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Cesare Cantù
La Madonna d'Imbevera
L’esame dei luoghi e alcuni storici riscontri convincono che, sedici o diciotto secoli fa, quel tratto della Brianza che chiamasi il Pian d’Erba e le bassure circostanti erano occupate da un lago, chiamato l’Eupili, il quale, alimentato dagli scoli delle montagne, per la Valmadrera doveva comunicare con quello di Lecco e coll’Adda; e versavasi pel Lambro, di cui basta osservare il letto per accertarsi come un tempo corresse più ricco di acque. A foggia d’isole o penisole qui e qua sporgevansi in asciutto alcuni dossi, sui quali erano fabbricati villaggi e casali, i cui abitatori campavano pescando nei luoghi, dove i loro discendenti oggi fendono colla marra le gratissime glebe.
Quando e come questo lago sparisse, mal si potrebbe dire; nè qual violenta crisi abbia sollevato il suolo così, da interromperne la comunicazione con quello di Lecco, e sprofondatolo in alcune parti per modo che, ivi raccogliendosi le acque dapprima diffuse, venissero a formarsi i laghetti di Pusiano, di Annone, di Alserio, lasciando in secco il restante. Chi dalle efimere fatture dell’uomo, somiglianti alla crisalide che il baco sospende al ramo e che domani la pioggia scarmiglierà, si compiace voltare lo sguardo alle merariglie della natura e leggerne sulla faccia della terra gli stupendi rivolgimenti, troverà ad ogni passo le prove di questo fatto; ma verun cenno non ne fu conservato nè dalla storia ne dalla tradizione. Invasioni di feroci stranieri, muta pressura di superbi dominatori, tenevano allora l’uomo avvilito e minor di sè, tanto occupato dalla nequizia dell’ora presente, che non pensava nè a rivangare il passato, nè a provvedere alla memoria degli avvenire.
Disperso o ristretto l’Èupili, la parte più elevata di quel che già era letto del lago si convertì presto in campagne, la cui cultura diede essere ed occupazione ai grossi villaggi, onde oggi quel piano è distinto: le bassure rimasero paludi, ove, qual volta la stagione corresse piovosa, l’acqua tornava a riprendere il suo dominio, siccome una cattiva consuetudine che a volta a volta rifiglia colà d’onde fu male sbarbicata. Sempre poi non verdeggiavano che di cannucce e di càrice ingrata, ove la nuda ghiara non ingombrasse così, da dar luogo appena ad ispidi vétrici e ad ingrate scope.
Pochi di que’ luoghi durano tuttavia in sì abjetta apparenza: altri, a memoria de’ più giovani, furono ridotti a pioppeti, a prati, a colti; più assai nel secolo passato sentirono il risorgere dell’industria, che, al favore della pace e di più avveduti e liberali ordinamenti, smorbava l’aria, guadagnava i campi, preparava nuovo sostentamento alla generazione futura, la quale, cresciuta di numero e d’agiatezza, avrebbe lodato i faticosi parenti; — lodati col fatto, mentre il cuore neppur li ricordava, forse la lingua li oltraggiava.
Però, sul finire del secolo XVI, quando le guerre passate, la prepotenza delle classi priviligiate e lo sconsigliato ed inopportuno affaccendarsi d’una disamata dominazione diradavano la gente col diminuire od impacciare i mezzi di sostentamento, la maggior parte di quel piano giaceva incolta, occupata da boscaglie, rotta da guazzatoj ed acquatrini; sicchè, invece della strada che ora lo fende, mettendo dalle falde del Monte di Brianza alle deliziose alture di Erba, allora, un sentiero vicinale serpeggiava scabro e dirotto per mezzo al bosco che occupa il pendio settentrionale della collina, la quale, alzandosi da Rovagnate verso il Lambro, divide la alta Brianza dal Pian d’Erba. Pochi assai percorrevano allora quella via: giacchè, oltre le più scarse relazioni da paese a paese, il generale disagio delle strade, singolarmente nei terreni montuosi, svogliava dal viaggiare. Onde è in proverbio che chi dovesse (poniam caso) da Como giungere a Milano, assestava i domestici affari; indi avviatosi, com’era giunto a mezzo il cammino, rimandava un messaggio a casa per assicurare che, la Dio mercè, gli era riuscita prospera l’andata. Esagerazioni che però ritraggono da un fondo di vero, e che formano bizzarro contrasto colla rapidità onde oggi non solo travalichiamo a ruote correnti le alpi più elevate, ma solchiamo, a dispetto di venti e di correntie, rapidissimi fiumi e l’immensità dell’oceano.
