano godere quelle deliziose giornate di novembre. Sì, sì, i cani della fattoria abbaiavano, le ruote stridevano sulla grossa ghiaia del viale d’entrata. Bianca affrettò il passo. Per tornare alla villa doveva scendere, poi risalire.
Presso a casa trovò un ragazzo che veniva in cerca di lei. Erano arrivati tanti signori in due carrozze e la padrona gli aveva detto di correre a cercare la padroncina. Non sapeva il nome di questi signori, nè se ci fosse tra loro un vecchio vestito di nero, con la barba bianca. Gli pareva di sì, ma non n’era sicuro.
Bianca entrò trafelata nella sala a pian terreno dove tutti erano ancora in piedi e Beneto distribuiva, qui i suoi ossequi, li le sue riverenze, a destra i suoi rispetti, a sinistra la sua servitù, qualche complimentino sotto voce, qualche risatina cerimoniosa. Bianca si fermò sulla soglia, raccolse tutta quella gente in un’occhiata; il poeta non c’era. Erano i Dalla Carretta con i loro ospiti, un piccolo museo archeologico di lunghi scialli scuri, di cappellini barocchi, di calze e nappe canonicali, di facce slavate; gente noiosa che veniva lì una volta l’anno, per convenienza, a sedersi in giro e a guardarsi un tratto in viso senza saper che dire; dopo di che un vecchio servitore in giacchetta bigia entrava molto dignitosamente portando il caffè e i pandoli che il cavalleresco Beneto serviva con i suoi scherzetti sempre uguali, di cui la compagnia rideva regolarmente ogni anno sullo stesso tono e sulla stessa misura. Perdere un bel tramonto di novembre per costoro! Bianca non li poteva soffrire, le toglievano il respiro.
— Non so — le disse fra un sorso di caffè e l’altro il canonico Businello — non so se La sappia la brutta notizia...
— No. Che notizia?... — rispose Bianca a fior di labbro.
— Ah, sicuro — dissero due o tre voci sommesse. — Ah, sicuro.
— Il povero Torranza, poveretto... — soggiunse compunto il canonico, intingendo nel caffè l’ultimo pezzetto della sua ciambella.
Bianca si sentì una stretta al cuore, un formicolìo freddo al viso; e non potè articolare parole.
— Pur troppo — disse monsignore agitando la tazza in giro per sciogliere lo zucchero rimasto al fondo. — Mancato, sì, poi... — Vuotò la tazza e soggiunse sospirando: — Iersera, alle undici e mezzo.
Bianca perdette un momento la vista, ma oppose all’emozione un voler violento, un impeto, quasi, di collera, e vinse. La signora Giovanna la vide farsi pallida pallida e fu per alzarsi sgomentata; una rapida occhiata dura di sua figlia la fermò sull’atto. Le signore Dalla Carretta, che conoscevano certi maligni epigrammi corsi a Padova sulle fiamme senili di Torranza, si guardarono alla sfuggita e tacquero.
Intanto il canonico raccontava che Torranza s’era posto a letto due o tre giorni prima senza sofferenze gravi, però con tristissimi presentimenti. La catastrofe doveva esser avvenuta improvvisamente; ma egli non poteva affermarlo. Era partito da Padova poche ore dopo, alle dieci del mattino. La città era già piena della notizia; si sapeva che la Giunta Municipale doveva raccogliersi d’urgenza.
— Le solite commedie — esclamò il sior Beneto. — Beata, quella gente là, di poter fare del chiasso e spender dei soldi. Capaci di ringraziar Dio che quel povero infelice sia morto adesso che ci son loro in Comune. E cosa crede, Monsignore, che vogliano onorarlo per quei quattro versi? Ma neanche per idea! È perchè era famoso anche lui a spendere e spandere. Basta questo, caro lei. Un uomo grande!
— Papà — disse Bianca agitatissima — se deliberano qualche cosa per Torranza, fanno più onore a sè che a lui.
