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Carlo Goldoni
Le avventure della villeggiatura
Prefazione
Commedia in tre atti.
Personaggi
dell’altra commedia
* Filippo
* Giacinta
* Leonardo
* Vittoria
* Ferdinando
* Guglielmo
* Brigida
* Paolino
nuovi
* Sabina, vecchia, zia di Giacinta
* Costanza
* Rosina, sua nipote
* Tognino, giovane sciocco, amante di Rosina
* Tita, Servitore di Costanza
* Beltrame, Servitor del padre di Tognino
* Un altro Servitore di Filippo
La scena si rappresenta a Montenero, luogo di villeggiatura de’ Livornesi, poche miglia distante da Livorno.
L’autore a chi legge
L’azione della precedente Commedia è l’andata in campagna. Le difficoltà insorte l’hanno ritardata, e quasi impedita; le difficoltà superate, gli Attori hanno il loro intento, e la Commedia è finita. Guglielmo in essa è un personaggio necessario, poiché è quegli che eccita le gelosie di Leonardo, e dà i movimenti all’azione, ora col ritardo ed ora colla sollecitazione al fine; ma senza una seconda Commedia, il suo carattere freddo e flemmatico lascierebbe qualche cosa a desiderare. Questo personaggio si disviluppa a questa seconda Commedia, e lo stesso carattere freddo e flemmatico produce la principale delle Avventure, cioè l’azione principale di questo secondo dramma.
Questa continuazione produce qualche altro buon effetto. La baldanza di Giacinta è mortificata. La follia di Filippo è derisa. I pronostici di Fulgenzio verificati. In fine l’abuso delle Villeggiature è provato, e le conseguenze pericolose sono esposte alla vista e al disinganno degli Spettatori. Anche questa Commedia è finita. Non dirò come essa finisce, per non prevenire il Lettore, e togliere a lui il piacere della sospensione; ma si accorgerà egli al fine della lettura, che vi resta qualche cosa a desiderare, e sarà contento, io spero, alla lettura della terza Commedia.
Tutti gli Attori della prima intervengono in questa seconda, alla riserva di Fulgenzio, di cui per altro si parla, e figurerà nella terza. Oltre gli Attori suddetti, se ne introducono quattro nuovi, i quali tutti contribuiscono a moltiplicar le Avventure della Villeggiatura, e tutti servono all’azion principale. L’unità dell’azione è un precetto indispensabile da osservarsi ne’ Drammi, quando l’argomento riguarda un personaggio principalmente. Ma quando il titolo collettivo abbraccia più persone, l’unità stessa si trova nella moltiplicità delle azioni. Di questo genere sono (parlando delle mie commedie) il Teatro Comico, La Bottega del caffè, i Pettegolezzi delle Donne; e precisamente le tre Commedie presenti. Tutti i personaggi agiscono per lo stesso fine, e tutte le loro diverse azioni si riducono a provar l’argomento.
Atto I
SCENA PRIMA
Sala terrena in casa di Filippo, con tavolini da gioco, sedie, canapè ecc. Gran porta aperta nel fondo, per dove si passa nel giardino.
Brigida, Paolino, Tita, Beltrame.
BRIGIDA: Venite, venite, che tutti dormono.
PAOLINO: Anche da noi non è molto che si son coricati.
TITA: E le mie padrone non c’è dubbio che si sveglino per tre ore almeno.
BELTRAME: Se vegliano tutta la notte, bisogna che dormano il giorno.
PAOLINO: E voi, signora Brigida, come avete fatto a levarvi sì di buon’ora?
BRIGIDA: Oh! io ho dormito benissimo. Quando ha principiato la conversazione, io sono andata a dormire. Hanno giocato, hanno cenato, hanno ritornato a giocare, ed io me la godeva dormendo. A giorno la padrona mi ha fatto chiamare; mi sono alzata, l’ho spogliata, l’ho messa a letto, ho serrata la camera, e mi sono bravamente vestita. Ho fatto una buona passeggiata in giardino, ho raccolto i miei gelsomini, e ho goduto il maggior piacere di questo mondo.
PAOLINO: Così veramente qualche cosa si gode. Ma che cosa godono i nostri padroni?
BRIGIDA: Niente. Per loro la città e la villa è la stessa cosa. Fanno per tutto la medesima vita.
PAOLINO: Non vi è altra differenza, se non che in campagna trattano più persone, e spendono molto più.
BRIGIDA: Orsù, questa mattina voglio aver anch’io l’onore di trattare i miei cavalieri. (Scherzando.) Come volete essere serviti? Volete caffè, cioccolata, bottiglia? Comandate.
PAOLINO: Io prenderò piuttosto la cioccolata.
TITA: Anch’io cioccolata.
BELTRAME: Ed io un bicchiere di qualche cosa di buono.
BRIGIDA: Volentieri; vi servo subito. (In atto di partire.)
TITA: Ehi! la cioccolata io non la prendo senza qualche galanteria. (A Brigida.)
BRIGIDA: Eh! ci s’intende.
PAOLINO: La signora Brigida sa ben ella quel che va fatto.
BRIGIDA: Già della roba ce n’è, già la consumano malamente; è meglio che godiamo qualche cosa anche noi. (Parte.)
SCENA SECONDA
Paolino, Tita, Beltrame.
PAOLINO: Domani mattina, alla stessa ora, vi aspetto a favorire da me.
TITA: Bene, e un’altra mattina favorirete da me.
PAOLINO: Il vostro padrone è in campagna? (A Tita.)
TITA: Il mio padrone è a Livorno, e la padrona sta qui a godersela. Il marito fatica in città a lavorare, e la moglie in campagna a spendere e a divertirsi.
PAOLINO: Sì, certo, la signora Costanza fa qui la sua gran figura. Chi non la conoscesse, non direbbe mai che è moglie d’un bottegaio.
BELTRAME: Capperi, se fa figura! La chiamano per soprannome la governatrice di Montenero.
PAOLINO: E chi è quella giovane che in quest’anno è venuta a villeggiare con lei?
TITA: È una sua nipote, povera, miserabile, che non ha niente al mondo. Tutto quello che ha in dosso, glielo ha prestato la mia padrona.
PAOLINO: E perché aggravar suo marito di quest’altra spesa? Perché far venire in campagna una nipote, col peso di doverla vestire?
TITA: Vi dirò, ci è il suo perché. La signora Costanza, la mia padrona, è ancora giovane, è vero; ma in oggi a Montenero ci sono delle giovani più di lei. E dove vi è la gioventù, vi è il gran mondo; ed ella, per non esser di meno, si è provveduta di una nipote di sedici anni.
SCENA TERZA
Brigida, Servitori che portano cioccolate, vino ecc.; e detti.
BRIGIDA: Eccomi, eccomi, compatite se vi ho fatto un poco aspettare.
PAOLINO: Niente, ci siamo benissimo divertiti.
BRIGIDA: Come?
PAOLINO: A dir bene del prossimo. (Ridendo.)
BRIGIDA: Bravi, bravi, ho capito. Oh! chi volesse dire... chi volesse discorrere su quel che succede in villa, vi sarebbero da far de’ tomi. Si vanno a struggere i poeti per far commedie? Vengano qui, se vogliono fare delle commedie. Signor Paolino, a voi. (Gli dà la cioccolata.) Che vengano a vedere la nostra vecchia, se vogliono un bell’argomento. A voi, Tita. (Gli dà la cioccolata.) Sessantacinque anni, e si dà ancora ad intendere di essere corteggiata. (Dà i biscottini a tutti e due.) E il signor Ferdinando la sa sì ben secondare, che pare innamorato morto di lei, e la buona vecchia se ne lusinga; ma credo che quel drittaccio la pilucchi ben bene. Signor Beltrame, questo vi dovrebbe piacere. (Vuota il vino in un bicchiere, e glielo dà.)
BELTRAME: Questa mi pare la miglior cioccolata del mondo.
BRIGIDA: Tenete due biscottini. E questa novità di cui tutti parlano, che il signor Guglielmo si sia scoperto amante della signora Vittoria, è vera, o non è vera? Voi, Paolino, lo dovrete sapere.
PAOLINO: Dicono che in calesso sia corsa qualche parola. Lo staffiere, ch’era di dietro al calesso, dice ch’era il finestrino aperto, che poi l’hanno serrato, ma che tant’e tanto qualche cosa ha sentito.
BRIGIDA: Eh! sì, due giovani in un calesso è una bella occasione.
BELTRAME: Buono, veramente buono. (Vuol rendere il bicchiere.)
BRIGIDA: Ne volete un altro?
BELTRAME: No; sto bene.
BRIGIDA: Eh! via, un altro.
BELTRAME: No, davvero, sto bene.
BRIGIDA: Per amor mio, un altro.
BELTRAME: Corpo di bacco! date qui. Si può far meno per amor vostro?
BRIGIDA: Così mi piace, che gli uomini sian compiacenti.
PAOLINO: Domattina, signora Brigida, signor Tita, signor Beltrame, vi aspetto da me.
TITA: E dopo domani da me.
BELTRAME: Io non sono in caso di potervi trattare. Il mio padrone beve il caffè e la cioccolata fuori di casa, e da noi non se ne sente l’odore.
PAOLINO: Il vostro padrone non è il signor dottore, il medico di condotta di Montenero? (A Beltrame.)
BELTRAME: Sì, appunto. Sono tant’anni che è medico di campagna, e non ha mai potuto avere la grazia di essere medico di città.
PAOLINO: Ieri è stato da noi a bevere la cioccolata.
BRIGIDA: Da voi? L’ha bevuta anche da noi.
TITA: E se vi dicessi, che l’ha bevuta anche da noi?
BRIGIDA: Buon pro faccia al signor dottore.
PAOLINO: Questa mattina farà probabilmente lo stesso giro.
BELTRAME: Per questa mattina no, perché non c’è a Montenero. È andato a fare una visita in Maremma, e non vi tornerà fin domani.
BRIGIDA: Che vuol dire, che voi non siete andato con lui?
BELTRAME: Sono venuti a prenderlo con sedia e servitore, ed ha lasciato me in custodia di suo figliuolo.
BRIGIDA: Di quello sciocco del signor Tognino?
TITA: Sì, sciocco! È un certo sciocco! Fa l’amore da disperato colla signora Rosina.
BRIGIDA: Colla nipote della signora Costanza?
BELTRAME: Sì, è vero. L’hanno tirato giù ben bene. Coll’occasione che il signor dottore suo padre fa il servente alla signora Costanza, egli si è attaccato alla nipote.
BRIGIDA: Davvero, raccontatemi...
PAOLINO: Vien gente.
TITA: Andiamo via.
BRIGIDA: Andiamo, andiamo in giardino; vo’ saper la cosa com’è.
PAOLINO: Cose belle. (Parte.)
TITA: Cose solite. (Parte.)
BELTRAME: Frutti di gioventù! (Parte.)
BRIGIDA: Avventure della campagna. (Parte.)
SCENA QUARTA
Ferdinando in abito di confidenza, poi un Servitore.
FERDINANDO: Ehi! chi è di là? Chi è di là? Non c’è nessuno? Che dormano ancora tutti costoro? Ehi, chi è di là?
SERVITORE: Comandi.
FERDINANDO: Che diavolo, s’ha da sfiatarsi per aver un servitore.
SERVITORE: Perdoni.
FERDINANDO: Portatemi la cioccolata.
SERVITORE: Sarà servita. (Scroccone! comanda con questa buona grazia, come se fosse in casa sua, o come se fosse in un’osteria). (Parte.)
FERDINANDO: Il signor Filippo è un buonissimo galantuomo; ma non sa farsi servire. Tuttavolta si sta meglio qui, che in ogni altro luogo. Si gode più libertà, si mangia meglio, e vi è migliore conversazione. È stato bene per me, che mi sia accompagnato in calesso colla cameriera di casa; con questo pretesto sono restato qui, in luogo di andar dal signor Leonardo. Colà pure non si sta male, ma qui si sta egregiamente. In somma tutto va bene, e per colmo di buona sorte, quest’anno il gioco non mi va male. Facciamo un po’ di bilancio; veggiamo in che stato si trova la nostra cassa. (Siede ad un tavolino, e cava un libretto di tasca.) A minchiate, vincita, lire dieciotto. A primiera, vincita, lire sessantadue. Al trentuno, vincita, lire novantasei; a faraone, vincita, zecchini sedici, fanno in tutto... (Conteggia.) in tutto sarò in avvantaggio di trenta zecchini incirca. Eh! se continua così... Ma che diavolo fate? Mi portate questa cioccolata? Venite mai, che siate maledetti? (Grida forte.)
SCENA QUINTA
Filippo ed il suddetto.
FILIPPO: Caro amico, fatemi la finezza di non gridare.
FERDINANDO: Ma voi non dite mai niente, e la servitù fa tutto quello che vuole.
FILIPPO: Io son servito benissimo, e non grido mai.
FERDINANDO: Per me non ci penso. Ma avete degli altri ospiti in casa; e si lamentano della servitù.
FILIPPO: Vi dirò, amico; i miei servitori li pago io, e chi non è contento, se ne può andare liberamente.
FERDINANDO: Avete ancora bevuto la cioccolata?
FILIPPO: Io no.
FERDINANDO: E che cosa aspettate a prenderla?
FILIPPO: Aspetto il mio comodo, la mia volontà e il mio piacere.
FERDINANDO: Ma io la prenderei volentieri.
FILIPPO: Servitevi.
FERDINANDO: Son tre ore che l’ho ordinata. Ehi, dico, vi è caso d’aver questa cioccolata? (Alla scena, forte.)
FILIPPO: Ma non gridate.
FERDINANDO: Ma se non la portano.
FILIPPO: Abbiate pazienza. Saranno più del solito affaccendati; oggi si dà pranzo. Saremo in undici o dodici a tavola; la servitù non può far tutto in un fiato.
FERDINANDO: (Per quel ch’io vedo, questa mattina non ci ha da essere fondamento). Schiavo, signor Filippo.
FILIPPO: Dove andate?
FERDINANDO: A bevere la cioccolata in qualche altro luogo.
FILIPPO: Caro amico, fra voi e me, che nessuno ci senta: voi peccate un poco di ghiottoneria.
FERDINANDO: Il mio stomaco ci patisce. Non mangio quasi niente la sera.
FILIPPO: Mi pare, per altro, che ieri alla bella cena del signor Leonardo vi siate portato bene.
FERDINANDO: Oh! ieri sera è stato un accidente.
FILIPPO: Se avessi mangiato quel che avete mangiato voi, digiunerei per tre giorni.
FERDINANDO: Oh! ecco la cioccolata. (Il Servitore ne porta una tazza.)
FILIPPO: Non andate a prenderla fuori? Accomodatevi. Questa la prenderò io.
FERDINANDO: Ve ne avete avuto a male?
FILIPPO: No, non mi ho per male di queste cose. Andate liberamente, che questa la prenderò io.
FERDINANDO: Siete pure grazioso, signor Filippo. Siamo buoni amici; non voglio che andiate in collera. La prenderò io. (Prende la cioccolata.)
FILIPPO: Benissimo. La ceremonia non può essere più obbligante. Sbattetene una per me. (Al Servitore.)
SERVITORE: Signore, se non viene Brigida, non ce n’è.
FILIPPO: Ieri sera non ne avete messo in infusione, secondo il solito?
SERVITORE: Sì, signore, ma ora non ce n’è più.
FILIPPO: Mia figlia non l’ha bevuta, mia sorella non l’ha bevuta, il signor Guglielmo non l’ha bevuta; dove è andata la cioccolata?
SERVITORE: Io non so altro, signore; so che nella cioccolatiera non ce n’è più.
FILIPPO: Bene, se non ce n’è più, toccherà a me a star senza. Oh! a queste cose già sono avvezzo.
FERDINANDO: È buona. Veramente la vostra cioccolata è perfetta.
FILIPPO: Procuro di farla fare senza risparmio.
FERDINANDO: Con permissione. Vado a far quattro passi.
FILIPPO: Venite qua; giochiamo due partite a picchetto.
