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Carlo Innocenzo Frugoni
Al Sig. Co: Artaserse Bajardi
Sopra la di lui lontananza dalla Patria.
DA la sempre frondosa arbor vivace
Già dolce pena, ed or sott’altre forme
Cara al divino Apollo ombra, e ghirlanda
Non mai più volentier questa ritolsi
Soave cetra, che in mia man talora
Con felice ardimento i modi, e il suono
Del mio buon Savonese emola tenta.
Ben sordo a le sue note il Vulgo ignaro
Rado intese, e non mai qual sìeda, e dentro
I sacri ornati carmi alto s’avvolga
Saper, che ad arte a gli occhi suoi si vela;
E ben sovente con profana lingua
Folle accusar s’udio l’aurea, ch’io parlo,
Favella, che in Ciel parlano gli Dei:
Ma perche basso sguardo indarno cerchi,
Nè veggia, come in preziosa pietra
Lucido parto d’Eritrea Conchiglia
Purghi, ed affini, e in dure tempre stringa
Saggia Natura le cadenti stille,
Che rinascendo la rosata Aurora
Scote dal lembo de le azzurre vesti,
Non però mai gemma scemò di pregio,
Nò dotto Fabbro meno a lei d’intorno
Stancò l’industre man, nè cara meno
Femmineo collo, o regal fronte l’ebbe
Raro ornamento, nè da stranio lido
Su l’onde prime del natio suo Mare
Men destra, e cheta a depredarla corse
D’accorto Pescator avida prora.
Per teco ragionar questa, che grata
Suona agli orecchi tuoi, fé dritto estimo,
Cetra or ripresi, o buon Bajardi, a cui
Nè per lentezza di non ben temprate
Imbelli fibre, nè per abil cura
Negata a i buon principi in capo dorme
La miglior parte, che a l’Uom’desse il primo
Facitor de le cose; e mentre teco
Muovo parole, che lung’arte, e lungo
Studio mi detta, le vulgari strida
Rauche importune da portar ne l’acque
De l’iracondo mar consegno a i Venti.
Quanto, ahi quanto perdeo quest’alma Terra,
Tua gentil Patria, da poiché tua sorte
Ti trasse al fianco de l’eccelsa Donna,
Che il Reno inchina, e Trebbia, e Taro adora,
E a Te commessa fu la nobil cura
Di quella Vita, che a l’eterno fuso
Tra i nostri Voti, e tra il favor de Numi
Tutta d’elette fila d’or s’intesse!
Certo non dee tanto Città dolersi
Se memorabil arco, o se d’antiche
Note segnata trionfal colonna,
O vasto ìmmenso popolar Teatro,
Al fiero, e spesso urtar de’ rapid’anni
Caggia, e lasciando lei d’un fregio ignuda
Non poco spazio di deserto piano
D’inonorata ampia rovina ingombri,
Quanto, se il piè da lei lontano volga
Uom prode, e saggio, che al suo bene intende,
E nobiltate estima inutil dono,
Che solo và de’ non suoi pregi, come
De le altrui penne insano augel, superba.
Non Roma stese di se l’alto grido
Su quanta Terra il Sol girando scalda
Per Terme, e Templi, o per marmoreo Circo
Opre ammirande, in cui contender viste
Furo tra lor Magnificenza, ed Arte;
Queste son’ora o poca polve, o pochi
Per lunga età mezzo sepolti avanzi.
Ma i buon Fabrizj, i buon Cammilli, e i Curj,
L’un Scipio, e l’altro, e l’invincibil Cato,
E cent’altri, ch’i’ taccio, a i secol tardi,
E a quante sorgeran lontane etadi
Grande ammirabil del Tarpeo mandaro
Ne i fatti de la Pace, e de la Guerra
Il Nome, e il vanto, e togli questi a Roma,
Su i rotti sassi, e su le sparse membra
De le cadute moli a i nostri ignota,
E agli altri tempi or sederia negletta.
Buon Artaserse, d’onor vivo specchio,
Teco lasciar de la beata Parma
Le belle Rive, quante son le sante
Virtudi a l’Uom, come suoi proprj beni
Dal Ciel concesse, in cui non hanno gli Avi,
In cui non ha parte Colei, che Dea
Fan sciocche genti, e su volubil rota
Sognan, che i lieti, ed i sinistri eventi
A suo piacere alterni, e tutto regga
Il vasto moto de le umane cose,
Le quai van come alta cagion suprema,
De i lati Mari, e de’ stellati Cieli,
De le Terre Signora, e degli Abissi
Giusta, e possente, e del futuro certa,
Ne i gran Decreti suoi prescrive, e segna.