— Idee tutte vostre, queste — replicò Beneto dispettosamente. — Idee tutte vostre. Non mettetevi mica in mente ch’egli fosse poi questa gran cosa. Non m’intendo di versi, ma siamo stati a scuola insieme, con Torranza, e posso dirlo. Volete metter la testa di Farsatti?
— No, no, no — interruppe con certa secchezza molle il canonico. — Per talento, lasciamolo stare, il povero Ermes ne aveva più del bisogno; ma criterio, signora! criterio. La mi scusi proprio, neanche una briciola.
— Egli era de’ miei amici, l’avverto, monsignore — rispose Bianca. — A me queste cose non si possono dire.
— Ah, bene! — fece monsignore scuro. I Dalla Carretta si rannuvolarono. Ma Beneto non permise che la finisse così, in un silenzio burrascoso.
— Monsignore parla benissimo — disse egli — e mi meraviglio di voi che non le abbiate mai capite, certe cose.
— Basterebbe l’affare dello spiritismo — osservò a mezza voce il vecchio conte Dalla Carretta, rivolgendosi con un sorrisetto al canonico, per confortarlo.
— Euh! — disse questi, alzando gli occhi e le sopracciglia. — Io non parlo.
Una zitellona della compagnia chiese, facendo l’innocente, se Torranza fosse proprio spiritista. Il canonico, che non voleva parlare, si sfogò. — Spiritista fanatico, era. Aveva una biblioteca di pubblicazioni tedesche, francesi, inglesi, americane sullo spiritismo. Stava traducendo un libro di un certo Fechte o Fochte Fichte, pieno di quelle minchionerie.
— Si capisce che Lei non lo ha letto — interruppe Bianca.
— Sta a vedere — saltò su il sior Beneto — che mi diventate spiritista. Vorrei vedere anche questa.
Bianca fu per dare a suo padre una risposta audace e pungente. Si contenne e rispose solo che non amava i pregiudizi di nessun colore.
— Adesso gli potremo dare la prova, allo spiritismo del povero Torranza — osservò un signore — perchè, e questo l’ho udito io con le mie orecchie da Pedrocchi, egli diceva che dopo morto si sarebbe fatto sicuramente vedere e intendere da qualcuno.
Beneto nitrì una risata gutturale, a bocca chiusa.
— Gesummaria, papà! — disse la contessina Dalla Carretta al suo genitore.
— Matto, cara, matto! — rispose questi.
— Eh, matto, poveretto; eh, matto. — Ciascuno guardava il suo vicino, gli passava la parola a mezza voce. Bianca si alzò senza dir nulla, spinse via nervosamente la sua sedia e uscì.
Beneto fremeva, la signora Giovanna stava sulle spine. Dopo un breve silenzio, la Dalla Carretta guardò, imbarazzata, suo marito, piegando la persona; in un attimo tutti furono in piedi, contenti, sollevati da un gran peso. Beneto discese la scalinata a braccio della contessa, che gli espresse, con molta ipocrisia, il suo rincrescimento per i discorsi che si eran fatti prima, per il dispiacere arrecato alla signora Bianca. Beneto protestò. Aveva gusto che sua figlia imparasse a conoscer meglio il mondo; era stato anche lui amico di Torranza, per tradizioni di famiglie; ma pur troppo quel vecchio matto aveva esercitato una pessima influenza in casa Squarcina. Intanto, dietro a loro, scendeva la brigata tutta susurri maligni, interrotti prudentemente da qualche osservazione a voce alta sul tramonto vermiglio, sulle campane della parrocchia che suonavano per l’ottavario dei morti, sul nero nebbione che si levava dall’orizzonte, soffiando.