FERDINANDO: A quest’ora?
FILIPPO: Sì, ora che non c’è nessuno; se aspetto l’ora della conversazione, si mettono a tagliare, fanno le loro partite, ed io non trovo un can che mi guardi.
FERDINANDO: Caro signor Filippo, io ora non ho volontà di giocare.
FILIPPO: Due partite, per compiacenza.
FERDINANDO: Scusatemi, ho bisogno di camminare; più tardi, più tardi, giocheremo più al tardi. (Figurarsi s’io voglio star lì a giocare due soldi la partita con questo vecchio). (Parte.)
FILIPPO: Se lo dico! nessuno mi bada. Tutti si divertono alle mie spalle, ed io, se vorrò divertirmi, mi converrà andare alla spezieria a giocare a dama collo speziale. Oh! mi ha parlato pur bene il signor Fulgenzio. Basta; anche per quest’anno ci sono. Se marito la mia figliuola, vo’ appigionare la casa e la possessione, e non voglio altra villeggiatura. Ma io, se non villeggio, ci patisco. Se non ho compagnia, son morto. Non so che dire. Sono avvezzato così. Il mio non ha da essere mio; me l’hanno da divorare; e la minor parte ha da esser sempre la mia. (Parte.)
SCENA SESTA
Saletta in casa di Costanza.
Costanza e Rosina.
COSTANZA: Brava, nipote, brava, mi piacete. Siete assettata perfettamente.
ROSINA: Ci ho messo tutto il mio studio questa mattina per farmi un’acconciatura di gusto.
COSTANZA: Avete fatto benissimo, perché oggi dal signor Filippo ci saranno tutte le bellezze di Montenero, e si vedranno delle acconciature stupende.
ROSINA: Oh! sì; si vedranno le solite caricature. Furie, teste di leoni e medaglioni antichi.
COSTANZA: È vero; propriamente si disfigurano.
ROSINA: Che si tengano i loro parrucchieri, ch’io non li stimo un’acca. Questi non fanno che copiar le mode che vengono; e non badano se la moda convenga o disconvenga all’aria e al viso della persona.
COSTANZA: Verissimo; è una cosa mostruosa vedere un visino minuto in mezzo una macchina di capelli, che cambia perfino la fisionomia.
ROSINA: Che mai vuol dire, che non si è ancora veduto il signor Tognino? Mi ha detto che sarebbe venuto a far colazione con noi.
COSTANZA: Eh! verrà, non temete. Si vede che vi vuol bene.
ROSINA: Sì, s’io volessi, mi sposerebbe domani.
COSTANZA: La professione del medico è finalmente una professione civile, e potreste andar del pari con chi che sia.
ROSINA: Mi dispiace che vi vuol tempo, prima ch’egli sia in istato di esercitarla.
COSTANZA: Oh! quanto ci vuole? È stato a Pisa a studiare; presto si addottora, e presto può fare il medico.
ROSINA: Dicono che sa poco, e che se non istudia un po’ meglio, sarà difficile ch’egli riesca.
COSTANZA: Eh! mi fate ridere. Per addottorarsi non ci vuol molto. Un poco di memoria, un poco di protezione, in quindici giorni è bell’e spicciato. Quando è addottorato, non gli manca subito una condotta. Gli amici suoi, gli amici nostri gliela faranno ottenere.
ROSINA: E la pratica?
COSTANZA: La pratica la farà in condotta.
ROSINA: Beati i primi che gli capitan sotto.
COSTANZA: Se sarà fortunato, tutte le cose gli anderan bene.
ROSINA: Suo padre sarà poi contento?
COSTANZA: Io spero di sì. Il signor dottore, non fo per dire, ha della bontà grande per me.
SCENA SETTIMA
Ferdinando e le suddette.
FERDINANDO: O di casa. Si può venire? (Di dentro.)
COSTANZA: Venga, venga, è padrone. (Verso la scena.) Il signor Ferdinando. (A Rosina.)
ROSINA: Che vuol da noi questo seccatore?
COSTANZA: Non lo sapete? È uno che si caccia per tutto; e bisogna fargli delle finezze, perché è una lingua che taglia e fende.
ROSINA: Corbella quella povera vecchia, che è una compassione.
FERDINANDO: Servo, signore, padrone mie riverite.
ROSINA: Serva.
COSTANZA: Serva divota.
FERDINANDO: Cospetto! che bellezze son queste?
ROSINA: Ci burla, signore.
FERDINANDO: Ma siete così sole? Non avete compagnia, non avete nessuno?
COSTANZA: Questa mattina non è ancora venuto nessuno.
FERDINANDO: E il signor dottore non è ancora venuto questa mattina?
COSTANZA: Non signore, è in Maremma a fare una visita.
FERDINANDO: E il dottorino in erba non si è veduto?
COSTANZA: Non ancora.
FERDINANDO: Gran bel capo d’opera è quel ragazzo! Ma, oh diavolo! non mi ricordava ch’è l’idolo della signora Rosina. Scusatemi, signora, voi siete una giovane che ha del talento; non credo che la parzialità vi possa dare ad intendere, ch’egli sia spiritoso.
ROSINA: Io non dico che abbia molto spirito; ma non mi pare che sia da porre in ridicolo.
FERDINANDO: No, no, ha il suo merito, è di buona grazia. (Il secondare non costa niente).
COSTANZA: Signor Ferdinando, volete che vi faccia fare il caffè?
FERDINANDO: Obbligatissimo. La mattina non lo prendo mai.
COSTANZA: Avrete preso la cioccolata.
FERDINANDO: Sì, una pessima cioccolata.
COSTANZA: E dove l’avete avuta così cattiva?
FERDINANDO: Dove sto, dal signor Filippo. Un uomo che spende assai, che spende quello che può e quello che non può, ed è pessimamente servito.
ROSINA: Oggi siamo invitate a pranzo da lui.
FERDINANDO: Sì, vedrete della robaccia; della roba, se siamo in dodici, bastante per ventiquattro, ma senza gusto, senza delicatezza: carnaccia, piatti ricolmi, montagne di roba mal cotta, mal condita, tutta grasso, carica di spezierie; roba che sazia a vederla, e non s’ha un piacere al mondo a mangiarla.
COSTANZA: Per dir la verità, ieri sera dal signor Leonardo ci hanno dato una cena molto polita.
FERDINANDO: Sì, polita se voi volete. Ma niente di raro.
COSTANZA: C’erano de’ beccafichi sontuosi.
FERDINANDO: Ma quanti erano? Io non credo che arrivassero a otto beccafichi per ciascheduno.
ROSINA: Io mi sono divertita bene col tonno.
FERDINANDO: Oibò! era condito con dell’olio cattivo. Quando non è olio di Lucca del più perfetto, io non lo posso soffrire.
ROSINA: Oh! vedete chi viene, signora zia?
COSTANZA: Sì, sì, Tognino.
FERDINANDO: Ho ben piacere che venga il signor Tognino.
COSTANZA: Vi prego, signor Ferdinando: quel povero ragazzo non lo prendete per mano.
FERDINANDO: Mi maraviglio, signora Costanza, io non sono capace...
ROSINA: Perché poi chi volesse dire del signor Ferdinando colla sua vecchia, se ne potrebbono dir di belle.
FERDINANDO: Lasciatemi star la mia vecchia, che quella è l’idolo mio. (Ironicamente.)
COSTANZA: Sì sì, l’idolo vostro, ho capito.
SCENA OTTAVA
Tognino e detti.
TOGNINO: Padrone, ben levate. Cosa fanno? Stanno bene? Me ne consolo.
ROSINA: Buon giorno, signor Tognino.
FERDINANDO: Signor Tognino carissimo, ho l’onor di protestarle la mia umilissima servitù. (Con caricatura.)
TOGNINO: Padrone. (Salutando Ferdinando.)
COSTANZA: Avete dormito bene la scorsa notte?
TOGNINO: Signora sì.
ROSINA: Vi ha fatto male la cena?
TOGNINO: Oh male! Perché male? Non mi ha fatto niente male.
FERDINANDO: E poi, se gli avesse fatto male, non sa egli di medicina? Non saprebbe egli curarsi?
TOGNINO: Signor sì, che saprei curarmi.
FERDINANDO: A un uomo che avesse mangiato troppo, che si sentisse aggravato lo stomaco, che cosa ordinereste voi, signor Tognino?
ROSINA: Oh! egli non è ancor medico; e non è obbligato a saper queste cose.
TOGNINO: Signora sì, ch’io lo so.
FERDINANDO: Egli lo sa, signora mia, egli lo sa benissimo, e voi, compatitemi, gli fate torto, e non avete di lui quella stima ch’ei merita. Dite a me, signor Tognino, che cosa gli ordinereste?
TOGNINO: Gli ordinerei della cassia, e della manna, e della sena, e del cremor di tartaro, e del sal d’Inghilterra.
COSTANZA: Cioè, o una cosa, o l’altra.
FERDINANDO: E tutto insieme, se ve ne fosse bisogno.
TOGNINO: E tutto insieme, se ve ne fosse bisogno.
FERDINANDO: Bravo; evviva il signor dottorino.
ROSINA: Orsù, mutiamo discorso.
COSTANZA: A che ora è partito vostro signor padre? (A Tognino.)
TOGNINO: Quando è partito, io dormiva. Non so che ora fosse.
COSTANZA: Non ve l’hanno detto in casa a che ora è partito?
TOGNINO: Me l’hanno detto, ma non me ne ricordo.
FERDINANDO: (Spiritosissima creatura!).
ROSINA: E quando credete ch’egli ritorni?
TOGNINO: Io credo che ritornerà, quando avrà finito di fare quello che deve fare.
FERDINANDO: Non c’è dubbio. Dice benissimo. In quell’età, pare impossibile ch’ei sappia dir tanto.
ROSINA: Orsù, signore, gliel’ho detto e glielo torno a dire: guardi se stesso, e non istia a corbellare. (A Ferdinando.)
TOGNINO: Mi corbella il signor Ferdinando? (A Ferdinando.)
COSTANZA: Ditemi. Avete fatto colezione? (A Tognino.)
TOGNINO: Io no, sono venuto qui a farla.
ROSINA: Ed io v’ho aspettato, e la faremo insieme.
FERDINANDO: Ma! è fortunato il signor Tognino.
TOGNINO: Perché fortunato?
FERDINANDO: Perché fa spasimar le fanciulle.
COSTANZA: Lasciamo andare questi discorsi. (A Ferdinando.)
ROSINA: (Povero il mio Tognino, non gli badate). (Piano a Tognino.)
TOGNINO: (Quando sarete mia, per casa non ce lo voglio). (Piano a Rosina, e battendo i piedi.)
FERDINANDO: Che cosa ha il signor Tognino?
COSTANZA: Lasciatelo stare.
FERDINANDO: Ma io gli voglio bene.
TOGNINO: E a me non importa niente del vostro bene. (Gli fa uno sgarbo.)
FERDINANDO: Grazioso, amabile, delizioso!
SCENA NONA
Tita e detti.
TITA: Signora, una visita. (A Costanza.)
COSTANZA: E chi è?
TITA: La signora Vittoria
COSTANZA: Padrona, mi fa grazia. (A Tita.)
TOGNINO: E la colazione?
ROSINA: Vi contentate, signora zia, che andiamo a far colazione?
COSTANZA: Tita, conducete di là mia nipote e il signor Tognino, date loro qualche cosa di buono, e state lì con essi loro, e non vi partite.
TITA: Sì, signora. (Parte.)
FERDINANDO: (Donna di garbo! Buona custodia! Ammirabile cautela!). (Con ironia.)
ROSINA: Andiamo. (A Tognino.)
FERDINANDO: Buon pro faccia al signor Tognino.
TOGNINO: Grazie. Padrone.
FERDINANDO: Mi faccia un brindisi.
ROSINA: Oh, sono pure annoiata! (A Ferdinando.)
FERDINANDO: Viva mille anni il signor Tognino.
TOGNINO: Oh, sono pure annoiato! (A Ferdinando.)
ROSINA: Andiamo. (Prende Tognino per un braccio, e lo strascina in maniera che si vede la goffaggine di Tognino.)
SCENA DECIMA
Costanza e Ferdinando, poi Vittoria.
COSTANZA: Ma, caro signor Ferdinando...
FERDINANDO: Ma, cara signora Costanza, chi si può tenere, si tenga.
VITTORIA: Serva sua, signora Costanza. Perdoni se ho tardato a fare il mio debito.
COSTANZA: Cosa dice mai? In ogni tempo mi fa onore; mi favorisce. La prego d’accomodarsi. (Siedono.)
FERDINANDO: (Che dite eh? In che gala si è messa?). (Sedendo, piano a Vittoria.)
VITTORIA: (Tutto cattivo; non si sa nemmeno vestire). (A Ferdinando.)
COSTANZA: (Oh, che ti venga la rabbia! Ha il mariage alla moda). (Si guardano sott’occhio, e non parlano.)
FERDINANDO: (Si sono ammutolite, non parlano). E così, signore, che cosa dicono di questo tempo?
VITTORIA: Eh! per la stagione che corre, non c’è male.
COSTANZA: (Ora capisco, perché è venuta da me: per farsi vedere il bell’abito. Ma non le vo’ dar piacere, non le vo’ dir niente).
FERDINANDO: È molto magnifica la signora Vittoria, è vestita veramente di gusto.
VITTORIA: È una galanteria; è un abitino alla moda.
COSTANZA: Starà molto in campagna la signora Vittoria?
VITTORIA: Fino che durerà la villeggiatura.
FERDINANDO: Mi piace infinitamente la distribuzion dei colori.
VITTORIA: In questa sorta d’abiti tutto consiste nell’armonia de’ colori.
COSTANZA: (L’armonia de’ colori!). (Caricandola.)
FERDINANDO: Questo vuol dire essere di buon gusto.
COSTANZA: Questa mattina, m’immagino, sarà anch’ella invitata dalla signora Giacinta.
VITTORIA: Sì, signora. Ci va ella pure?
COSTANZA: Oh! non vuole?
VITTORIA: Va a piedi, se è lecito, o va in isterzo?
COSTANZA: Oh! vado a piedi. Io lo sterzo non l’ho, ché non sono sì ricca; ma quando anche l’avessi, per quattro passi mi parerebbe un’affettazione.
VITTORIA: Eh! non si fa per questo, si fa per la proprietà.
COSTANZA: Se vogliamo parlare di proprietà...
FERDINANDO: Saremo in molti, io credo, questa mattina.
VITTORIA: Per me, ci sia chi ci vuol essere, non mi voglio mettere in soggezione. Mi sono vestita così in abito di confidenza.
FERDINANDO: Ma questo, signora, è un abito con cui può presentarsi in qualunque luogo.
COSTANZA: (Ma che maladetto ciarlone!).
FERDINANDO: Che dic’ella, signora Costanza? Non è questo un vestito magnifico, e di buon gusto?
COSTANZA: Vossignoria non sa che interrompere quand’uno parla. A che ora fa conto d’andare dalla signora Giacinta? (A Vittoria.)
VITTORIA: (Oh! si vede che quest’abito la fa delirare). Dirò, signora, ho da fare ancora due visite, e poi passerò dalla signora Giacinta. Se sarà presto, si farà una partita.
COSTANZA: Oh! sì, per giocare poi, in quella casa si gioca a tutte le ore. Pazienza che giocassero a piccioli giochi, ma c’è quel maladettissimo faraone, che ha da essere la rovina di qualcheduno.
FERDINANDO: Io non so che finora sia accaduto alcuno di questi malanni.
VITTORIA: Quest’anno, per dirla, ho perduto anch’io quanto basta, e poi ho fatto delle spesette. Mi piace andar ben vestita. Ogni stagione mi piace farmi qualche cosa di nuovo. Tutti hanno la loro passione. Io ho quella del vestir bene, e di vestir alla moda. Ecco qui, quest’anno è uscita la moda del mariage, e sono stata io delle prime.
COSTANZA: (Fa propriamente venire il vomito. Non si può soffrire).