Oltre però la disagevolezza delle strade, era il viaggiare reso mal sicuro dai lupi che spesseggiavano, e più da quella belva che ha nome l’uomo, della quale non è la peggiore qualvolta la forza accoppiata alla ragione non sia temperata colla giustizia e colla benevolenza. Masnade di ladri, accampando a baldanza per le foreste e per le lande, non solo davano fiera avventura al solitario passeggero, ma aggredivano e depredavano casali e borgate. Con costoro se la passavano d’intelligenza gli ostieri onde il viandante, il quale, vedendo imbrunire, aveva sollecitato il passo per ricoverare alla locanda e, raggiuntala, ringraziava il suo angelo che l’avesse ridotto in salvo, nel maggior cheto della notte si trovava assalito e sovente scannato nel letto. Birri e campagnuoli uscivano contro costoro; quadriglie di soldati acquartieravansi di distanza in distanza: ma non è ben chiaro se maggior danno recassero i protettori o i masnadieri, la forza legale la perseguitata.
Tutto ciò, sebbene poco abbia a fare col racconto di che intendo trattenervi, sia detto per giunta al panegirico di quel buon tempo antico, che tanti rimpiangono continuamente.
E non è ancor tutto. Conviene aggiungere i feudatarj, che, tiranneggiando ciascuno nel suo Stato, esteso poco più d’un miglio, imponevano ad arbitrio taglie, servizj, pedaggi, e sotto l’ombra di quella forza brutale che aveva acquistato il nome di diritto, esercitavano le angherie e le prepotenze dei ladroni insieme e della soldatesca.
Uno di siffatti dominava, appunto in quei tempi, nel castello di Barzago, terra di felice posizione, seduta in poggio sulla cresta di quel giogo, che come sopra accennai, diviso per un piccolo valico dal Monte di Brianza, estendesi da Rovagnate al Lambro, dominando da un lato l’alta Brianza, dall’altro il Pian d’Erba. Don Alfonso Isacchi aveva nome quel signore, ma tra i paesani erasi co’ suoi modi guadagnato il soprannome di Orso di Barzago. Colleroso, vendicativo, indifferente ai patimenti altrui, il rispetto all’umanità neppur di nome conosceva: le leggi paragonava alle reti, dove il tordo s’impiglia, la volpe o il falco le squarciano, e innanzi La religione non disprezzava già, ma, separandola dal costume, l’aveva ridotta a quella che ne veste le sembianze, benchè ne sia pessima nemica, la superstizione: talchè, se la coscienza avrebbe potuto richiamarlo od arrestarlo sulla carriera delle violenze, esso la addormentava con pratiche devote cui sapeva conciliare collo sfogo de’ suoi laidi e prepotenti capricci.
Chi entrasse nel suo castello, al vedere uccellacci confitti sullo imposte, pelli di lepri, teschi di lupi spenzolati alle pareti, falchi starnazzanti sulle grucce e fischi e panie e tagliuole in ogni lato, e cani sciolti o al guinzaglio, che abbajavano, squittivano scodinzolavano, e intorno campari, canattieri, guardaboschi, s’avvisava quanto egli fosse appassionato per la caccia. A ben peggiori segni se ne accorgevano i paesani, che spesso miravano folate d’uccelli, moltiplicati dalla disastrosa impunità, calarsi, a beccare i grani dal solchi appena sementati; od una furia di levrieri sbrancare ed uccidere il domestico pollame; ovvero uno stuolo di cacciatori, a piedi, a cavallo, spingersi in mezzo al miglio ed al frumento già spigato, e poco dopo ritornare, mostrando in trionfo quaglie o beccacce al povero contadino, che lagrimava perduto o decimato il sostentamento della sua famigliuola per l’insano divertimento dei padroni.