Ecco i due carrozzoni che si fanno avanti: ecco daccapo gli ossequi, i rispetti e i doveri. I lunghi scialli scuri, i cappellini barocchi, le nappe canonicali, le slavate facce noiose si allontanano sotto i pioppi, e il sior Beneto ritorna su, borbottandosi la lettura di un foglio consegnatogli dal cursor comunale che lo segue col berretto in mano. Giunto sulla spianata, trova un servitore uscito ad avvertirlo ch’è intavola; e fa chiamar fuori la padrona.
— Qui c’è l’annuncio di Torranza — diss’egli — e questo galantuomo ha un’altra lettera. Pagate voi?
— Cosa? — diss’ella timidamente.
— Cosa? La multa, cosa! Se vostra figlia si fa scrivere da dei disperati che riempiono Dio sa quanti fogli e poi non sono in caso di metter fuori otto palanche, suo danno! Io non pago sicuro.
La signora Giovanna guardò la lettera.
— Viene da Padova — diss’ella esitando.
— Eh, si sa, cara, che pagate!
— È urgentissima — susurrò la povera donna.
Beneto le domandò qualche cosa con gli occhi e un cenno del capo.
— No — diss’ella. — Mi pare e non mi pare di conoscerlo, il carattere: ma di quella casa là no certo.
— Benone! — esclamò l’ironico marito. — Adesso poi, siccome sarebbe una pazzia, così son sicuro che pagate. Accomodatevi pure.
Ed entrò in casa.
La signora non aveva un soldo in tasca, ma fece subito qualche segreta convenzione col cursore, che salutò e sparve nella nebbia, dilagata, in un batter d’occhio, sul piano. Il triste oceano bianco fumava su tutti i pendii, metteva le prime ondate taciturne sulla spianata di Monte San Dona. Ancora un momento e avrebbe chiusa la casa nel suo vapor denso, avrebbe affacciata a tutte le finestre la sua malinconia stupida.
— Ci vorrà un lume, a tavola — disse al domestico la signora San Donà, rientrando.
— Niente, niente — gridò Beneto dal salotto — non occorre lume che ci si vede benone. Sbrigatevi e dite alla principessa che si degni, almanco, di non farsi aspettare.
II.
L’annuncio così crudo, inatteso, della morte di Torranza era stato per Bianca un colpo di sgomento e di dolore, che volle celare quanto potè, a quella sciocca compagnia pettegola. Comprimer lo sdegno le riusciva men facile; e, venuti in campo i discorsi di Torranza al caffè Pedrocchi, era uscita per non prorompere contro suo padre che rideva e gli altri che compativano.
Si chiuse in camera. L’immagine di un nuovo Torranza, di un Torranza morto assai più grande e buono che non le fosse mai parso il vivo, le riempiva l’anima; e lo pianse, meravigliata delle proprie lagrime, di sentirsi una tenerezza tanto profonda. Averlo lasciato partire così, senza un addio! Ecco, se non fosse stato quel ch’era stato, ella si sarebbe trovata a Padova, lo avrebbe potuto vedere. Si rimproverò d’aver risposto un po’ tardi all’ultima sua lettera, di non averlo ringraziato bene della romanza. Tante altre sue piccole negligenze^ tante altre lievi freddezze punto necessarie, che avevan forse rattristato il poeta, le tornavano tutte al cuore, le facevano male. Egli, un potente creatore d’anime e di figure ideali, l’aveva cullata, da bambina, sulle sue ginocchia, l’avea consigliata, dopo il collegio, negli studi; sposa, l’aveva condotta alla più squisita intelligenza d’ogni arte; finalmente s’era innamorato di lei come delle creature a cui il SUO genio aveva dato vita e passione. Adesso Bianca voleva persuadersi d’essere stata amata così; sentiva più pura, in questo concetto, la memoria del poeta, e sè più alta, più vicina al paese in cui vivono i sogni dei grandi poeti spiritualisti. Egli l’amava ancora, povero amico; le si era voluto ricordare dal paese dei morti appena giuntovi. Era spirato alle undici e mezzo; e Bianca si era sentito, prima della mezzanotte, il suo nome strano nel cuore.