Teco porti l’intatta Fè velata
Di schietto ammanto, e più che neve puro,
Che macchiarsi paventa, aurea Virtude,
Cui vanno avanti gli onorati Genj,
E candide promesse, e i fermi patti,
E i giuramenti, che mentir non sanno.
Teco Prudenza, che d’un occhio guarda
Le andate cose, e l’avvenir d’un’altro,
E frenando i desir, che ne lor ciechi
Impeti primi mai non disser vero,
Fatti, e consigli a le stagioni adatta
Ad arte pigra, e da le incaute menti
Spesso derisa, finché il buon successo
Folgoreggiando d’improvvisa luce
Le venga a fianco, e a lei recando lode
Le mal intese sue dimore assolva.
Teco quell’altre, che con lor congiunte
Van d’insolubil nodo, e che mi giova
Tacendo trapassar, perche intra loro
Di più vivo rossor quella non arda
Che austera, e schiva i tuoi senfier governa.
Ma perch’i’ taccia, meno a dito mostre
Non andran esse, nè men chiare, e conte.
Roee, che al bel ringiovenir de l’anno
Apriro in colta, e ben guardata piaggia,
Mal puon celarsi, che per l’aure sparso
Il vagabondo odor tragge al secreto
Felice cespo l’innocente mano
Di Verginella, che le ammira, e poscia
Per vaga pompa del bel crin le coglie.
Dov’or n’andò Colei, che già s’udia
Su queste sponde dal tuo dotto labbro
Salubri, e rette di non falso onore
Dettar dottrine, e a ciascun dar suo dritto?
Avanti a cui le immaginette offese
Sparian, qual nebbia al Sole, e a la vendetta
Cadean l’ire dal cor, cadean dal torvo
Ciglio l’aspre minacce, e in un cadea
Di man repente il mal nudato ferro;
E le civili, e le divine leggi,
Che mal disgiunse l’ingannata Turba
D’error maestra, e di ragion nemica,
Ne givan liete, e più che mai concordi
Ad onta del furor godean vegliando
Sul comun bene ribaciarsi in fronte.
Pur Ella Teco da noi torse il piede,
E noi lasciò, come repente in mezzo
A seura notte d’intricata selva
Fra gli ambigui sentier, pavido incerto
Pellegrin lascia, e fra maligne nubi
Luna nasconde il bell’argenteo raggio
Scorta de i passi, e de la via conforto.
E lo sapran l’altre Città, che un tempo
Pendean ne i dubbj lor da’ tuoi consigli,
E questa tua per Te nomata tanto
Patria Contrada guarderan, qual pianta
Defforme, e scema del più nobil ramo,
E che non vede altro spuntarne uguale
Riparator del danno. Io non Ti voglio
Lungamente mostrar, come coperte
Di tacito squallor l’alme Pareti,
Che in tua Magione a i miglior usi elette
D’aurei Volumi, e di erudite carte
Tutte sen van per la tua cura adorne,
Te sembria richiamar, Te che solevi
Il lor sacro silenzio, a i dolci intento
Utili studj visitar si spesso,
E da gli antichi, e da i moderni scritti
Raccorre il meglio, ed in tua mente farne
Conserva, come per le piagge Iblee
Sagace Pecchia gli odorosi Timi
Sugge, e deliba, e il depredato succo
Poi fa tesoro de’ suoi biondi favi.
Ben avrian esse nel tuo buon Germano
Di che riconsolarsi, e men gir meste
De l’abbandono tuo, se in Lui fìorisse
Amabil sanità, ma crudo morbo
Co i duri artigli l’affannato petto
Implacabil gli preme, e da le gravi
Prime scienze lo scompagna, e rompe
Il buon lavor, che se, qual merta, avesse
Fati migliori, non fors’anche incolto,
E mal contento degli ingrati indugi
Si giaceria su l’oziosa incude.
Bajardi, quanto in su l’amica Lira
Finor t’ornai di non usati detti
E di vivi colori, il tuo potrebbe
Dolce ritorno accelerare a questo,
Che Tu lasciasti sconsolato suolo;
E pur Ti tacqui il Giovinetto Figlio
Tua crescente eperanza, a cui nel corso
Che con ardite, e ben spiegate vele
Accompagnato da’ fecondi augurj
Pel faticoso Pelago tentava
De le bell’arti, al maggior uopo tutta
L’aura mancò del più vicino esempio.
Ma Te ne’ suoi dorati lacci avvolse
Splendida servitù, come segnato
Di tue vicende stà ne l’alto giro;
Nè disciorten vorrà, benchè non sorda
Al nostro lamentar. Non però fia
Ch’io ne l’ascose tue venture il guardo
Pieno di deità spesso non metta,
E lor mirando da sovrane Grazie
Comporsi, e crescer lo nov’ali a tergo,
Me spesso non conforti, altrui celando
I fausti Arcani, che celar si denno.
Versi sciolti