FERDINANDO: La pulizia certamente è quella che fa distinguere le persone.
VITTORIA: Che dice, signora Costanza, ella che è di buon gusto, le piace quest’abito?
COSTANZA: Signora, io non voleva dir niente, perché sono una donna sincera, e non mi piace adulare, e dall’altra parte sprezzare la roba degli altri non è buona creanza; ma se deggio dirle la verità, non mi piace niente.
VITTORIA: Non le piace?
COSTANZA: Non so che dire, sarò di cattivo gusto, ma non mi piace.
FERDINANDO: Cospetto! Questa è una cosa grande. Ma che ci trova, che non le piace?
COSTANZA: Ma che cosa ci trova di bello, di maraviglioso, il signor lodatore? È altro che un abito di seta schietto, guarnito a più colori, come si guarniscono le livree? Con sua buona grazia, non mi piace, e mi pare che non meriti tanti elogi.
FERDINANDO: Eh! i gusti sono diversi.
VITTORIA: Per altro, signora Costanza, io non sono venuta mai a disprezzare i suoi abiti. (Si alzano.)
COSTANZA: Né io, mi perdoni...
FERDINANDO: Io vedo che la signora Vittoria ha volontà di partire. Se comanda, la servirò io.
VITTORIA: Mi farà piacere.
COSTANZA: Ella è padrona di servirsi come comanda.
VITTORIA: Serva umilissima.
COSTANZA: Serva divota.
FERDINANDO: Il mio rispetto alla signora Costanza.
VITTORIA: (Merito peggio, non ci doveva venire. Povera, superba e ignorante). (Parte.)
FERDINANDO: (Bel soggetto per una cantata per musica! L’ambizione e l’invidia). (Parte.)
COSTANZA: Gran signora! Gran principessa! Piena di debiti e di vanità, senza fondamento. (Parte.)
Atto II
SCENA PRIMA
Sala in casa di Filippo.
Giacinta e Brigida.
BRIGIDA: Che ma vuol dire, signora padrona, ch’ella è così melanconica? Quest’anno pare ch’ella non goda il piacere della villeggiatura.
GIACINTA: Maledico l’ora e il punto che ci sono venuta.
BRIGIDA: Ma perché mai questa cosa?
GIACINTA: Lasciami stare, non m’inquietar d’avvantaggio.
BRIGIDA: Ma io lo voglio sapere assolutamente. La mia padrona non mi ha mai tenuto nascosto niente, e spero non vorrà darmi ora questa mortificazione.
GIACINTA: Brigida mia, conosco che sono stata una pazza, che sono una pazza, e che le mie pazzie mi voglion far sospirare.
BRIGIDA: Ma perché mai? È ella pentita d’aver a sposare il signor Leonardo?
GIACINTA: No, non mi pento di questo. Leonardo ha del merito, mi ama teneramente, e non è indocile da farmi temere di essere maltrattata. Mi pento bensì, ed amaramente mi pento, d’aver insistito ad onta di tutto di voler con noi il signor Guglielmo, e di aver permesso che mio padre lo abbia alloggiato in casa.
BRIGIDA: Si è forse perciò disgustato il signor Leonardo?
GIACINTA: Ma lascia stare il signor Leonardo, ch’egli non c’entra. Egli soffre anche troppo, ed arrossisco io per lui della sua sofferenza.
BRIGIDA: Ma che cosa le ha fatto dunque il signor Guglielmo? Mi pare un giovane tanto onesto e civile...
GIACINTA: Ah! sì, per l’appunto, la sua civiltà, la sua politezza; quella maniera sua insinuante, dolce, patetica, artifiziosa, mi ha, mio malgrado, incantata, oppressa, avvilita. Sì, sono innamorata, quanto può essere donna al mondo.
BRIGIDA: Come, signora? Ma come mai? Se di lui, mi ha detto tante volte, non ci pensava né poco, né molto?
GIACINTA: È vero, non ho mai pensato a lui, l’ho sempre trattato con indifferenza, e ho riso dentro di me di quelle attenzioni ch’egli inutilmente mi usava. Ma oimè! Brigida mia, quel convivere insieme, quel vedersi ogni dì, a tutte l’ore, quelle continue finezze, quelle parole a tempo, quel trovarsi vicini a tavola, sentirmi urtare di quando in quando (sia per accidente, o per arte), e poi chiedermi scusa, e poi accompagnare le scuse con qualche sospiro, sono occasioni fatali, insidie orribili, e non so, e non so dove voglia andare a finire.
BRIGIDA: Ma ella non ne ha colpa. È causa il padrone.
GIACINTA: Sì, è vero, vo studiando anch’io di dar la colpa a mio padre. Da lui è venuto il primo male; ma toccava a me a rimediarvi, ed io sola poteva farlo, ed io lo doveva fare; ma la maledetta ambizione di non voler dipendere, e di voler essere servita, mi ha fatto soffrire i primi atti d’indifferenza, e l’indifferenza è divenuta compiacimento, ed il compiacimento passione.
BRIGIDA: S’è accorto di niente il signor Leonardo?
GIACINTA: Non credo. Uso ogni arte perché egli non se ne accorga, ma ti giuro ch’io patisco pene di morte. Quel dover usar al signor Leonardo le distinzioni che sono da una sposa ad uno sposo dovute, e vedere dall’altra parte a languire, a patire colui che mi ha saputo vincere il cuore, è un tale inferno, che non lo saprei spiegare volendo.
BRIGIDA: Ma come ha da finire, signora mia?
GIACINTA: Questo è quello ch’io non so dire, e che mi fa continuamente tremare.
BRIGIDA: Finalmente ella non è ancora sposata.
GIACINTA: E che vorresti tu ch’io facessi? Che mancassi alla mia parola? Che si lacerasse un contratto? L’ho io sottoscritto. L’ha sottoscritto mio padre. È noto ai parenti, è pubblico per la città. Che direbbe il mondo di me? Ma vi è di peggio. Se si scoprisse ch’io avessi della passione per questo giovane, chi non direbbe che io l’amava in Livorno, che ho procurato d’averlo meco per un attacco d’amore, e che ho avuto la temerità di sottoscrivere un contratto di nozze col cuore legato, e coll’amante al fianco? Si tratta della riputazione. Sono cose che fanno inorridire a pensarvi.
BRIGIDA: Per bacco! Me ne dispiace infinitamente. Ma non dicevasi comunemente, che il signor Guglielmo avesse della premura per la signora Vittoria?
GIACINTA: Non è vero niente. È arte la sua, è finzione, per nascondere la parzialità che ha per me.
BRIGIDA: Dunque lo sa il signor Guglielmo, che vossignoria ha della passione per lui.
GIACINTA: Ho procurato nascondermi quanto ho potuto, ma se n’è accorto benissimo, e poi quella vecchia pazza di mia zia, vecchia maliziosissima, se n’è anch’ella avveduta, e in luogo d’impedire, di rimediare, pare che ci abbia gusto ad attizzare il foco, ed ha ella una gran parte in questa mia debolezza.
BRIGIDA: A proposito della vecchia, eccola qui per l’appunto.
GIACINTA: L’età l’ha fatta ritornare bambina. Fa ella mille sguaiataggini, e vorrebbe che tutte fossero del di lei umore.
BRIGIDA: Diciamole qualche cosa. Avvisiamola che non istia a lusingare il signor Guglielmo.
GIACINTA: No, no, per amor del cielo, non le diciamo niente, lasciamo correre, perché si farebbe peggio.
BRIGIDA: (Ho capito. La mia padrona è un’ammalata, che ha paura della medicina).
SCENA SECONDA
Sabina e dette.
SABINA: Nipote, avete veduto il signor Ferdinando?
GIACINTA: Non signora, questa mattina non l’ho veduto.
SABINA: E voi, Brigida, l’avete veduto?
BRIGIDA: L’ho veduto di buonissima ora: è sortito, e non è più ritornato.
SABINA: Guardate che malagrazia! Mi ha detto ieri sera, ch’io l’aspettassi questa mattina a bevere la cioccolata nella mia camera, e non si è ancora veduto: va tutto il dì a girone; ha cento visite, ha cento impegni. Più che si fa, meno si fa con questi uomini. Sono propriamente ingrati.
BRIGIDA: (Povera giovanetta! Le fanno veramente un gran torto).
SABINA: Voi avete presa la cioccolata? (A Giacinta.)
GIACINTA: Non signora.
SABINA: Perché non siete venuta da me quando vi ho mandato a chiamare, che l’avremmo bevuta insieme?
GIACINTA: Non ne aveva volontà stamattina.
SABINA: C’era anche il signor Guglielmo. (Sorridendo.)
BRIGIDA: (La buona vecchia!).
SABINA: È venuto a favorirmi in camera il signor Guglielmo; ho fatto portare la cioccolata, ed ha avuto egli la bontà di frullarla colle sue mani. Se vedeste come sa frullare con buona grazia! Quel giovane, tutto quello che fa, lo fa bene.
BRIGIDA: (Ed ella, per verità, non si porta male).
SABINA: Che avete? Siete ammalata?
GIACINTA: Mi duole un poco la testa.
SABINA: Io non so che razza di gioventù sia quella del giorno d’oggi. Non si sente altro che mali di stomaco, dolori di testa e convulsioni. Tutte hanno le convulsioni. Io non mi cambierei con una di voi altre, per tutto l’oro del mondo.
GIACINTA: Dice bene la signora zia; ella ha un buonissimo temperamento.
SABINA: Mi diverto almeno, e non istò qui a piangere il morto, e non vengo in villeggiatura per annoiarmi. Mi dispiace che non ci sia Ferdinando; chiamatemi un servitore, che lo voglio mandar a cercare. (A Brigida.)
GIACINTA: Eh! via, signora zia, non vi fate scorgere, non vi rendete ridicola in questo modo.
SABINA: Che cosa intendereste di dire? Io mi fo scorgere? Io mi rendo ridicola? Non posso avere della stima, della parzialità per una persona? Non sono vedova? Non sono libera? Non sono padrona di me?
GIACINTA: Sì, è verissimo. Ma nell’età in cui siete...
SABINA: Che età, che età? Non sono una giovinetta; ma sono ancor fresca donna, ed ho più spirito e più buona grazia di voi.
GIACINTA: Io, se fossi in voi, mi vergognerei a dire di queste cose.
SABINA: Per che cosa ho da vergognarmi? A una donna libera, sia vedova o sia fanciulla, è permesso avere un amante. Ma due alla volta non è permesso. Credo che mi possiate capire.
GIACINTA: Mi maraviglio, signora, che parliate in tal modo. Fate quel che vi piace. Io non entrerò più ne’ fatti vostri, e voi non v’impicciate ne’ miei. (Parte.)
SCENA TERZA
Sabina e Brigida
SABINA: Fraschetta, insolente! Se non si sapessero i suoi segreti!
BRIGIDA: Ma mi compatisca, signora, ella si regola male. Se conosce che vi sia qualche cosa, ella lo ha da impedire, o per lo meno ha da procurare che non si sappia. Non si tratta mica di bagattelle, si tratta di riputazione. Le parerebbe di aver fatta una bella cosa, se fosse causa del precipizio di sua nipote? Se ella vede che vi sia qualche cosa, non ha da permettere che continui, e non ha da essere quella che attizzi il foco, stuzzichi la gioventù, ché pur troppo il diavolo è grande; e quel ch’è stato, è stato, e non bisogna parlarne, e non mettere degli scandali e delle dissensioni nella famiglia.
SABINA: Mandatemi a chiamare il signor Ferdinando.
SCENA QUARTA
Ferdinando e dette.
FERDINANDO: Eccomi, eccomi. Sono qui; sono qui a servirla.
SABINA: Dove siete stato finora? (Sdegnata.)
FERDINANDO: Sono stato dallo speziale. Mi sentiva un poco di mal di stomaco, e sono stato a masticar del reobarbaro.
SABINA: State meglio ora? (Dolcemente.)
FERDINANDO: Sì, sto un poco meglio.
SABINA: Poverino! Per questo non sarete venuto da me a prendere la cioccolata. (Come sopra.)
BRIGIDA: (Ma si può dare una vecchia più pazza, più rimbambita?).
FERDINANDO: Mi è dispiaciuto moltissimo a non poter venire. Ma so che ha dell’amore per me, mi compatirà.
SABINA: Andate via di qua, voi. (A Brigida.)
BRIGIDA: Oh! sì, signora, non dubiti, che io non interromperò le sue tenerezze. (Parte.)
SCENA QUINTA
Ferdinando e Sabina.
SABINA: (Dicano quel che vogliono; mi basta che il mio Ferdinando mi voglia bene).
FERDINANDO: (Ora ho da digerire tutto il divertimento che ho avuto questa mattina).
SABINA: Caro il mio Ferdinando.
FERDINANDO: Cara la mia cara signora Sabina.
SABINA: Datemi da sedere.
FERDINANDO: Subito. Volentieri. (Le porta una sedia.)
SABINA: E voi, perché non sedete? (Siede.)
FERDINANDO: Sono stato a sedere finora.
SABINA: Sedete, vi dico.
FERDINANDO: Me lo comanda?
SABINA: Sì, posso comandarvelo, e ve lo comando.
FERDINANDO: Ed io deggio obbedire, e obbedisco. (Va a prendere la sedia.)
SABINA: (Ma che figliuolo adorabile!).
FERDINANDO: (Quanto ha da durare questa seccatura?). (Porta la sedia.)
SABINA: (Ma quanto ben che mi vuole!).
FERDINANDO: Eccola obbedita. (Siede.)
SABINA: Accostatevi un poco.
FERDINANDO: Sì, signora. (Si accosta un poco.)
SABINA: Via, accostatevi bene.
FERDINANDO: Signora... ho preso il reobarbaro...
SABINA: Ah bricconcello! M’accosterò io. (S’accosta.)
FERDINANDO: (Che ti venga la rabbia).
SABINA: Caro figliuolo, governatevi, non disordinate. Ieri sera avete mangiato un poco troppo. Basta; questa mattina a tavola starete appresso di me. Vi voglio governar io; mangerete quello che vi darò io.
FERDINANDO: Eh! da qui all’ora del pranzo vi è tempo. Può essere ch’io stia bene, e che mangi bene.
SABINA: No, gioia mia; voglio che vi regoliate.
FERDINANDO: Che ora è presentemente?
SABINA: Ecco, diciassett’ore; osservate. Non avete anche voi l’oriuolo? (Mostrando il suo.)
FERDINANDO: Ne aveva uno... non saprei... andava male; l’ho lasciato a Livorno.
SABINA: Perché lasciarlo? Un galantuomo senza l’oriuolo, specialmente in campagna, fa cattiva figura.
FERDINANDO: È vero, se sapessi come fare... Arrossisco di non averlo. Andrei quasi a posta a pigliarlo.
SABINA: Se il mio avesse la catena da uomo, ve lo presterei volentieri.
FERDINANDO: Una catena d’acciaio si può trovare facilmente: a Montenero se ne trovano.
SABINA: Sì, si potrebbe trovare. Ma io poi avrei da restare senza il mio oriuolo?
FERDINANDO: Che serve? Credete ch’io non lo sappia, che l’avete detto per ridere, per burlarmi? Andrò a Livorno...
SABINA: No, no, caro; ve l’ho detto di cuore. Tenete, gioia mia, tenete. Ma ve lo presto, sapete?
FERDINANDO: Oh! ci s’intende. (Questo non lo avrà più).
SABINA: Vedete, se vi voglio bene?
FERDINANDO: Cara signora Sabina, siete certa di essere corrisposta.
SABINA: E se continuerete ad amarmi, avrete da me tutto quel che volete.
FERDINANDO: Io non vi amo per interesse. Vi amo perché lo meritate, perché mi piacete, perché siete adorabile.
SABINA: Anima mia, metti via quell’oriuolo, che te lo dono. (Piangendo.)
FERDINANDO: (Oh! se potessi ridere! Riderei pur di cuore).