Si picchiò all’uscio; era la signora Giovanna con una lettera urgentissima. Bianca prese la lettera senza guardarla, pregò sua madre di scendere a pranzo, di lasciarla sola. Non voleva trovarsi con papà prima d’essere un po’ più calma; temeva che certi discorsi la irritassero troppo, le facessero dire quello che non avrebbe voluto. La signora Giovanna se n’ andò sospirando, mentre sua figlia, chiuso l’uscio, si sorprendeva dell’oscurità sopravvenuta nella camera, del torbido mare che saliva davanti alle finestre. Vide per un momento ancora i fantasmi dei vasi ritti sul muricciolo della spianata, qualche altro spettro di piante vicine; poi niente, neppure un’ombra nel bianco immenso, eguale, impenetrabile. E stette a guardarvi su, attonita, sentendo la voluttuosa dolcezza di trovarsi lì nella sua piccola camera tepida, a pensare, in grembo a quell’oceano silenzioso; sentendo una rispondenza arcana, indefinibile delle cose esterne con i pensieri che le empivano il cuore. Si ricordò a un tratto della lettera che aveva in mano, l’ accostò a’ vetri per decifrarne il carattere.
« Oh Dio! » diss’ella.
L’aperse in furia con le mani con vulse. Vi trovò uno scritto e una fotografìa. Ravvisò tosto la barba bianca, l’abito nero, il fiore airocchiello; lui insomma, Ermes Torranza.
Sentiva di dover leggere subito, non ci vedeva, non sapeva che si facesse, andava per la camera con la lettera in mano cercando a tastoni una candela che non v’era. Abbrancò un cerino sul suo tavolino da notte e l’accese. La fiammella mise un picciol lume sul legno lucido e sul crocefisso di bronzo, un gran buio nella camera. Bianca s’inginocchiò, macchinalmente, e lesse, sempre ginocchioni, lo scritto che segue:
Padova, 26 ottobre 1879.
« Cara, non si turbi, non si sgomenti; ‚Ǩ legga questa lettera come io la scrivo, « con la tranquillità più serena. Non è « niente; il vecchio codino Torranza,
Fedele. 6 « che cosa strana! se ne va. Mi dia la « buona notte, cara Bianca; dispongo « perchè questa lettera Le sia inviata « appena spento il lume.
« Avvertito danna voce interna, ho fatto « stamane, spontaneamente, quello che « fece, prima di morire, il codino mio « padre; adesso mi sento nel cuore qual« cosa che si allenta, e insieme un si« lenzio pieno di riverente aspettazione. « Avrò forse ancora quattro, sei, otto « giorni; mi basta un’ora, per Lei.
« Bianca, nei nostri passati colloqui « Ella mi parve temere, qualche volta, « di un’ombra; il suo gentile affetto per « me n’era turbato, non sapeva come « esprimere un risentimento. Non è vero? « Pure vi è solo nel mio cuore una te« nerezza che in questo stesso momento « solenne non offende i pensieri più alti; « tutta la colpa è del vecchio sangue ,Ǩ fantastico che lascia sempre un po’ di « colore sui sentimenti e sulle parole. « Mi perdoni e sorridiamone insieme, « oramai.
« Ho a farle un’altra preghiera e vo« glio porvi su il suggello della morte. « Mi è amaro non averle dato in addie« tro più prudenti consigli circa i Suoi « dissensi domestici e discender nella ‚Ǩ tomba con questo pensiero. Bianca, « per il bene Suo, per il bene di per« sone che Le son care e un poco an« che per la mia pace nel mondo a cui « vado, mi ascolti; non resti a Monte « San Dona. Ella, in fondo al cuore, « ama certo ancora Suo marito. Questo ‚Ǩ povero giovane fa pietà. L’altro giorno « mi ha parlato di Lei per un’ora, con « le lagrime agli occhi. Mi disse di averle « scritto più volte, mi riferì le Sue ri« sposte che gli tolgono ogni speranza « se i vecchi non acconsentono a una « separazione, o, almeno, se non pro« mettono mutare contegno con Lei; e « coloro non piegano nè all’una ne al« l’altra cosa. Bianca, pensi che qualche ‚Ǩ diritto ceduto in silenzio, qualche torto « patito senza sdegno, non per timore, « ma per pietà delle persone ingiuste « che pensano offenderci, leva l’anima « nostra al di sopra del loro contatto « irritante. Torni con suo marito. Non « vi è tanto amore nel mondo da get« tar via questo ch’è pur fedele, pur « tenero, e non toglie la pace.