E guai a lui se si fosse arrischiato a sturbare i selvatici! più guai se avesse ardito ucciderne qualcuno! Don Alfonso avrebbe saputo perdonare ad un ladro, ad un micidiale, non a chi ne avesse scemato d’un capo solo la selvaggina. I contadini adunque dovevano soffrire e trangugiare, senza che credessero tampoco tesoreggiare meriti colla pazienza; giacchè erano stati educati a considerare l’oppressione una necessità inevitabile, come la grandine, come il morire; e che Dio, concedendo ai grandi d’intendere le ragioni che hanno per soperchiare il povero, avesse fatto anche troppo concedendo al povero la forza di tollerarli.
Alle caccie di don Alfonso era riservato il bosco, che dalla vetta di Barzago discende a bacìo della collina, e che allora distendevasi anche per buona parte del piano, oggi coltivato. Lo chiamavano, e lo chiamano ancora il bosco d’Imbevera; foltissimo di roveri e orni e castani, tra’ quali non solo moltiplicavano, come in parco chiuso, gli uccelli e i quadrupedi onde oggi pure si fa caccia, ma bestie ancora, la cui razza è fra noi o scemata o scomparsa. Lo tagliava, come dicemmo, la strada, e là, appunto ove in questa metteva capo una non migliore che scendeva da Barzago, era alzato un devoto tabernacolo della Madonna. Poichè, oltre le croci piantate a ciascun crocicchio, e le molte che, indicando il luogo dove alcuno fu assassinato, crescevano lo spavento al viaggiatore già pauroso, di distanza in distanza si solevano dipingere immagini sacre, affinchè la religione fosse di alcun freno a coloro, che nessun altro ne conoscevano. E però chi, alla frequenza di quelle ponendo mente, esclama, Quanto erano buoni i nostri maggiori, direbbe più retto, Quanto erano cattivi; od almeno, Quanto erano infelici.
Spuntava il settimo giorno di settembre del 1590, e rompeva il silenzio di quel bosco un via vai, un latrare di bracchi, un pestìo di cavalli, uno stridire di falchi, un chiaccherare ed affaccendarsi di cacciatori, che in frotta venivano intorno a don Alfonso. Egli seguiva a cavallo, discorrendo, fra un signore e una dama di freschissima apparenza, tutti con falchi e balestre e panie e gli altri arnesi adatti alla caccia, quale facevasi in tempi che il fucile, non ancora perfezionato, s’adoperava poco più che ad ammazzare gli uomini. La signorina, lieta di gioventù e novella sposa, dando libero corso ad un’indole gioviale, stata sin allora repressa fra le austerità della monastica educazione, volgevasi via via a richiedere don Alfonso or delle caccie, or delle terre che, nel discendere l’erta, scoprivano a man mano nella pianura sottoposta e sugli alti clivi rilucenti al sole mattutino, e pareva tripudiasse di incontrare tutto il creato in armonia colla felicità ond’ella si sentiva inondata.
Ma sopra pensieri camminava il giovane suo sposo; e se ella con un sorriso pieno di dolcezza insieme e di vivacità lo confortava a rallegrarsi, — Com’è possibile (rispondeva), Emilia mia? Questi luoghi tu sai quanta sventura mi rammentino. Ma lei, don Alfonso, ben deve lei aver a niente la grave disgrazia qui occorsa a mia madre.
— Oh.... sì... certo.... N’ho inteso parlare», rispondeva il feudatario, aggrottando viepiù le fosche sopracciglia.
— E dove accadde veramente il fatto?» insisteva don Alessandro, che così nomavasi il giovane signore.
— Là.... abbasso.... Ma non so bene. Dev’essere stato presso alla Madonnina d’Imbevera», ripigliava don Alfonso.
— E non si seppe mai il vero di quel caso atroce?