SABINA: Senti, figliuolo mio, io ho avuto diecimila scudi di dote. Col primo marito non ho avuto figliuoli. Sono miei, sono investiti, e ne posso disporre. Se mi vorrai sempre bene, io ho qualche anno più di te, e un giorno saranno tuoi.
FERDINANDO: E non vi volete rimaritare?
SABINA: Briccone! per che cosa credi ch’io ti voglia bene? Pensi ch’io sia una fraschetta? Se non avessi intenzione di maritarmi, non farei con te quel ch’io faccio.
FERDINANDO: Cara signora Sabina, questa sarebbe per me una fortuna grandissima.
SABINA: Gioia mia, basta che tu lo voglia. Quest’è una cosa che si fa presto.
FERDINANDO: E avete diecimila scudi di dote?
SABINA: Sì, e in sei anni che sono vedova, ho accumulati anche i frutti.
FERDINANDO: E ne potete disporre liberamente?
SABINA: Sono padrona io.
FERDINANDO: Che vuol dire, non avreste difficoltà a farmi una piccola donazione.
SABINA: Donazione? A me si domanda una donazione? Sono io in tale stato da non potermi maritare senza una donazione?
FERDINANDO: Ma non avete detto, che un giorno la vostra dote può essere cosa mia?
SABINA: Sì, dopo la mia morte.
FERDINANDO: Farlo prima, o farlo dopo, non è lo stesso?
SABINA: E se ci nascono dei figliuoli?
FERDINANDO: (Oh vecchia pazza! Ha ancora speranza di far figliuoli).
SABINA: Ditemi un poco, signorino, è questo il bene che mi volete senza interesse?
FERDINANDO: Io non parlo per interesse. Parlo perché, se fossi padrone di questo danaro, potrei mettere un negozietto a Livorno, e farmelo fruttare il doppio, e star bene io, e fare star bene benissimo la mia cara consorte.
SABINA: No, disgraziato, tu non mi vuoi bene. (Piange.)
FERDINANDO: Cospetto! se non credete ch’io vi ami, farò delle bestialità, mi darò alla disperazione.
SABINA: No, caro, no, non ti disperare, ti credo: che tu sia benedetto!
FERDINANDO: Ho un amore per voi così grande, che non lo posso soffrire.
SABINA: Sì, ti credo, ma non mi parlare di donazione. Non ti basta ch’io t’abbia donato il core?
FERDINANDO: (Eh! col tempo può essere che ci caschi).
SCENA SESTA
Filippo e detti.
FILIPPO: E così, signor Ferdinando, volete ora che facciamo quattro partite a picchetto?
SABINA: Cosa ci venite voi a seccare col vostro picchetto?
FILIPPO: Io non parlo con voi. Parlo col signor Ferdinando.
SABINA: Il signor Ferdinando non vuol giocare.
FERDINANDO: (Non saprei dire delle due seccature, quale fosse la peggio).
FILIPPO: Volete giocare, o non volete giocare? (A Ferdinando.)
FERDINANDO: Con permissione. (S’alza.)
FILIPPO: Dove andate?
FERDINANDO: Con permissione. (Corre via.)
SABINA: Lasciatelo andare. Ha pigliato il reobarbaro.
FILIPPO: Mangia come un lupo, e poi gli si aggrava lo stomaco.
SABINA: Non è vero, è delicato, e ogni poco di più gli fa male.
FILIPPO: Dove ha preso il reobarbaro?
SABINA: Dallo speziale.
FILIPPO: Non è vero niente: appena è egli uscito di qui, sono io andato dallo speziale. Ho giocato a dama finora, e non c’è stato, e non ci può essere stato.
SABINA: Siete orbo, e non l’avrete veduto.
FILIPPO: Ci vedo meglio di voi.
SABINA: Il signor Ferdinando non è capace di dir bugie.
FILIPPO: Sapete, quando dice la verità? Quando dice per tutto il mondo, che voi siete una vecchia pazza. (Parte.)
SABINA: Bugiardo, vecchio catarroso, maligno! Lo so perché lo dice, lo so perché lo perseguita. Ma sì, gli voglio bene, e lo voglio sposare al dispetto di tutto il mondo. (Parte.)
SCENA SETTIMA
Giacinta, poi Guglielmo.
GIACINTA: Ah! Guglielmo vuol essere il mio precipizio. Non so dove salvarmi. Mi seguita dappertutto. Non mi lascia in pace un momento.
GUGLIELMO: Ma perché mi fuggite, signora Giacinta?
GIACINTA: Io non fuggo; bado a me, e vado per la mia strada.
GUGLIELMO: È vero, ed io sono sì temerario di seguitarvi. Un’altra, che non avesse la bontà che voi avete, mi avrebbe a quest’ora per la mia importunità discacciato. Ma voi siete tanto gentile, che mi soffrite. Sapete la ragione che mi fa ardito, e la compatite.
GIACINTA: (Non so che cosa abbiano le sue parole. Paiono incanti, paiono fattucchierie).
GUGLIELMO: S’io credessi che la mia persona vi fosse veramente molesta, o ch’io potessi pregiudicarvi, a costo di tutto vorrei in questo momento partire; ma esaminando me stesso, non mi pare di condurmi sì male, che possa io produrre verun disordine, né alterare la vostra tranquillità.
GIACINTA: (Eh! pur troppo mi ha fatto del male più di quello che egli si pensa).
GUGLIELMO: Signora, per grazia, due parole a proposito di quel che vi ho detto.
GIACINTA: Quest’anno non ci possiamo discontentare. Il bel tempo ci lascia godere una bella villeggiatura.
GUGLIELMO: Ciò non ha niente che fare con quello ch’io vi diceva.
GIACINTA: Che cosa dite della cena di ieri sera?
GUGLIELMO: Tutto è per me indifferente, fuor che l’onore della vostra grazia.
GIACINTA: Non so se il nostro pranzo di questa mattina corrisponderà al buon gusto del trattamento, che abbiamo avuto iersera.
GUGLIELMO: In casa vostra non si può essere che ben trattati. Qui si gode una vera felicità, e s’io sono il solo a rammaricarmi, è colpa mia, non è colpa di nessun altro.
GIACINTA: (Si può dare un’arte più sediziosa di questa?).
GUGLIELMO: Signora Giacinta, scusatemi se v’infastidisco. Mi date permissione ch’io vi dica una cosa?
GIACINTA: Mi pare che abbiate parlato finora quanto avete voluto. (Con un poco di caldo.)
GUGLIELMO: Non vi adirate: tacerò, se mi comandate ch’io taccia.
GIACINTA: (Che mai voleva egli dirmi?).
GUGLIELMO: Comincio ad essere più sfortunato che mai. Veggio che le mie parole v’annoiano. Signora, vi leverò l’incomodo.
GIACINTA: E che cosa volevate voi dirmi?
GUGLIELMO: Mi permettete ch’io parli?
GIACINTA: Se è cosa da dirsi, ditela.
GUGLIELMO: So il mio dovere, non temete ch’io ecceda, e che mi abusi della vostra bontà. Dirovvi solamente ch’io vi amo; ma che se l’amor mio potesse recare il menomo pregiudizio o agli interessi vostri, o alla vostra pace, son pronto a sagrificarmi in qualunque modo vi aggrada.
GIACINTA: (Chi può rispondere ad una proposizione sì generosa?).
GUGLIELMO: Ho detto io cosa tale, che non meriti da voi risposta?
GIACINTA: Una fanciulla impegnata con altri non dee rispondere ad un tale ragionamento.
GUGLIELMO: Anzi una fanciulla impegnata può rispondere, e deve rispondere liberamente.
GIACINTA: Sento gente, mi pare.
GUGLIELMO: Sì, ecco visite. Rispondetemi in due parole.
GIACINTA: È la signora Costanza con sua nipote.
GUGLIELMO: Vi sarò tanto importuno, fino che mi dovrete rispondere.
GIACINTA: (Sono così confusa, che non so come ricevere queste donne. Converrà ch’io mi sforzi per non mi dar a conoscere).
SCENA OTTAVA
Costanza Rosina, Tognino e detti.
GUGLIELMO (si ritira da una parte).
COSTANZA: Serva, signora Giacinta.
GIACINTA: Serva sua, signora Costanza.
ROSINA: Serva divota.
GIACINTA: Serva, signora Rosina.
TOGNINO: Servitor suo.
GIACINTA: Signor Tognino, la riverisco.
COSTANZA: Siamo qui a darle incomodo.
GIACINTA: Anzi a favorirci; mi dispiace che saranno venute a star male.
COSTANZA: Oh! cosa dice? Non è la prima volta ch’io abbia ricevute le sue finezze.
GIACINTA: Ehi, chi è di là? Da sedere. (I Servitori portano le sedie.) (Perché non venite avanti?) (A Guglielmo, piano.)
GUGLIELMO: (Sono mortificato). (A Giacinta.)
GIACINTA: Le prego di accomodarsi. (Siedono.) Favorisca, signor Guglielmo, qui c’è una seggiola vuota. vicino a lei.
GUGLIELMO: (Quella non è per me, signora).
GIACINTA: (E per chi dunque?).
GUGLIELMO: (Non tarderà a venire chi ha più ragion di me di occuparla).
GIACINTA: (Se principiate a far delle scene, vi darò quella risposta che non ho avuto cuore di darvi).
GUGLIELMO: (Vi obbedirò, come comandate). (Siede.)
COSTANZA: (Che dite, eh? Anch’ella ha il mariage alla moda). (A Rosina.)
ROSINA: (Eh! sì, queste due signore illustrissime vanno a gara).
GIACINTA: Che fa il signor Tognino? Sta bene?
TOGNINO: Servirla.
GIACINTA: Che fa il signor padre?
TOGNINO: Servirla.
GIACINTA: Non è andato in Maremma, mi pare?
TOGNINO: Servirla.
GIACINTA: (Che sciocco!). (Piano a Guglielmo.)
GUGLIELMO: (Ma è fortunato in amore). (Piano a Giacinta.)
COSTANZA: Anch’ella, signora Giacinta, s’è fatto il mariage alla moda?
GIACINTA: Eh! un abitino di poca spesa.
COSTANZA: Sì, è vero, è un cosettino di gusto. Mi piace almeno, ch’ella lo spaccia per quel che è; ma la signora Vittoria ne ha uno cento volte peggio di questo, e si dà ad intendere d’avere una cosa grande, un abito spaventoso.
GIACINTA: Vogliono divertirsi? Vogliono fare una partita? Gioca all’ombre la signora Costanza?
COSTANZA: Oh! sì signora.
GIACINTA: E la signora Rosina?
ROSINA: Per obbedirla.
GIACINTA: E il signor Tognino?
TOGNINO: Oh! io non so giocare che a bazzica.
GIACINTA: Gioca a bazzica la signora Rosina?
ROSINA: Perché vuol ella ch’io giochi a bazzica?
GIACINTA: Non saprei. Vorrei fare il mio debito. Non vorrei dispiacere a nessuno; s’ella volesse far la partita col signor Tognino...
ROSINA: Oh! non vi è questo bisogno, signora.
COSTANZA: Via, la signora Giacinta è una signora compita, e fra di noi c’intendiamo. Ma il signor Tognino, che giochi o che non giochi, non preme; starà a veder a giocare all’ombre, imparerà: starà a veder la Rosina.
GIACINTA: Ella sa meglio di me, signora Costanza, l’attenzion che ci vuole nel distribuir le partite.
COSTANZA: Oh! lo so, per esperienza. Lo so che si procura di unire quelle persone, che non istanno insieme mal volentieri. Anch’io ho tutta l’attenzione per questo; ma quel che mi fa disperare si è, che qualche volta vi è fra di loro qualche grossezza, o per gelosia, o per puntiglio, e s’ingrugnano, senza che si sappia il perché: a chi duole il capo, a chi duole lo stomaco, e si dura fatica a mettere insieme due tavolini. Verrà una per esempio, e dirà: ehi, questa sera vorrei far la partita col tale. Verrà un’altra: ehi, avvertite, non mi mettete a tavolino col tale e colla tale, che non mi ci voglio trovare. Pazienza anche, se lo dicessero sempre. Il peggio si è, che qualche volta pretendono che s’indovini. Ci vuole un’attenzione grandissima: pensare alle amicizie e alle inimicizie. Cercare di equilibrar le partite fra chi sa giocare. Scegliere quel tal gioco, che piace meglio a quei tali. Dividere chi va via presto, e chi va via tardi, e qualche volta procurar di mettere la moglie in una camera, ed il marito nell’altra.
GIACINTA: Vero, vero; lo provo ancor io: sono cose vere. Sento una carrozza, mi pare. Sarà la signora Vittoria e il signor Leonardo. Fatemi un piacere, signor Guglielmo, andate a vedere se sono dessi.
GUGLIELMO: Sì, signora, è giusto; questa seggiola non è per me. (S’alza.)
GIACINTA: Se non volete, non preme...
GUGLIELMO: Contentatevi. Son giovane onesto, e so il mio dovere. (Parte.)
GIACINTA: (Oggi m’aspetto di dover passare una giornata crudele).
COSTANZA: Dica, signora Giacinta, è egli vero che il signor Guglielmo si sia dichiarato per la signora Vittoria?
GIACINTA: Lo dicono.
COSTANZA: Siccome deve essere sua cognata, ella lo dovrebbe sapere.
GIACINTA: Finora non c’è stata gran confidenza fra lei e me.
COSTANZA: E le nozze sue si faranno presto?
GIACINTA: Non so, non glielo so dire. E ella, signora Costanza, quando fa sposa la signora Rosina?
COSTANZA: Chi sa? potrebbe darsi.
ROSINA: Oh! non c’è nessun che mi voglia.
TOGNINO: (Nessuno?). (Piano a Rosina, urtandola forte.)
ROSINA: (Zitto, malagrazia). (Piano a Tognino.)
GIACINTA: Mi pare, se non m’inganno... (Verso Tognino ecc..)
COSTANZA: Le pare, signora Giacinta? (Sogghignando per piacere.)
ROSINA: Qualche volta l’apparenza inganna.
GIACINTA: Il signor Tognino non è giovane capace di burlare.
TOGNINO: Ah? (Fa uno scherzo a Rosina ridendo, poi s’alza e passeggia sgarbatamente.)
GIACINTA: (È un buon ragazzo, mi pare). (A Costanza.)
COSTANZA: (Non ha molto spirito). (A Giacinta.)
GIACINTA: (Cosa importa? Basta che abbia il modo di mantenerla). (A Costanza.)
COSTANZA: (Oh! sì, è figlio solo). (A Giacinta.)
SCENA NONA
Leonardo e Vittoria, servita di braccio da Guglielmo, e detti. Tutti s’alzano.
GIACINTA: Serva, signora Vittoria. (Incontrandola.)
VITTORIA: Serva, la mia cara signora Giacinta. (Si baciano.)
LEONARDO: Scusate, vi prego, signora Giacinta, se ho tardato più del solito questa mattina a venire a vedervi. Ho dovuto far delle visite, ho avuto degli altri affari domestici, che mi hanno tenuto occupato. Spero che compatirete la mia mancanza, né mi vorrete perciò incolpare di trascuratezza, o di poco amore.
GIACINTA: Io non credo che mi abbiate mai conosciuta indiscreta. Quando venite, mi fate grazia; quando non potete, io non vi obbligo di venire.
LEONARDO: (Non so s’io l’abbia da credere discretezza, o poca curanza).
GIACINTA: Favoriscano d’accomodarsi. (Costanza, Rosina e Tognino siedono ai loro posti.) Signor Guglielmo, favorisca presso la signora Vittoria.
GUGLIELMO: Come comanda. (Siede presso a Vittoria, Giacinta presso Guglielmo, e Leonardo presso Giacinta.)
VITTORIA: Questa mattina non si è degnato di favorirmi il signor Guglielmo.
GUGLIELMO: In verità, signora, non ho potuto.
VITTORIA: So pure che siete stato tutta la mattina in casa.
GUGLIELMO: È verissimo, sì signora ho avuto da scrivere delle lettere di premura.