‚Ǩ E ora, se si ricorda le nostre con« versazioni sul mondo invisibile e sui « fenomeni che il secolo nega perchè lo « umiliano, non troverà strano ch’io de« Sideri manifestarmi a Lei, dopo la « mia morte, in qualche modo sensibile. « La sera del giorno stesso in cui rice « vera questa lettera, si trovi sola, fra « le dieci e le dieci e mezzo, nella Sua « saletta del piano. Apra la porta che « dà sul giardino; le ombre della notte « devono poter entrare. Suoni quindi la ‚Ǩ breve introduzione della romanza che « Le ho inviata venti giorni sono. Dopo « di questo, se Dio permette ch’io sia ‚Ǩ presente e possa darne segno, anche « lieve, lo darò. Ella non conosce paura « e vorrà consentire all’ultima fantasia ‚Ǩ sentimentale di un vecchio poeta che « muore.
« E tempo di dirvi addio, Bianca. Ho « qui davanti a me la testina leonarde« sca che Vi somiglia. Gli occhi dell’in« cognita sono men grandi, i capelli piii « chiari; ma Tespressione originale del « viso è la stessa. Questo dolce sole 4c d’ottobre che passa tra i miei libri « chiusi, brilla sul quadretto. Vi vedo ‚Ǩ viya, depongo la penna, Vi guardo, « Vi guardo, un’ultima irragionevole la« grima mi cade e si perde per sempre, « come lo merita. Addio, addio!
« Ponete questo ritratto nel vostro sa« lotto di Padova.
« Ermes Torrànza ».
— Sì, sì, sì — singhiozzò Bianca appassionatamente. — Tutto! — Si chiuse il viso tra le mani, promise a Torranza, con uno slancio del cuore, che avrebbe appagato tutti i suoi ultimi desideri e pregò, senza parole, per esso.
Cadendo quell’impeto di fervore, il suo pensiero si assopiva, si perdeva, senz’avvedersene, in un altro campo. Ella non pregava più; aperte le mani, guardava la fiammella del cerino, si sentiva tornar nel cuore le conversazioni avute con Torranza sui misteri d’oltre la tomba. Non cercava nè combatteva queste memorie; le lasciava venire, inerte. Ad un tratto spense il cerino, pregò un altro poco e si rizzò. Era notte, il bianco oceano silenzioso empiva sempre le finestre; pareva essere in un’isola. Le venne in mente, malgrado sè stessa, un racconto meraviglioso fattole dal poeta, una camera buia nel vecchio castello reale di Stoccolma, in mezzo al mare; il re Carlo XI che siede taciturno al fuoco ascoltando il dottore Paumgarten parlar della regina morta, poi si alza, va alla finestra e dice al conte Brahe : Chi ha acceso i lumi nella sala degli Stati?
Qui non apparivano lumi; appoggiando il viso ai vetri si vedeva in alto, nella nebbia, un diffuso chiarore lunare. Bianca non potè a meno di pensare alla sala del piano, di vedervisi sola con le candele accese, ad aspettare uno spirito. Alle sette e mezzo uscì di camera senza lume, discese la scala rischiarata dai quattro fìnestroni che rompono tutto un fianco del palazzo, dal primo piano alla cornice. Attraverso i due superiori si vedeva la luna mancare e tornare fra le nebbie fumanti; dei vani azzurrognoli si aprivano e si chiudevano nel cielo.
— Sei qua? — disse dal fondo della scala la signora Giovanna.
Subito dopo, la fessa vocina stizzosa di Beneto gridò più da lontano :
— Presto! Oramai, tanto, la poteva anche andare a letto, mi pare. Presto!
Bianca non gli badò. Quel padre amoroso voleva proprio farle costar poco il ritorno in casa Squarcina!
Egli era in salotto, picchiava e ripicchiava sulla tavola un mazzo di carte, impaziente che sua moglie venisse per la solita partita. — Qua! — diss’egli, brusco. — Qua! Andiamo!
La rassegnata signora prese il suo posto all’angolo della tavola, presso una lucerna a petrolio. Bianca sedette sul canapè, nell’ombra. Povera mamma, pensava, che vita! Emilio era debole, non sapeva proteggerla; ma però, qual differenza da suo padre! Ella era sicura che suo marito, se non ci fossero i vecchi, ja farebbe regina in casa propria. Era andato a piangere da Torranza, povero Emilio! Sentiva di volergli bene anche lei; e bisognava pur prenderlo come la natura lo aveva fatto.
— A vu! — brontolava tutti i momenti il sior Beneto. — Avu! Presto!
Egli non rivolse mai una parola a sua figlia, e dopo le otto e mezzo se n’andò, com’era solito, a letto. Allora la signora Giovanna, che prima non aveva mai osato fiatare, si pose attorno a Bianca perchè pigliasse qualche cosa, offerse quanto seppe con una premura timida e appassionata nel tempo stesso; ma Bianca non accettò nulla.
— Quella lettera^ — disse sua madre. — Era di casa tua?
— No.
— Disgrazie?
— No, mamma.
— Perchè ho visto urgentissima — rispose l’altra, esitante.
Bianca si rizzò e l’abbracciò.
— Mamma — diss’ella sottovoce — se andassi via presto? Se tornassi con Emilio?
— Oh Dio! ~ rispose la signora Giovanna commossa — cosa vuoi che ti dica? In coscienza non potrei mica dirti di no.
— Forse lo faccio, mamma. Alla signora Giovanna vennero le lagrime agli occhi.
— Ma che ti maltrattino poi, no, sai! — diss’ella con voce soffocata, e soggiunse dopo un breve silenzio:
— Se fosse per il papà, sai bene com’è fatto. Non bisogna mica badare a certe apparenze.
— No, mamma, non è per il papà.
— Bene, cara, cosa vuoi che ti dica? La povera donna prese la sua calza e si mise a sferruzzare frettolosamente. Dopo le asciutte risposte di Bianca non osava toccar della lettera urgentissima, quantunque comprendesse bene che il segreto di questo probabile ritorno in famiglia doveva trovarsi lì. Lavorava e taceva, sperando ottenere qualche spiegazione col silenzio ch’era come un dignitoso dolersi del riserbo di Bianca, un espresso aspettare che parlasse. Ma Bianca non aperse bocca, per cui, verso le dieci, la buona signora, mortificata e non avendo il coraggio di usare autorità, posò il suo lavoro^ chiese alla figlia se volesse andare a letto.
Bianca rispose di non aver sonno. Sarebbe andata volentieri nella saletta del piano a fare un po’ di musica. La mamma voleva tenerle compagnia, ma ella protestò tanto nervosamente, che la signora Giovanna le chiese scusa e, accesale una candela, salì le scale con la sua cerea faccia curva sul lumicino a petrolio.
Bianca s’avviò invece per il corridoio che mette alle camere deserte nell’angolo nord-ovest della casa. Entrò in una sala non grande, ma molto alta, tutta istoriata di affreschi mitologici, vuota; e accese con mano ferma le candele del suo piano attraversato a un canto. La lenta luce si allargò, a destra, sopra un tavolino zeppo di musica; a sinistra, sopra una giardiniera; in alto, su per le membra enormi di non so quali Divinità. Non v’erano altri mobili in tutta la sala; i passi della giovine signora vi pigliavano un suono lungo, vibrante.