VITTORIA: C’era anche da noi il calamaio e la carta.
GUGLIELMO: Non mi sarei presa una simile libertà.
VITTORIA: Sì, sì, carino, ho capito. (Sdegnosa.)
GIACINTA: Signora Vittoria, non bisogna essere sì puntigliosa.
LEONARDO: Imparate dalla signora Giacinta. Ella è compiacentissima. Non tormenta mai per iscarsezza di visite.
GIACINTA: Io non credo che vi siano degli uomini, a’ quali piacciano le seccature.
LEONARDO: Eppure vi sono di quelli che volentieri si sentono rimproverare, e prendono qualche volta i rimproveri per segni d’amore.
GIACINTA: Tutti pensano diversamente; ed io non amo le affettazioni.
LEONARDO: Ora che so il genio vostro, mi affannerò molto meno nella premura di rivedervi.
GIACINTA: Siete padrone d’accomodarvi, come vi pare.
COSTANZA: (Ho paura che voglia essere il loro un matrimonio di poco amore). (A Rosina.)
ROSINA: (Sì, sarà un matrimonio più per impegno che per inclinazione). (A Costanza.)
SCENA DECIMA
Sabina, servita di braccio da Ferdinando, e detti.
TOGNINO: (Ehi, la vecchia). (A Rosina.)
ROSINA: (La vecchia). (A Costanza.)
COSTANZA: (Sì, col suo amorino). (A Rosina.)
SABINA: Serva umilissima di lor signori.
VITTORIA: Serva sua, signora Sabina.
COSTANZA: Riverisco la signora Sabina.
ROSINA: Come sta la signora Sabina?
SABINA: Bene, bene, sto bene. Che bella compagnia! Chi è quel giovanotto? (Accennando a Tognino.)
TOGNINO: Servitor suo, signora Sabina.
SABINA: Vi saluto, caro: chi siete?
ROSINA: Non lo conosce? È il figliuolo del signor dottore.
SABINA: Di qual dottore?
COSTANZA: Del medico; del nostro medico.
SABINA: Bravo, bravo, me ne consolo. È un giovanetto di garbo. È maritato? (A Rosina.)
ROSINA: Signora no.
SABINA: Quanti anni avete? (A Tognino.)
TOGNINO: Sedici anni.
SABINA: Perché non ci venite mai a trovare?
ROSINA: Ha da fare.
COSTANZA: Ha da studiare.
ROSINA: Non va in nessun luogo.
SABINA: Sì, sì, ho capito. Bravi, bravi; non dico altro. Io poi, quando si tratta... se mi capite, non abbiate paura, che non sono di quelle. Ferdinando.
FERDINANDO: Signora.
SABINA: Cara gioia, datemi il fazzoletto.
FERDINANDO: Vuole il bianco?
SABINA: Sì, il bianco. Ieri sera ho preso dell’aria ed ho una flussioncella a quest’occhio.
FERDINANDO: Eccola servita. (Le dà il fazzoletto con un poco di sdegno.)
SABINA: Cos’è, che mi parete turbato? (A Ferdinando.)
FERDINANDO: (Niente, signora). (A Sabina.)
SABINA: (Avete rabbia, perché ho parlato con quel giovanotto?). (A Ferdinando.)
FERDINANDO: Eh! signora no. (Ho rabbia di dovermi in pubblico far minchionare).
SABINA: (No, caro, non abbiate gelosia, che non parlerò più con nessuno). (A Ferdinando.)
FERDINANDO: (Parli anche col diavolo, che non ci penso).
SABINA: (Tenete il fazzoletto). (A Ferdinando.)
FERDINANDO: (Mi stanno sul cuore quei diecimila scudi).
SABINA: (Non dico tutto, ma qualche cosa bisognerà poi ch’io gli doni).
GIACINTA: Orsù, signori, si vogliono divertire? Vogliono fare qualche partita?
VITTORIA: Per me faccio quello che fanno gli altri.
COSTANZA: Disponga la signora Giacinta.
SABINA: Di me non disponete, ché la mia partita l’ho fatta. (A Giacinta.)
GIACINTA: E a che vuol giocare la signora zia?
SABINA: A tresette in tavola col signor Ferdinando.
FERDINANDO: (Oh povero me! Sto fresco). Signora, questo è un gioco che annoia infinitamente. (A Sabina.)
SABINA: Eh! signor no, è un bellissimo gioco. E poi, che serve? Avete da giocare con me.
FERDINANDO: (Ci vorrà pazienza).
SABINA: Avete sentito? Per me sono accomodata. (A Giacinta.)
GIACINTA: Benissimo. Faranno un ombre in terzo la signora Vittoria, la signora Costanza e il signor Guglielmo.
COSTANZA: (Poteva far a meno di mettermi a tavolino con quella signora del mariage).
VITTORIA: (Mettermi con lei! Non sa distribuir le partite). (Da sé.)
GUGLIELMO: (Non sono degno della vostra partita?). (A Giacinta.)
GIACINTA: (Mi maraviglio che abbiate ardir di parlare). (A Guglielmo.) Faremo un altro tavolino d’ombre il signor Leonardo, la signora Rosina ed io.
ROSINA: Come comanda. (Può essere ch’io goda qualche bella scena). (Da sé.)
GIACINTA: È contento, signor Leonardo?
LEONARDO: Io sono indifferentissimo.
GIACINTA: Se volesse servirsi a qualche altro tavolino, è padrone.
LEONARDO: Veda ella, se le pare che le partite non sieno disposte bene.
GIACINTA: Io non posso sapere precisamente il genio delle persone.
LEONARDO: Per me non ho altro desiderio che di dar piacere a lei, ma mi pare che sia difficile.
GIACINTA: Oh! è più facile ch’ella non crede. Ehi! chi è di là? (Vengono i Servitori.)
GUGLIELMO: Accomodate tre tavolini. Due per l’ombre, ed uno per un tresette in tavola. (I Servitori eseguiscono.)
VITTORIA: Mi pare un po’ melanconico il signor Guglielmo. (A Guglielmo.)
GUGLIELMO: Non lo sa, signora? Son così di natura.
VITTORIA: Voi amate poco, signor Guglielmo.
GUGLIELMO: Anzi amo più di quello che vi credete.
VITTORIA: (Manco male, che mi ha detto una buona parola).
GIACINTA: (Bravo, signor Guglielmo, me ne consolo. Ho piacere che amiate la signora Vittoria). (A Guglielmo.)
GUGLIELMO: (Ognuno può interpretar le cose a suo modo). (A Giacinta.)
LEONARDO: (Signora Giacinta, che cosa avete detto piano al signor Guglielmo?). (A Giacinta.)
GIACINTA: (Ho da rendervi conto di tutte le mie parole?). (A Leonardo.)
LEONARDO: (Mi pare che ci sia un poco troppo di confidenza). (A Giacinta.)
GIACINTA: (Questi ingiuriosi sospetti non sono punto obbliganti). (A Leonardo.)
LEONARDO: (È una condizione la mia un poco troppo crudele). (Da sé.)
GIACINTA: Orsù, è preparato, signori. L’ora è tarda, e se non si sollecita, or ora ci danno in tavola.
SABINA: Per me son lesta. Andiamo, Ferdinandino.
FERDINANDO: Eccomi ad obbedirla. (Per una volta si può soffrire). (Da sé, e va a sedere al tavolino indietro con Sabina.)
VITTORIA: Favorite, signor Guglielmo.
GUGLIELMO: Sono a servirla.
VITTORIA: S’accomodi, signora Costanza.
COSTANZA: (Vuole stare nel mezzo per non guastare il bell’abito). (Siedono a tavolino.)
GIACINTA: Se comanda, signora Rosina...
ROSINA: Eccomi. (Tognino, venite con me.) (A Tognino.)
TOGNINO: Signora, sì. (Vorrei che si andasse a tavola). (Tutti siedono, e principiano a giocare.)
SCENA UNDICESIMA
Filippo e detti.
FILIPPO: Servo di lor signori. (Tutti salutano senza moversi.) E io non ho da far niente? Tutti giocano, e per me non c’è da giocare?
GIACINTA: Vuol giocare, signor padre?
FILIPPO: Mi parerebbe di sì.
GIACINTA: Ehi! portate un altro tavolino. Vada a giocare a bazzica col signor Tognino.
FILIPPO: A bazzica?
GIACINTA: Non c’è altra partita. Il signor Tognino non sa giocare che a bazzica.
FILIPPO: E non posso giocare con qualcun altro? Non posso giocare a picchetto col signor Ferdinando?
SABINA: Il signor Ferdinando è impegnato.
FILIPPO: Oh! questa è bella da galantuomo.
ROSINA: Caro signor Filippo, non si degna di giocare col signor Tognino?
FILIPPO: Non occorr’altro. Andiamo a giocare a bazzica. (A Tognino.)
TOGNINO: Avverta ch’io non gioco di più d’un soldo la partita.
FILIPPO: Sì, andiamo; giocheremo d’un soldo. (S’incammina al tavolino.) Ehi! senti, va subito in cucina, e di’ al cuoco che si solleciti quanto può, e che, crudo o cotto, dia in tavola. (Ad un Servitore, che parte.) (Figurarsi s’io voglio star qui un’ora a giocare a bazzica con questo ceppo!). (Siede al tavolino con Tognino e giocano.)
VITTORIA: Mi pare che un addio stamane si poteva venire a darmelo. (A Guglielmo.)
GUGLIELMO: Ma non vi ho detto, signora, che non sono uscito di casa?
VITTORIA: Sì, è vero; state in casa assai volentieri. Io dubito che a questa casa siate un poco troppo attaccato.
GUGLIELMO: Non so con qual fondamento lo possiate dire.
COSTANZA: Ma, signori miei, si gioca o non si gioca?
GUGLIELMO: Ha ragione la signora Costanza.
VITTORIA: (Or ora getto le carte in tavola).
GIACINTA: (Vittoria, per quel ch’io sento, vuol far nascere delle scene).
LEONARDO: Perché non bada al suo gioco, signora Giacinta?
ROSINA: Via, risponda. Ho giocato picche.
GIACINTA: Taglio.
ROSINA: Taglia? Se ha rifiutato a trionfo.
LEONARDO: Non vuol che rifiuti? Non ha il cuore al gioco.
GIACINTA: Fo il mio dovere. Sento che qualcheduno si lamenta, e non so di che.
LEONARDO: (Non veggio l’ora che finisca questa maladetta villeggiatura).
SABINA: Ah! ah! gli ho dato un cappotto; un cappotto, gli ho dato un cappotto.
FERDINANDO: Brava, brava; mi ha dato un cappotto.
VITTORIA: Ha sempre gli occhi qui la signora Giacinta. (A Guglielmo.)
GUGLIELMO: La padrona di casa ha da tenere gli occhi per tutto.
VITTORIA: Sì, sì, difendetela. Trionfo. (Giocando con dispetto.)
COSTANZA: Questo non è trionfo, signora.
VITTORIA: Che so io che diavolo giochi?
COSTANZA: In verità, così non si può giocare. (Forte.)
GIACINTA: Che ha, signora Costanza?
COSTANZA: Sono cose...
VITTORIA: Eh! badi al suo gioco, signora Giacinta. (Ridendo.)
GIACINTA: Perdoni... sento che si lamentano...
TOGNINO: Bazzicotto, bazzicotto.
FILIPPO: Sì, sì, bazzicotto, bazzicotto. (Con rabbia.)
GIACINTA: Mi pare che la signora Vittoria non abbia per me grande amicizia. (Piano a Leonardo.)
LEONARDO: Non so che dire; ma in ogni caso si mariterà. (Piano a Giacinta.)
GIACINTA: Quando?
LEONARDO: Può essere che non passi molto.
GIACINTA: Sperate voi che il signor Guglielmo la sposi?
LEONARDO: Se il signor Guglielmo non prenderà mia sorella, né anche in casa vostra non ci verrà più.
GIACINTA: Davvero?
LEONARDO: Davvero.
ROSINA: Ma via, risponda. (A Giacinta.)
VITTORIA: (Parlano di me, mi pare).
SCENA DODICESIMA
Servitore e detti.
SERVITORE: Signori, è in tavola. (Parte.)
COSTANZA: (Sia ringraziato il cielo). (S’alza.)
SABINA: Io voglio finire la mia partita.
FILIPPO: Finitela, che noi pranzeremo. (S’alza.)
FERDINANDO: Con sua permissione, ho appetito. (S’alza.)
SABINA: Bravo, bravo; il reobarbaro ha operato bene. (S’alza.)
TOGNINO: Tre soldi, signor Filippo.
FILIPPO: (Scioccone!). Via, favoriscano. Andiamo.
GIACINTA: Si servino. Fanno ceremonie?
VITTORIA: Si servino pure.
ROSINA: Io non vado avanti sicuro.
SABINA: Orsù, senz’altri complimenti. Favorisca, signor Ferdinando. (Gli chiede la mano.)
FERDINANDO: Sono a servirla. (Le dà braccio.)
SABINA: Con permissione. (Fa una riverenza.)
FERDINANDO: E chi ha invidia, suo danno. (Parte con Sabina.)
GIACINTA: Via, si serva, signora Vittoria.
VITTORIA: Favorisce? (A Guglielmo, chiedendogli che la serva.)
GUGLIELMO: Sono a servirla. (Le dà braccio.)
VITTORIA: Soffra; compatisca. (Parte con Guglielmo.)
GUGLIELMO: (Sì, soffro più di quello ch’ella si crede). (Parte con Vittoria.)
GIACINTA: Vadano, signore. (A Costanza e Rosina.)
COSTANZA: Andate innanzi, Rosina.
ROSINA: Andiamo, Tognino.
TOGNINO: (Oh! che mangiata che voglio dare). (Parte con Rosina.)
COSTANZA: Con licenza. (A Giacinta, in atto di partire.)
FILIPPO: Vuole che abbia l’onor di servirla? (A Costanza.)
COSTANZA: Mi fa grazia. (A Filippo.)
FILIPPO: Se si degna. (A Costanza.)
COSTANZA: Mi fa onore. (A Filippo.)
FILIPPO: Qualche cosa anche a me poveruomo. (Le dà braccio.)
COSTANZA: Povero signor Filippo! Qualche cosa anche a lui. (Parte con Filippo.)
GIACINTA: Vuol che andiamo? (A Leonardo.)
LEONARDO: Vuol che la serva? (A Giacinta.)
GIACINTA: Se non lo merito, non lo faccia.
LEONARDO: Ah crudele!
GIACINTA: Non facciamo scene, signor Leonardo.
LEONARDO: Vi amo troppo, Giacinta.
GIACINTA: Sì, al mio merito sarà troppo.
LEONARDO: E voi mi amate pochissimo.
GIACINTA: Vi amo quanto so, e quanto posso.
LEONARDO: Non mi mettete alla disperazione.
GIACINTA: Non facciamo scene, vi dico. (Lo prende con forza e lo tira.)
LEONARDO: (Sorte spietata!). (Parte con Giacinta.)
GIACINTA: (Oh amore! oh impegno! oh maladetta villeggiatura!). (Parte con Leonardo.)
Atto III
SCENA PRIMA
Boschetto.
Brigida e Paolino.
BRIGIDA: Qui, qui, signor Paolino. Fermiamoci qui, che godremo un poco di fresco.
PAOLINO: Ma se il padrone mi cerca, e non mi trova...
BRIGIDA: Ora sono tutti in sala a pigliare il caffè. Dopo il caffè si metteranno a giocare. State un poco con me, se non vi dispiace la mia compagnia.
PAOLINO: Cara signora Brigida, la vostra compagnia mi è carissima.
BRIGIDA: Propriamente desiderava di star con voi mezz’oretta.
PAOLINO: Bisogna poi dire la verità, in campagna si possono trovare più facilmente dei buoni momenti, delle ore libere, dei siti comodi per ritrovarsi a quattr’occhi.
BRIGIDA: Li trovano le padrone e i padroni? Li possiamo trovare anche noi.