Ella guardò l’orologio: le dieci erano imminenti. Cercò un pezzo di musica e lo posò sul leggìo del piano. Poi si trasse dal petto il ritratto di Torranza, guardò a lungo la calva testa scultorea del poeta. Oh, voleva bene accontentarne l’ultimo desiderio quand’anche fosse una follìa, voleva fedelmente comporgli la scena poetica, cui egli aveva forse pensato con qualche compiacimento prima di morire!
Si giustificava così, con sè stessa, dei suoi preparativi e della sua emozione, senza confessarsi che aspettava davvero, con uno scuro istinto del cuore, qualche cosa di straordinario. Posò il ritratto sul leggìo e stette un momento, involontariamente, in ascolto. Che cosa si muoveva dietro a lei? Niente, un foglio scivolava dalla catasta della musica. Bianca si piegò a leggere i versi riprodotti sulla copertina del pezzo che aveva davanti. Erano stati composti, lo sapeva, fra il contrasto della passione con il sentimento religioso, da un giovane amico di Torranza, morto pochi mesi dopo, presso la donna non sua che amava malgrado sè stesso, in silenzio; e dicevano così :
Ultimo pensiero poetico
Le finestre spalanca a la luna; T’inginocchia, mi sento morir. Da i terror de la cieca fortuna, Da la guerra de i folli desir,
Esco e salgo ne’ placidi rai Lo splendente universo a veder, A bruciar ne l’amor che bramai, Che non volli qui impuro goder. Ma se orribile un ciel senza Dio Tra le stelle funeree mi appar, Ricadrò su quel cor ch’era mio, Disperato m’udrai singhiozzar.
Bianca si coperse il viso con le mani, si rivide dentro alla fronte le sinistre parole :
Ma se orribile un ciel senza Dio Tra le stelle funeree mi appar.
Immaginava con un brivido quel che proverebbe se udisse piangere vicino a sè nel vuoto. Aperse la romanza per dar una passata all’introduzione, non troppo facile, che avea letto una volta sola. Ma le pagine non volevano stare aperte, si chiudevano tutti i momenti fastidiosamente. Le fermò col ritrattino di Torranza, e suonò, sotto voce, le quindici o venti battute d’introduzione che ricordano molto, in principio, la Dernière pensèe musicale di Weber. Dio, come parlava quella musica! Che amore, che dolore, che sfiduciato pianto! Entrava nel petto come un irresistibile fiume, lo gonfiava, vi metteva il tormento di sentirne la passione sovrumana senza poterla comprendere. Bianca si alzò con gli occhi bagnati di lagrime, andò ad aprir le imposte della porta che mette in giardino. « Le ombre della notte » aveva scritto Torranza « devono poter entrare nella camera ».
La notte era chiara. Gli alberi del giardino si vedevano sfumati nella nebbia lattea. Non unsusurro, non un soffio; la nebbia, muta e sorda, era immobile.
Bianca tornò con un leggero tremito al piano. Guardò ancora Forologio; erano le dieci e un quarto. Allora si decise, si raccolse nella musica che aveva davanti, bandì ogni altro pensiero, ogni trepidazione, come se vi fosse dietro a lei un’attenta folla severa, e strappò dal piano, con la sua grazia nervosa, il primo accordo.
Ella suonava ansando, per lo sforzo di metter tutta l’anima nella musica, di non pensare a quel che forse verrebbe dopo. Le fu impossibile eseguire le ultime note smorzate dell’introduzione; il cuore le batteva troppo forte. Passarono dieci, venti, trenta secondi eterni.
Silenzio.
Bianca alzò un poco la testa. In quel momento due colpi sommessi, affrettati, suonarono vicino a lei, che balzò in piedi con un subito ritorno di energia calma, e stette in ascolto.