PAOLINO: Sì, è vero, nascono in villa di quegli accidenti, che non nascerebbono facilmente in città.
BRIGIDA: N’è nato uno alla mia padrona degli accidenti, che dubito se ne voglia ricordar per un pezzo.
PAOLINO: Che cosa le è accaduto?
BRIGIDA: Mi dispiace che non posso parlare; del resto sentireste delle cose da far arricciar i capelli.
PAOLINO: Qualche cosa certo convien dir che sia nato. Il mio padrone è agitatissimo; la signora Giacinta pare stordita. Io sono stato dietro di loro, come sapete, a servire a tavola; e so che in tutti e due non hanno mangiato un’oncia di roba.
BRIGIDA: E chi era dall’altra parte della mia padrona?
PAOLINO: Il signor Guglielmo.
BRIGIDA: Maladetto colui! non la vuol finire. Vuol essere la rovina di questa casa.
PAOLINO: Vi è qualche imbroglio forse fra lui e la vostra padrona?
BRIGIDA: Eh! no, non c’è niente. E la signora Vittoria dov’era?
PAOLINO: Vicino anch’essa al signor Guglielmo.
BRIGIDA: Guardate che galeotto! Andarsi a mettere in mezzo di tutte e due.
PAOLINO: Di quando in quando con quella sua patetichezza diceva qualche parola alla signora Giacinta; ma non ho potuto capire.
BRIGIDA: Se n’è accorto il signor Leonardo?
PAOLINO: Una volta mi pare di sì. Tant’è vero, che nel darmi il tondo da mutare, l’ha fatto con tal dispetto, che ha urtato nella spalla della signora Giacinta, e le ha un poco macchiato l’abito.
BRIGIDA: Le ha macchiato l’abito nuovo? Avrà dato nelle furie la mia padrona.
PAOLINO: No, no, se l’è passata con somma disinvoltura.
BRIGIDA: È molto; si vede bene che qualche cosa le sta nel cuore più dell’abito.
PAOLINO: Anzi il padrone la volea ripulire, ed ella non ha voluto.
BRIGIDA: Eppure la pulizia è la sua gran passione. Oh povera fanciulla! È fuor di sé propriamente.
PAOLINO: Ci gioco io, che l’occasione ed il comodo l’ha fatta innamorare del signor Guglielmo.
BRIGIDA: Eh! via, che diavolo dite? Vi pare? Non è ella promessa al signor Leonardo? Non ci sono dei discorsi fra il signor Guglielmo e la signora Vittoria?
PAOLINO: Oh! io credo che la mia padrona si lusinghi assai male. Non faceva a tavola che tormentar il signor Guglielmo, ed egli non le dava risposta, non le badava nemmeno.
BRIGIDA: E parlava colla mia padrona?
PAOLINO: Sì, qualche volta colla bocca, e qualche volta col gomito, e qualche volta coi piedi.
BRIGIDA: Cospetto di bacco! Se fossi stata lì io, dove eravate voi, non so se mi sarei tenuta di dargli il tondo sul capo.
PAOLINO: Vedete? Se non ci fossero delle cose fra loro, non ci sarebbe bisogno che deste voi in queste smanie.
BRIGIDA: Orsù, parliamo d’altro. La vecchia sarà stata vicina a quel drittaccio di Ferdinando.
PAOLINO: Sì, certo; e non faceva che dirgli delle cosette tenere ed amorose, ed egli mangiava, o piuttosto divorava, che pareva fosse digiuno da quattro giorni.
BRIGIDA: E la povera padrona non mangiava niente?
PAOLINO: Come poteva ella mangiare, s’era lì angustiata fra lo sposo e l’amante?
BRIGIDA: Eh! via, lasciamo questi discorsi. Come si sono portate a tavola la signora Costanza e la signora Rosina?
PAOLINO: Eh! non si sono portate male; ma chi ha fatto bene la parte sua, quasi quanto il signor Ferdinando, è stato quella cara gioia del signor Tognino.
BRIGIDA: Era vicino alla sua Rosina?
PAOLINO: Ci s’intende, e come se la godevano! Hanno sempre parlato sottovoce fra loro due, che era una cosa che faceva male allo stomaco.
BRIGIDA: Anche quello è un matrimonio vicino.
PAOLINO: Per quel che si vede.
BRIGIDA: Anche quella è un’amicizia fatta in villeggiatura. Se la signora Rosina non veniva qui, difficilmente in Livorno si sarebbe maritata, ed io, in tanti anni che ci vengo, sono ancora così. Convien dire, o che non abbia alcun merito, o che sia sfortunata.
PAOLINO: Signora Brigida, avete desiderio di maritarvi?
BRIGIDA: Ho anch’io quel desiderio che hanno tutte le fanciulle che non si vogliono ritirare dal mondo.
PAOLINO: Quando si vuole, si trova.
BRIGIDA: Per me, so che non l’ho ancora trovato; eppure son giovane. Bella non sono, ma non mi pare di esser deforme: dell’abilità ne ho quant’un’altra, e forse più di tant’altre. Per dote, fra denari e roba, tre o quattrocento scudi non mi mancano. Eppure nessun mi cerca, e nessun mi vuole.
PAOLINO: Mi dispiace che devo andar via, per altro vi direi qualche cosa su questo proposito.
BRIGIDA: Dite, dite, non mi lasciate con questa curiosità.
PAOLINO: È peccato che perdiate così il vostro tempo.
BRIGIDA: Avreste qualche cosa voi da propormi?
PAOLINO: Avrei io... ma...
BRIGIDA: Ma che?
PAOLINO: Non so se fosse di vostro genio.
BRIGIDA: Quando non ho da prendere un galantuomo, un uomo proprio e civile come siete voi, voglio star piuttosto così come sono.
PAOLINO: Signora Brigida, ci parleremo.
BRIGIDA: Questa sera, in tempo della conversazione.
PAOLINO: Sì, avremo quanto tempo vorremo. Verrò da voi, verremo qui nel boschetto.
BRIGIDA: Oh! di notte poi nel boschetto...
PAOLINO: Via, via, ho detto così per ischerzo. Son galantuomo, fo stima di voi, e spero che le cose anderanno bene.
BRIGIDA: Voi mi consolate a tal segno...
PAOLINO: Addio, addio. A questa sera (Parte.)
BRIGIDA: Chi sa che la campagna in quest’anno non produca qualche cosa di buono ancora per me? (Parte.)
SCENA SECONDA
GIACINTA (sola): Vorrei respirare un momento. Vorrei un momento di quiete. Giochi chi vuol giocare. Niente mi alletta, niente mi diverte, tutto anzi m’annoia, tutto m’inquieta. Bella villeggiatura che mi tocca fare quest’anno! Non l’avrei mai pensato. Io che mi rideva di quelle che spasimavano per amore, ci son caduta peggio dell’altre. Ma perché, pazza ch’io sono stata, perché lasciarmi indurre sì presto e sì facilmente a dar parola a Leonardo, ed a permettere che se ne facesse il contratto? Sì, ecco l’inganno. Ho avuto fretta di maritarmi, più per uscire di soggezione, che per volontà di marito. Ho creduto, che quel poco d’amore ch’io sentia per Leonardo, bastasse per un matrimonio civile, e non mi ho creduto capace d’innamorarmi poi a tal segno. Ma qui convien rimediarci. Quest’amicizia non può tirar innanzi così. Ho data parola ad un altro. Quegli ha da essere mio marito, e voglia o non voglia s’ha da vincere la passione. Finirà quest’indegna villeggiatura. A Livorno Guglielmo non mi verrà più per i piedi. Sfuggirò le occasioni di ritrovarmi con esso lui. Possibile che col tempo non me ne scordi? Ma intanto come ho da vivere qui in campagna? Le cose sono a tal segno, che temo di non potermi nascondere. Cent’occhi mi guardano; tutti mi osservano. Leonardo è in sospetto. Vittoria mi teme. La vecchia è imprudente, ed io non posso sempre dissimulare. Oh cieli! cieli, aiutatemi. Mi raccomando, e mi raccomando di cuore.
SCENA TERZA
Guglielmo e la suddetta.
GUGLIELMO: Finalmente vi ho potuto poi rinvenire.
GIACINTA: Che volete da me? Anche qui venite ad importunarmi?
GUGLIELMO: Parto, sì, non temete. Concedetemi ch’io possa dirvi due parole soltanto.
GIACINTA: Spicciatevi. (Guardando d’intorno.)
GUGLIELMO: Vi supplico della risposta, di cui vi avea pregato stamane.
GIACINTA: Io non mi ricordo che cosa mi abbiate detto.
GUGLIELMO: Ve lo tornerò a replicare.
GIACINTA: Non c’è bisogno.
GUGLIELMO: Dunque ve ne sovverrete benissimo.
GIACINTA: Andate, vi prego, e lasciatemi in pace.
GUGLIELMO: Due parole, e me ne vado subito.
GIACINTA: (Qual arte, qual incanto è mai questo!). E così?
GUGLIELMO: Ho da vivere, o ho da morire?
GIACINTA: Sono queste domande da fare a me?
GUGLIELMO: Bisogna ch’io lo domandi a chi ha l’autorità di potermelo comandare.
GIACINTA: Pretendereste voi ch’io mancassi al signor Leonardo, e che mi facessi scorgere da tutto il mondo?
GUGLIELMO: Io non ho l’ardir di pretendere; ho quello solamente di supplicare.
GIACINTA: Fareste meglio a tacere.
GUGLIELMO: Non isperate ch’io taccia, senza una positiva risposta.
GIACINTA: Orsù dunque, giacché s’ha da parlare, si parli. Riflettete, signor Guglielmo, che voi ed io siamo due persone infelici, e lo siamo entrambi per la cagione medesima. Se la nostra infelicità si estendesse soltanto a farci vivere in pene, si potrebbe anche soffrire; ma il peggio si è, che andiamo a perdere il decoro, l’estimazione, l’onore. Io manco al mio dovere, ascoltandovi; voi mancate al vostro, insidiandomi il cuore. Io manco al rispetto di figlia, al dovere di sposa, all’obbligo di fanciulla saggia e civile; voi mancate alle leggi dell’amicizia, dell’ospitalità, della buona fede. Qual nome ci acquisteremo noi fra le genti? Qual figura dovremo fare nel mondo? Pensateci per voi stesso, e pensateci per me ancora. Se è vero che voi mi amiate, non procacciate la mia rovina. Avrete voi un animo sì crudele di sagrificare alla vostra passione una povera sfortunata, che ha avuto la debolezza d’aprire il seno alle lusinghe d’amore? Avrete un cuore sì nero per ingannare mio padre, per tradire Leonardo, per deludere sua germana? Ma a qual pro tutto questo? Qual mercede vi promettete voi da sì vergognosa condotta? Tutt’altro aspettatevi, fuor ch’io receda dal primo impegno. Sì, vel confesso, io vi amo, dicolo a mio rossore, a mio dispetto, vi amo. Ma questa mia confessione è quanto potete da me sapere. Assicuratevi ch’io farò il possibile per l’avvenire o per iscordarmi di voi, o per lasciarmi struggere dalla passione, e morire. Ad ogni costo noi ci abbiamo da separare per sempre. Se avrete voi l’imprudenza d’insistere, avrò io il coraggio di cercar le vie di mortificarvi. Farò il mio dovere, se voi non farete il vostro. Avete voluto obbligarmi a parlare. Ho parlato. Vi premea d’intendere il mio sentimento, l’avete inteso. Mi chiedeste, se dovevate vivere o morire; a ciò vi rispondo, che non so dire quel che sarà di me stessa; ma che l’onore si dee preferire alla vita.
GUGLIELMO: (Oimè! Non so in che mondo mi sia. Mi ha confuso a tal segno, che non so più che rispondere).
GIACINTA: (Ah! è pur grande lo sforzo che fare mi è convenuto! Grand’affanno, gran tormento mi costa!).
SCENA QUARTA
Leonardo e detti.
LEONARDO: Voi qui, signora?
GIACINTA: (Oh cieli!).
LEONARDO: Quali affari segreti vi obbligano a ritirarvi qui col signor Guglielmo?
GUGLIELMO: (Ah! è inevitabile il precipizio).
GIACINTA: (Si tratta dell’onore. Vi vuol coraggio). (Da sé.) Gli affari ch’io tratto con esso lui, dovrebbero interessar voi più di me. L’onore che ho di essere vostra sposa, rende mie proprie le convenienze della vostra famiglia. Parlasi per Montenero, che siano corse parole di qualche impegno fra lui e la signora Vittoria. So che ella se ne lusinga, e in pubblico ha dimostrata la sua passione. Cose son queste delicatissime, dalle quali può dipendere il buon concetto di una fanciulla. Io non sapeva precisamente di qual animo fosse il signor Guglielmo. Ho cercato di assicurarmene, ed ecco ciò che ne ho ricavato. Ei sa benissimo, che un uomo d’onore non dee abusarsi della debolezza di un’onesta fanciulla. Conosce il proprio dovere, fa quella stima di lei che merita la vostra casa, e se voi gliela concedete, col mezzo mio ve la domanda in isposa.
GUGLIELMO: (Misero me! in qual impegno mi trovo!).
LEONARDO: Me la domanda col mezzo vostro? (A Giacinta.)
GIACINTA: Sì, signore, col mezzo mio.
LEONARDO: Non v’erano altri nel mondo, se non si prevaleva di voi?
GIACINTA: Io sono quella che gli ha parlato. Sa il signor Guglielmo quel che gli ho detto. Le mie parole deggiono aver fatta impressione in un uomo d’onore, in un cuore onesto e civile; ed è ben giusto che io medesima compisca un’opera, che non può essere che applaudita.
LEONARDO: Che dice il signor Guglielmo?
GUGLIELMO: (Ceda la passione al dovere). Sì, amico, se non isdegnate accordarmela, vi chiedo la sorella vostra in consorte.
GIACINTA: (Ah! la sinderesi lo ha convinto).
LEONARDO: Signore, questa sera vi darò la risposta. (A Guglielmo.)
GIACINTA: Che difficoltà avete voi di accordargliela presentemente?
LEONARDO: È giusto ch’io parli con mia sorella.
GIACINTA: Ella non può essere che contenta.
LEONARDO: Andiamo, signora, ci aspettano per andare al passeggio. (A Giacinta.)
GIACINTA: Eccomi. Andiamo pure.
LEONARDO: Vuol ch’io abbia l’onor di servirla?
GIACINTA: Mi maraviglio di voi, che mi facciate di queste scene. C’è bisogno de’ complimenti? Se non mi date il braccio voi, chi me l’ha da dare?
LEONARDO: Siete qui venuta senza di me...
GIACINTA: E ora voglio ritornare a casa con voi. (Lo prende pel braccio con forza.) (Costa pene il dissimulare). (Da sé, partendo.)
LEONARDO: (Ancora non sono quieto che basti). (Parte con Giacinta.)
GUGLIELMO: Chi ha mai veduto caso più stravagante e più doloroso del mio? (Parte.)
SCENA QUINTA
Camera in casa di Filippo.
Filippo e Vittoria.
VITTORIA: Favorisca, signor Filippo. Ho piacer di dirle due parole qui in questa camera, che nessuno ci senta.
FILIPPO: Sì, volentieri. Già io in sala ci sto come una statua. Giocano al faraone, ed io al faraone non gioco.
VITTORIA: Fatemi grazia. Presentemente la signora Giacinta dov’è?
FILIPPO: Io non so dove sia. Io non le tengo dietro. Oh! sì, che in campagna si può tener dietro a voialtre fanciulle.
VITTORIA: E il signor Guglielmo dov’è?
FILIPPO: Peggio. Volete ch’io sappia dove vanno tutti quelli che sono in casa da me?
VITTORIA: Il punto sta, signore, che mancano tutti e due.
FILIPPO: E chi sono questi due?
VITTORIA: Il signor Guglielmo e la signora Giacinta.
FILIPPO: E che importa questo? Uno sarà in un loco, e l’altra sarà nell’altro.
VITTORIA: E se fossero insieme?
FILIPPO: Oh! in materia di questo poi, mia figlia non è una frasca.
VITTORIA: Io non dico diversamente. Ma so bene che alla tavola, dove ora si gioca, non si fa che parlare di questa cosa; e vedendo che sono tutti e due spariti...
FILIPPO: Spariti?
VITTORIA: Mancano tutti e due, e non si sa dove siano.
FILIPPO: Cospetto! cospetto! Cosa dice il signor Leonardo?
VITTORIA: Mio fratello è andato in traccia di loro.
FILIPPO: Se scopro niente... Se me ne accorgo... Vo’ andare in questo momento... Ma ecco il signor Leonardo, sentiremo qualche cosa da lui.
SCENA SESTA
Leonardo e detti.
LEONARDO: Signor Filippo, mi fareste il piacere di permettermi ch’io scrivessi una lettera?
FILIPPO: Accomodatevi. Là vi è carta, penna e calamaio.
VITTORIA: (Mi pare torbido. Vi dovrebbero essere delle novità).
FILIPPO: Ditemi un poco, signor Leonardo, sapete voi dove sia mia figliuola?
LEONARDO: Sì, signore. (Accomodandosi al tavolino.)
FILIPPO: E dov’è?
LEONARDO: Giù in sala. (Come sopra.)
FILIPPO: E dov’è stata finora?
LEONARDO: Era andata a visitar la castalda, che la notte passata ha avuto un poco di febbre. (Come sopra.)
FILIPPO: E con chi è andata?
LEONARDO: Sola.
FILIPPO: È andata sola?
LEONARDO: Sì, signore.
FILIPPO: Non è andato il signor Guglielmo con lei?
LEONARDO: E perché il signor Guglielmo doveva andare con lei? Non può andar sola dalla castalda? E se aveva bisogno di compagnia, non c’era io da poterla servire?
FILIPPO: Sentite, signora Vittoria?
VITTORIA: Avete pure sentito in sala cosa dicevano. So pure che anche voi eravate fuor di voi stesso. (A Leonardo.)
LEONARDO: Presto si pensa male, e con troppa facilità si giudica indegnamente. Sono stato io a rintracciarla. L’ho trovata sola dalla castalda, e l’ho servita a casa io medesimo. (Vuol il dovere che così si dica. Tutti non sarebbero persuasi del motivo che li faceva essere nel boschetto; intieramente non ne son nemmen io persuaso). (Principiando a scrivere.)
FILIPPO: Ha sentito, signora Vittoria? Mia figlia non è capace...
VITTORIA: E il signor Guglielmo è tornato? (A Leonardo.)
LEONARDO: È tornato. (Scrivendo.)
VITTORIA: E dov’era andato? (A Leonardo.)
LEONARDO: Non lo so. (Come sopra.)
VITTORIA: Sarà stato a visitare il castaldo. (A Leonardo, ironica.)
LEONARDO: Prudenza, sorella, prudenza. (Come sopra.)
VITTORIA: Io ne ho poca, ma non vorrei che voi ne aveste troppa. (A Leonardo.)
LEONARDO: Lasciatemi terminar questa lettera.
VITTORIA: Scrivete a Livorno?
LEONARDO: Scrivo dove mi pare. Signor Filippo, la supplico d’una grazia: favorisca mandar uno de’ suoi servitori a cercar il mio cameriere, e dirgli che venga subito qui, e se non mi trovasse più qui, che verso sera sia alla bottega del caffè, e che non manchi.
FILIPPO: Sì, signore, vi servo subito. (Signora Vittoria, pensi meglio di me, e della mia famiglia, e della mia casa. Basta! A buon intenditor poche parole.) (Parte.)
SCENA SETTIMA
Leonardo scrivendo, e Vittoria.
LEONARDO: (Questa mi pare la miglior risoluzione ch’io possa prendere). (Da sé, poi scrive.)
VITTORIA: Ditemi, signor fratello, siete voi contento della condotta della signora Giacinta?
LEONARDO: Sì, signora. (Scrivendo.)
VITTORIA: Le apparenze per altro non vi dovrebbero contentar molto.
LEONARDO: Son contentissimo. (Scrivendo.)
VITTORIA: E del signor Guglielmo?
LEONARDO: Anche di lui. (Scrivendo.)
VITTORIA: Vi par che si porti bene egli pure?
LEONARDO: Il signor Guglielmo è un galantuomo, è un uomo d’onore. (Scrivendo.)
VITTORIA: Eppure io so che da tutti...
LEONARDO: Ma lasciatemi scrivere, tormentatrice perpetua. (Sdegnato.)
VITTORIA: Lasciate ch’io dica una cosa, e poi vi levo il disturbo.
LEONARDO: Che cosa volete dirmi? (Scrivendo.)
VITTORIA: Non s’era egli spiegato d’aver dell’inclinazione per me?
LEONARDO: Sì, signora. (Scrivendo.)
VITTORIA: E come si può credere questa cosa?
LEONARDO: Si può credere. (Scrivendo.)
VITTORIA: Si può credere?
LEONARDO: (Oh! sono pure annoiato). (Scrivendo.)
VITTORIA: Ha fatto nessun passo con voi?
LEONARDO: L’ha fatto. (Come sopra.)
VITTORIA: L’ha fatto?
LEONARDO: Sì, lasciatemi terminare. (Come sopra.)
VITTORIA: E a me non si dice niente?
LEONARDO: Vi parlerò, se mi lascierete finir questa lettera.
VITTORIA: Sì, finitela pure. (Io non so che cosa m’abbia da credere. Potrebbe anche darsi che m’ingannassi, che fosse la gelosia che mi facesse travedere). Quando vi ha parlato il signor Guglielmo? (A Leonardo.)
LEONARDO: Acchetatevi una volta. Che vi si possa seccar la lingua. (Una lettera artifiziosa ha bisogno di essere studiata bene, e costei mi tormenta). (Rilegge piano la lettera.)
VITTORIA: (Ardo, muoio di curiosità di sapere). (Da sé.)
LEONARDO: (Sì, sì, così va bene. La cosa parerà naturale. Basta che sia bene eseguita). (Da sé.)
SCENA OTTAVA
Brigida e detti.
BRIGIDA: Signori, hanno terminato di giocare. Vogliono andare a far due passi fino al caffè, e mandano a vedere se vogliono restar serviti.
LEONARDO: Andiamo. (S’alza.)
VITTORIA: E non mi volete dir niente?
LEONARDO: Vi parlerò questa sera.
VITTORIA: Datemi un cenno di qualche cosa.
LEONARDO: Questo non è né il tempo, né il luogo.
VITTORIA: Ma io non posso resistere.
LEONARDO: Ma voi siete la più inquieta donna del mondo. (Parte.)
SCENA NONA
Vittoria e Brigida.
VITTORIA: Dite, Brigida. Dov’è stata oggi dopo pranzo la vostra padrona?
BRIGIDA: Che vuol ch’io sappia? Non so niente io.
VITTORIA: Come sta la castalda?
BRIGIDA: La castalda? Io credo stia bene.
VITTORIA: Non ha avuto la febbre la notte passata?
BRIGIDA: Oh! la febbre. Se ha aiutato anch’ella in cucina per il pranzo d’oggi.
VITTORIA: (Se lo dico! Tutti m’ingannano, tutti mi deridono, ma mi fa specie quello sciocco di mio fratello).
BRIGIDA: Non va ella cogli altri al caffè?
VITTORIA: Sono ritornati insieme il signor Guglielmo e la signora Giacinta?
BRIGIDA: Oh! io non so niente. A me non si domandano di queste cose. La mia padrona è una signora onesta e civile, e se vi sono dei giovani poco di buono, non si può dar la colpa alle persone savie e da bene. Se vuol andar, vada, se non vuole, io ho fatto il mio debito. (Parte.)
VITTORIA: Tanto più mi mette in sospetto. Basta, da qui a sera c’è poco. Sentirò che cosa m’ha da dire Leonardo. Taccio, taccio; ma se mi fanno parlare, s’hanno da sentire di quelle cose che non si sono mai più sentite. (Parte.)
SCENA DECIMA
Campagna con bottega di caffè e qualche casa. Due o tre panche per comodo di quelli che vanno al caffè, situate bene.
Tita e Beltrame, garzoni del caffè.
BELTRAME: Tita, come stai d’appetito?
TITA: Oh! bene. Non veggio l’ora d’andar a cena.
BELTRAME: Questa mattina dal signor Filippo ci credevamo di fare un gran pasto, e non c’era da cavarsi la fame.
TITA: Venivano via i piatti di tavola netti netti, che non c’erano appena l’ossa.
BELTRAME: E di quel poco che è avanzato, che cosa ha toccato a noi?
TITA: Niente. S’hanno portato via tutto. Il castaldo, la castalda, la giardiniera, la lavandaia, i famigli, tutti hanno voluto la parte loro.
BELTRAME: S’intende che ci abbiano fatto un regalo grande a farci la minestra a posta.
TITA: Ma che minestra! Pareva fatta nelle lavature de’ piatti.
BELTRAME: Vino pessimo.
TITA: Di quello che si può dar da bere ai feriti.
BELTRAME: Ci fosse stato almeno del pane.
TITA: Bisognava, chi voleva del pane, domandarlo per elemosina.
BELTRAME: Io mi sono attaccato ad un buon pezzo di manzo, che per verità era tenero come il latte.
TITA: Ed io ho adocchiato un cossame di cappone, a cui vi era per accidente un’ala intiera attaccata, e me l’ho pappolata in due colpi.
BELTRAME: Non era cattivo quel pasticcio di maccheroni.
TITA: Mi sono anche piaciute quelle polpette.
BELTRAME: L’arrosto, se fosse stato caldo, era di buona ragione.
TITA: Sì, era vitella di latte. Ne ho portato via un buon pezzo in una carta, per mangiarmelo questa sera.
BELTRAME: Ed io mi ho portato via quattro pasticciotti ed un pezzo di parmigiano.
TITA: Oh! se fosse stato un pranzo, come dich’io, si poteva portar via un buon tovagliolo di roba.
BELTRAME: E che non ci fossero stati tanti occhi d’intorno.
TITA: Basta dire, che se avanzava roba sui tondi, erano lì pronti i servitori di casa, per paura che ci ponessimo noi la roba in saccoccia.
BELTRAME: Oh! io non sono di quelli che portano le saccoccie di pelle.
TITA: Io pure di queste viltà non ne faccio. Se ce n’è, mangio, se non ce n’è, buon viaggio.
BELTRAME: Poco più, poco meno, pur che si viva.
TITA: Oh! ecco la compagnia; diamo luogo.
BELTRAME: E la vecchia innanzi di tutti.
TITA: E come mangia quella vecchietta!
BELTRAME: E il signor Ferdinando?
TITA: E il vostro caro signor Tognino?
BELTRAME: Ma ehi! avete veduto come si portava bene con quella ragazza?
TITA: E come!
BELTRAME: Se succede, vuol essere il gran bel matrimonio.
TITA: L’appetito e la fame. (Parte.)
BELTRAME: Il bisogno e la necessità. (Parte.)
SCENA UNDICESIMA
Vengono tutti accompagnati come segue:
Sabina e Ferdinando, Giacinta e Leonardo, Vittoria e Guglielmo, Rosina e Tognino, Costanza e Filippo.
Si pongono tutti a sedere. Un Garzone si presenta a domandar cosa vogliono, andando da tutti a uno per uno, e ciaschedun domanda al Garzone come segue.
GIACINTA: Un caffè.
LEONARDO: Un bicchier d’acqua pura.
ROSINA: Un cedrato.
TOGNINO: Una cioccolata.
VITTORIA: Un caffè senza zucchero.
COSTANZA: Una limonata.
FILIPPO: Dell’acqua con dell’agro di cedro.
FERDINANDO: Un bicchier di rosolio.
SABINA: E a me portatemi una pappina.
VITTORIA: (Sapete quel che mi dee dir mio fratello, e non mi volete far il piacere di dirmelo voi?). (A Guglielmo.)
GUGLIELMO: (Perdonatemi; tocca a lui, ed io non mi ho da prendere questa libertà). (A Vittoria.)
VITTORIA: (Se mi voleste bene, sareste un poco più compiacente). (A Guglielmo.)
GIACINTA: (Tutto posso soffrire, ma vederlo cogli occhi miei, mi fa dar nelle smanie). (Da sé, osservando Guglielmo.)
LEONARDO: (Che avete, signora Giacinta?).
GIACINTA: A questa bottega non si può venire. Per un caffè ci fanno aspettare mezz’ora.
LEONARDO: Ci vuol pazienza. Non avete sentito che siamo in dieci, e nessuno ha ordinato la stessa cosa?
GIACINTA: Pazienza dunque. (Ne ho tanta della pazienza, che or ora non posso più). (Da sé, fremendo.)
ROSINA: (Avete sentito? La principessa vuol essere servita subito). (A Tognino.)
TOGNINO: (Oh! mi sono scordato di dire, che mi portino due ciambelle). (A Rosina.)
ROSINA: (Avete fame a quest’ora?). (A Tognino.)
TOGNINO: (Sicuro. Non ho mica merendato). (A Rosina.)
FILIPPO: (Non mi dite niente, signora Costanza?).
COSTANZA: (Che cosa volete ch’io dica?).
FILIPPO: (Raccontatemi qualche cosa. È vero che vostra nipote fa l’amore con quel babbeo di Tognino?).
COSTANZA: (Non so niente. Per dirvi la verità, a queste cose ci abbado e non ci abbado; finalmente non è mia figlia).
SABINA: (Mi pare che l’aria cominci ad essere un poco umida. Non vorrei raffreddarmi). (A Ferdinando.)
FERDINANDO: (Poverina! copritevi il capo. Non l’avete il cappuccietto?).
SABINA: (No, no, aspettate). (Tira fuori di tasca un ombrellino.) (Tenetemi quest’ombrellino). (A Ferdinando.)
FERDINANDO: (Oh, povero me!). (Da sé.) (E ho da star qui mezz’ora con quest’imbroglio?) (A Sabina.)
SABINA: (Quando si vuol bene, niente incomoda, niente pesa). (A Ferdinando.)
FERDINANDO: (Dunque voi non mi volete bene). (A Sabina.)
SABINA: (Perché?). (A Ferdinando.)
FERDINANDO: (Perché vi pesa farmi una miserabile donazione). (A Sabina.)
SABINA: (Ancora mi tormentate?). (A Ferdinando.)
FERDINANDO: (O donazione, o vi pianto). (A Sabina.)
SABINA: (Ingrato!). (Piangendo, e si asciuga gli occhi.)
(Vengono i garzoni a portare le cose ordinate, e sbagliano, e si confondono.)
TOGNINO: La cioccolata a me.
ROSINA: A me il sorbetto.
COSTANZA: Ehi, limonata.
SABINA: La mia pappina.
LEONARDO: Un bicchier d’acqua.
VITTORIA: Il caffè!
GIACINTA: Il caffè! (Danno il caffè a Giacinta.) Sciocchi! io non l’ho domandato senza lo zucchero.
FERDINANDO: Si può avere questo rosolio?
FILIPPO: Quel giovane! La sapete anche voi la lezione? Lo sapete anche voi, ch’io ho da essere sempre l’ultimo? Se tutti si sono serviti, fatemi l’alto onore di darmi l’agro di cedro che vi ho domandato.
SCENA DODICESIMA
Paolino e detti.
PAOLINO (Si fa veder dal padrone.)
LEONARDO: Ora vengo. (A Paolino, e s’alza.) Scusatemi. Ho da dir qualche cosa al mio servitore. (A Giacinta, e si scosta.)
GIACINTA: Servitevi pure. (A Leonardo.) (Pagherei non so quanto a poter sentire quel che dicono Guglielmo e Vittoria). (Da sé.)
FERDINANDO: Con permissione. (A Sabina, e s’alza.)
SABINA: Dove andate? (A Ferdinando.)
FERDINANDO: Vengo subito. (Va a sedere dov’era Leonardo.)