Altri due colpi affrettati, più forti dei primi; poi un tocco leggero sulla soglia della porta aperta alle ombre della notte. Bianca guardò. Era entrata un’ombra,
Fèd‚Ǩle. 7 una figura umana. La giovine signora gittò un grido :
— Emilio! — diss’ella. Era suo marito.
Egli si fece avanti rosso rosso, a passo incerto e a braccia distese, con la stessa ingenua contraddizione negli occhi, d’imbarazzo e di ardore. Bianca, pietrificata, non si moveva.
— Mi aspettavi bene! — diss’egli supplichevole, fermandosi.
Fu un lampo. Bianca vide confusamente che Torranza, chi sa come, avea combinato questo, e rispose: — sì — buttando le braccia al collo di suo marito con impeto così repentino che il povero giovane, tra la felicità e il non capir niente, perdette addirittura la testa e non sapeva che ripetere, fra un bacio e l’altro : scusa, scusa. Ma ella non lo udiva neppure e piangeva piangeva, sen tendosi una tenera gratitudine per il suo povero amico, una gran consolazione di esser al posto che Dio, finalmente, le aveva dato nel mondo, presso un cuore forse debole, forse male atto a comprenderla, ma buono e fedele.
— Star qui con la porta aperta — susurrò il giovane carezzevolmente — a quest’aria umida, con il dolor di capo che hai! Non voglio mica, io.
Ella passò in un baleno dal pianto al riso, e rise, rise, sul suo petto, rise deliziosamente sentendo tornar l’allegria pazza del suo viaggio di nozze. Povero caro Emilio, credere che un doloruccio di capo di due mesi prima le durasse ancora! Egli restò un momento perplesso e poi rise anche lui di tutto cuore.
— Senti — diss’ella a un tratto, facendosi seria; — adesso spiegami bene tutto. Suo marito parve sorpreso. — Ma se lo sai! — rispose.
— Lo so, ma ho piacere di udirlo da te. Vien qua, conta.
Camminarono su e giù per la sala^ cingendosi 1’ un V altro la vita con un braccio, parlando piano.
Lui aveva fretta, voleva sbrigarsi in due parole, dir che Torranza gli aveva scritto di venire, e basta. Ma lei non la intendeva così! Aveva egli seco la lettera di Torranza? No. Quando gli era pervenuta *? Questa mattina stessa, prima di mezzogiorno. E cosa diceva, proprio? Diceva presso a poco: la sera del giorno in cui riceverai questa lettera, trovati fra le dieci e le dieci e mezzo a Monte San Dona. Se vedi lume nella sala del piano, se odi suonare e se la porta è aperta, entra, che Bianca ti aspetta, ed è disposta a tornare con te. — Che data aveva la lettera? Anche la data? Egli non volle più rispondere nè ascoltare; la sua gioia, la sua passione avevano bene il diritto, oramai, di passare avanti a tutto. E si strinse Bianca tra le braccia, le soffocò nel collo un tal impeto di tenerezza che ne perdette anche lei la parola. Ma, improvvisamente, un lieve suono blando lo scosse.
— Zitto! — diss’ella rialzando il viso. Puntò le mani al petto di suo marito e guardò là ond’era venuto il suono.
Al leggìo del piano la romanza Ultimo pensiero poetico si era chiusa sul ritrattino che Bianca, poco prima, vi aveva posato a trattenere le pagine; Ermes Torranza non si vedeva più. Parve all’amica sua che quello fosse il suo promesso segno sensibile, l’addio del poeta, il quale, compiuta l’opera propria, si ritraesse chetamente, si dileguasse nell’ombra, o per le condizioni misteriose della sua esistenza superiore, o, fors’anche, per effetto di un malinconico sentimento che si poteva comprendere.
— Cosa è stato? — chiese Emilio. — Cos’hai che sospiri?
Bianca tornò a piegargli il viso sul petto.
— Niente — diss’ella.
Fedele, ed altri racconti - 1887