SABINA: (Briccone! mi vuol bene, e mi fa centomila dispetti). (Da sé.)
FERDINANDO: Oimè; non ne poteva più. (A Giacinta.)
GIACINTA: Mi maraviglio di voi, che abbiate ardire di corbellare mia zia. È vecchia, è semplice, ma è una donna civile. (A Ferdinando.)
FERDINANDO: Ma io, signora... (A Giacinta.)
GIACINTA: Tacete, che sarà meglio per voi.
FERDINANDO: E così, signora Rosina, come vi divertite?
ROSINA: Lasciatemi stare, che io non ho che fare con voi.
FERDINANDO: (Ho capito. Qui non vi è da far bene). Eccomi qui con voi, la mia cara gioia. (Siede presso Sabina.)
SABINA: Meritereste ch’io non vi guardassi. Ma non ho cuore di farlo. (A Ferdinando.)
LEONARDO: (Sì, trovate qualcheduno che copi la lettera, o copiatela voi, e procurate di contraffare il carattere. Sigillatela, fate la soprascritta diretta a me; poi, quando siamo in casa del signor Filippo, sul punto di principiar la conversazione, venitemi a portar la lettera, come se da un uomo a posta mi fosse da Livorno spedita, e trovate un uomo che, instruito da voi, vaglia a sostener la finzione. Regolatevi poscia anche voi, secondo il contenuto della lettera stessa. Fate la cosa come va fatta, assicurandovi che estremamente mi preme). (A Paolino.)
PAOLINO: Sarà puntualmente servita. (Parte.)
GIACINTA: (La scena va troppo lunga, non la posso più tollerare: accordo e desidero che Guglielmo si determini a sposar Vittoria; ma non ho cuor di vederlo cogli occhi miei). (Da sé, alzandosi.)
GUGLIELMO: (Giacinta smania. E non sa forse in quali affanni io mi trovi). (Da sé.)
LEONARDO: Eccomi qui. Vi veggo molto agitata. (A Giacinta.)
GIACINTA: Quest’aria assolutamente m’offende.
LEONARDO: Andiamo a casa, se comandate.
VITTORIA: Sì, andiamo, andiamo. (Non veggo l’ora di saper tutto. Questa faccia tosta non c’è caso che mi voglia dir niente). (S’alza, e tutti s’alzano.)
SABINA: Lasciatemi andar innanzi. Sapete ch’io sono sempre stata di vista corta. (Andiamo; non voglio che chi è avanti di noi, senta quello che noi diciamo). (A Ferdinando.)
FERDINANDO: (Sì, andiamo, che parleremo della donazione). (A Sabina.)
SABINA: (Che tu sia maladetto!). (Lo prende per mano con dispetto, e partono.)
GIACINTA: Vadano pure, se vogliono.
VITTORIA: No, no, servitevi. Seguitiamo l’ordine, come siamo venuti. (A Giacinta.)
LEONARDO: Andiamo, senza ceremonie. (Dà mano a Giacinta.)
GIACINTA: (Oh cieli! mi par d’andar alla morte). (Da sé, e parte con Leonardo.)
VITTORIA: (Oh! io m’aspetto delle cattive nuove, signor Guglielmo).
GUGLIELMO: (E perché, signora?).
VITTORIA: (Vi veggo troppo melanconico).
GUGLIELMO: (Son così di temperamento). (Parte con Vittoria.)
COSTANZA: (Ehi! Rosina, cosa vi pare?). (A Rosina.)
ROSINA: (Veggo di gran nuvoloni per aria). (A Costanza.) (Oh! caro il mio Tognino, andiamo). (Parte con Tognino.)
COSTANZA: Andiamo, signor Filippo?
FILIPPO: Sì, eccomi qui. Già si sa; sempre l’ultimo. (Parte con Costanza.)
SCENA TREDICESIMA
Sala in casa di Filippo, con lumiere ecc.
Brigida e Servitori.
BRIGIDA: Presto, preparate i lumi. Li ho veduti venire dalle finestre. (I Servitori preparano.) (Mi confido che verrà anche Paolino. In questi sette o otto giorni che mancano a terminar la villeggiatura, spero di condur a fine l’affare mio. Oh! la sarebbe bella che, in mezzo a tanti matrimoni, il mio si facesse prima di tutti). Sentite, se viene Paolino, il cameriere del signor Leonardo, avvisatemi. (Ad un Servitore.) Bisognerà ch’io stia qui a levar le mantiglie a tutte queste signore. Oh! eccole, eccole.
SCENA QUATTORDICESIMA
Vengono tutti i suddetti coll’ordine istesso, e Brigida leva la mantiglia alle donne, e i Servitori prendono i cappelli.
SABINA: Oimè! sono un poco stracchetta. (Siede.) Venite qui voi. (A Ferdinando.)
FERDINANDO: Eccomi, eccomi. (La cosa va lunga. Domani, o dentro, o fuori). (Siede presso di lei.)
GIACINTA: Se vogliono accomodarsi, qui ci son delle seggiole. (Tutti siedono, e non vi resta da seder per Filippo.)
FILIPPO: E per me, non c’è da sedere?
BRIGIDA: Io, io, signor padrone. (Va a prender una sedia.)
FILIPPO: Sì, una sedia anche a me per limosina.
BRIGIDA: Eccola servita. (Gli porta una sedia.)
FILIPPO: (Oh! un altr’anno voglio essere padrone io in casa mia). (Siede.)
VITTORIA: (S’alza.) Signor fratello, una parola in grazia.
LEONARDO: (Ho capito. La curiosità la tormenta). (S’alza.)
VITTORIA: E così, che cosa avete da dirmi? (In disparte.)
LEONARDO: (In due parole vi dico tutto. Il signor Guglielmo vi ha domandata in isposa).
VITTORIA: (Davvero?). (Guarda ridendo verso Guglielmo.)
GUGLIELMO (s’accorge di Vittoria, e si volge altrove per non vederla.)
LEONARDO: (Onde tocca a voi a risolvere).
VITTORIA: (Per me, quando siete contento voi, sono contentissima).
LEONARDO: Favorisca, signor Guglielmo. (Lo chiama.)
GUGLIELMO: Eccomi. (Andiamo a sagrificarci).
GIACINTA (mostra ansietà di sentire.)
LEONARDO: Mia sorella ha inteso con piacere la bontà che avete per lei, ed è pronta ad acconsentire.
GUGLIELMO: Benissimo.
VITTORIA: Benissimo? Non sapete dir altro che benissimo?
GUGLIELMO: Signora, che cosa volete ch’io dica?
VITTORIA: Io non so che naturale sia il vostro. Non si sa mai, se siate disgustato o se siate contento.
GUGLIELMO: Soffritemi come sono.
VITTORIA: (Può essere, che quando è mio marito, si svegli).
LEONARDO: Signor Filippo, signor Ferdinando, favoriscano in grazia una parola.
FILIPPO: Volentieri. (S’alza e s’avanza.)
FERDINANDO: Sono a’ vostri comandi. (S’alza e s’avanza.)
LEONARDO: Si compiacciano d’esser testimoni della vicendevole promissione di matrimonio fra il signor Guglielmo e Vittoria mia sorella.
GIACINTA: (È fatta). (Si getta a sedere con passione.)
FILIPPO: Bravi!
FERDINANDO: Me ne consolo infinitamente.
SABINA: (Vedete? Così si fa). (A Ferdinando.)
FERDINANDO: Donazione, e facciamolo. (A Sabina.)
SABINA: Sia maladetta la donazione. (Va a sedere.)
LEONARDO: Or ora si farà la scritta, e lor signori porranno in carta la loro testimonianza.
FILIPPO: Sì, signore.
FERDINANDO: Se volete che vi serva io della scritta, ne ho fatte delle altre, in un momento vi servo.
VITTORIA: Ci farete piacere.
LEONARDO: Sì, fatela.
FERDINANDO: Vado subito. (A queste nozze ci voglio essere ancor io). (Parte.)
VITTORIA: E voi non dite niente, signore? (A Guglielmo.)
GUGLIELMO: Approvo tutto. Che volete ch’io dica di più?
VITTORIA: Pare che lo facciate più per forza, che per amore.
GUGLIELMO: Anzi lo faccio, perché amore mi costringe a doverlo fare.
VITTORIA: (Manco male. Ha confessato una volta che mi vuol bene). Via, andiamo a sedere. (A Guglielmo. Vanno tutti al loro posto.)
COSTANZA: Mi consolo, signora Vittoria.
VITTORIA: Grazie.
ROSINA: Mi consolo. (A Vittoria.)
VITTORIA: Obbligatissima.
ROSINA: (Vedete? Essi l’hanno fatta). (A Tognino.)
TOGNINO: (E noi la faremo). (Ridendo, a Rosina)
SCENA QUINDICESIMA
Paolino e detti.
PAOLINO: Signore. (A Leonardo.)
LEONARDO: Cosa c’è?
PAOLINO: Un messo, spedito a posta da Livorno, ha portato per lei questa lettera di premura.
LEONARDO: Vediamo che cosa è. Date qui. (S’alza, e apre la lettera.) È il signor Fulgenzio che scrive. (Verso Filippo.)
FILIPPO: Sì, il nostro amicone. Che cosa dice?
LEONARDO: Cospetto! Una novità che mi mette in agitazione. Sentite cosa mi scrive. Amico carissimo. Vi scrivo in fretta, e vi spedisco un uomo a posta per avvisarvi che vostro zio Bernardino per un male di petto in tre giorni si è ridotto agli estremi, e i medici gli danno poche ore di vita. Ha mandato a chiamare il notaro, onde pensate a’ casi vostri, perché si tratta del vostro stato, ed io vi consiglio venire immediatamente a Livorno.
FILIPPO: Per bacco! Vi consiglio anch’io che non vi tratteniate un momento. Si dice che sarà padrone di cinquanta e più mille scudi.
VITTORIA: Sì, certo, subito, subito. E ci vengo anch’io.
LEONARDO: Mi dispiace dover abbandonare la compagnia.
VITTORIA: A buon conto il signor Guglielmo verrà con noi.
GUGLIELMO: (Tutto si combina per mio malanno).
GIACINTA: (Sì, sarà bene per me. Mi sento rodere, mi sento crepare Ma una volta s’ha da finire).
LEONARDO: Paolino, andate subito alla posta, e ordinate quattro cavalli, e fate preparare lo sterzo, che si anderà a Livorno con quello. Siamo in quattro, il signor Guglielmo, mia sorella, io e voi. Non ci è bisogno di far bauli.
PAOLINO: Sarà servita.
BRIGIDA: (Paolino).
PAOLINO: (Figliuola mia).
BRIGIDA: (Andate via?)
PAOLINO: (Sì, ma tornerò a pigliar la roba).
BRIGIDA: (Per amor del cielo, non vi scordate di me).
PAOLINO: (Non c’è pericolo. Vi do parola). (Parte.)
BRIGIDA: (Povera me! Sul più bello mi tocca a provare questo disgusto). (Parte.)
FILIPPO: Quando siete a Livorno, scrivete subito. Se tornate, vi aspettiamo qui. Quando no, verremo presto anche noi. (A Leonardo.)
VITTORIA: Non perdiamo tempo. Signora Giacinta, compatisca l’incomodo. Mi conservi la sua buona grazia, e a buon riverirla a Livorno.
GIACINTA: Sì, vita mia, a buon rivederci. (Si baciano.)
GUGLIELMO: (Mi tremano le gambe, mi manca il fiato).
LEONARDO: E non volete aspettare che si sottoscriva il contratto? (A Vittoria.)
VITTORIA: Ma sì, s’ha da sottoscrivere. Ehi! signor Ferdinando, ha finito? (Forte alla scena.)
SCENA ULTIMA
Ferdinando e detti.
FERDINANDO: Eccomi, eccomi. Che novità son queste? Andate via? Ci lasciate?
VITTORIA: È terminata la scritta?
FERDINANDO: Eccola terminata.
GUGLIELMO: Scusatemi. Non si può far a Livorno? Non è meglio farla stendere da un notaio?
FERDINANDO: Ma se è già fatta!
GUGLIELMO: S’ha da leggere, s’ha da firmare. Signor Leonardo, vi consiglio non perder tempo. È meglio assai partir subito, e si farà la scritta a Livorno. Eccomi, io sono con voi. Io non mi distacco da voi.
LEONARDO: Non dite male. Andiamo, si farà a Livorno.
GUGLIELMO: (Respiro un poco. Qualche cosa può nascere).
LEONARDO: Signora Giacinta, venite presto, conservatemi il vostro affetto. (Le tocca la mano.) Signor Filippo, addio. (Lo bacia.) Padroni tutti. Schiavo di lor signori. (A Livorno ci regoleremo diversamente). (Parte.)
VITTORIA: Nuovamente, signora Giacinta. Padrone mie riverite. Signor Filippo! Padroni tutti. Andiamo. (Prende per mano Guglielmo.)
COSTANZA: Buon viaggio.
ROSINA: Buon viaggio.
SABINA: Buon viaggio.
GUGLIELMO: Contentatevi. (A Vittoria, con un poco di sdegno.) Signor Filippo, scusate, e vi ringrazio.
FILIPPO: Addio, a rivederci a Livorno.
GUGLIELMO: Signora Giacinta... perdoni... (Confuso.)
GIACINTA: Buon viaggio. (Non posso più).
VITTORIA: Che diavolo avete? Par che piangete. (A Guglielmo.)
GUGLIELMO: Andiamo. (Risoluto.)
VITTORIA: Così! Andiamo. (Parte con Guglielmo.)
FERDINANDO: Signora Sabina.
SABINA: Che cosa volete?
FERDINANDO: Tenga, che gliene faccio un presente.
SABINA: Cosa mi date?
FERDINANDO: Una scritta di matrimonio.
SABINA: È per me forse?
FERDINANDO: Veramente non è per lei. Perché nella sua ci ha da essere la donazione.
SABINA: Orsù, questa è un’insolenza, e ne sono stufa. Avete avuto abbastanza, e vi dovreste contentare così. Ingrato, tigna, avaraccio. (Parte.)
FERDINANDO: La vecchia è in collera. La donazione è in fumo, e la commedia per me è finita. (Parte.)
COSTANZA: Signora Giacinta, le vogliamo levar l’incomodo.
GIACINTA: Vogliono andar via?
FILIPPO: Non vogliono far da noi la partita?
COSTANZA: Ho premura d’andar a casa.
GIACINTA: S’accomodi, come comanda.
COSTANZA: (Andiamo, giacché Tognino è disposto, non ce lo lasciamo scappare). (A Rosina.)
ROSINA: Serva umilissima. Compatisca. (A Giacinta, e parte.)
TOGNINO: Servo suo. Compatisca. (A Giacinta, e parte.)
FILIPPO: Andiamo, che vi voglio servire a casa. (A Costanza.)
COSTANZA: Mi farà finezza. (Già di questo vecchio non ci prendiam soggezione). (Parte.)
FILIPPO: (Se non c’è altro, giocherò due partite a bazzica con quel baggiano). (Parte.)
GIACINTA: Lode al cielo, son sola. Posso liberamente sfogare la mia passione, e confessando la mia debolezza... Signori miei gentilissimi, qui il poeta con tutto lo sforzo della fantasia aveva preparata una lunga disperazione, un combattimento di affetti, un misto d’eroismo e di tenerezza. Ho creduto bene di ommetterla per non attediarvi di più. Figuratevi qual esser puote una donna che sente gli stimoli dell’onore, ed è afflitta dalla più crudele passione. Immaginatevi sentirla a rimproverare se stessa per non aver custodito il cuore come doveva; indi a scusarsi coll’accidente, coll’occasione e colla sua diletta villeggiatura. La commedia non par finita; ma pure è finita, poiché l’argomento delle Avventure è completo. Se qualche cosa rimane a dilucidare, sarà forse materia di una terza commedia, che a suo tempo ci daremo l’onore di rappresentarvi, ringraziandovi per ora del benignissimo vostro compatimento alle due che vi abbiamo sinora rappresentato.
Fine della Commedia.