— Mai», replicava don Alfonso facendo spallucce e vibrando in faccia all’altro lo sguardo acuto di una vipera in atto di assalire, quasi avesse voluto spiargli in fondo del cuore. Non gli sembrò vedervi sospetto nè malizia; onde rassicurato continuava: — E come sarebbe potuto scoprirsi? Questi contorni erano pieni di malandrini e di banditi. Non è vero, guardacaccia?»
E il guardacaccia facevasi più presso confermando.
— Se ce n’era, illustrissimi! e con tanto di pelo sulla coscienza. Il Caino di Pusiano, il Raspagno di Garbagnate, lo Spazzacampagne di Broncio, altri ed altri cani, che avrebbero assalito anche un frate».
— Capisce?» soggiungeva don Alfonso. «Ma ci abbiamo trovato riparo; e da poi che occhieggiano intorno questi gatti (accennava con sorriso i suoi uomini), di simili sorci è scemata la razza, ed ella deve starsene senza paura.»
— Ma dica....» voleva ripigliare il giovane, ben altro che soddisfatto di quelle risposte. L’Orso però, cui tali domande non parevano dar troppo per lo genio, lentò il freno al cavallo, toccandolo d’una gagliarda spronata, e dietro a lui tutti gli altri. Se non che avendo esso liberato contro d’un uccello il suo falcone, questo riuscì a strappare la lunga annodatagli al piede, e datosi a libero volo; dopo ampie ruote fu veduto posarsi sul comignolo d’una bettola, che sorgeva rasente la strada del bosco. Era una povera casipola, colla parete a tramontana rivestita di edera, mentre a quella di mezzodì stava dinanzi un piccolo ma ben disposto orticello, da cui presso al muro sorgeva una vite novella, destinata, crescendo, a contornare co’ suoi pampani una finestra, adorna con pensili ciocche di garofani vivaci. Verso quella si drizzò dunque la comitiva per ricuperare il falco, richiamandolo e procurando calmarne lo spavento colle noto voci e col mostrargli l’esca.
Come s’intese dirigersi colà la cavalcata, fu un sottosopra nella tranquilla osteria. Un giovinetto, che affaccendavasi per la casa, corse a rintanarsi in una botte sdogata: la madre, che stava rigovernando le stoviglie, tutta spaurita gittò in là il ceneracciolo e l’asperella: l’oste, confuso, impacciato, svolgendosi le maniche rimboccate della camicia e traendosi di capo, si fece sulla soglia, incontro alla comitiva. — Illustrissimo....! qual onore....!» e strisciava i piedi, e faceva profusi inchini a don Alfonso. Ma questi non gli badava come se non fosse: e i servitori ad un suo cenno entrati nella casipola, senza un riguardo al mondo cacciandosi per le camere e su pel tetto, riebbero al fine l’uccello fuggiasco, non prima però che questo, lanciatosi di nuovo a volo per la cucina, mandasse a frantumi gli orci, i bicchieri, i piatti che capitarongli sotto l’alo.
L’oste non proferiva parola di lamento, e appena osava dare una timida occhiata alla timida moglie. Don Alfonso, dopo che s’ebbe in pugno il falcone, l’accarezzò, lo battè, gli parlò a lungo; poi volgevasi già per andarsene senza far motto al vinajo, quando, soccorrendogli un pensier nuovo, disse al guardacaccia: — Poichè opportunamente siamo capitati qua, date a costui la preda che avete a lato. E tu (soggiungeva all’oste) la cocerai, e preparerai vino in abbondanza, che fra tre o quattro ore saremo qui. Oggi si fa colezione nel bosco.»
— E se mancherà un’ala me la pagherai salata.» soggiungeva la guardia, coll’arroganza propria dei ministri d’un cattivo padrone, nel mentre consegnava all’oste la selvaggina. Toccarono, e via.
L’oste, per cui quell’arrivo era un sinistro augurio, com’è sempre quello d’un tristo signore, quando li vide voltare esclamò, rimettendosi la sua berretta: — Sia ringraziato Iddio!»
— E i poveri morti», aggiunse la donna sua segnandosi: e raccogliendo il fiato, chiamò, — Cipriano, Cipriano! vieni fuori».
E Cipriano, quel giovinetto lor figliuolo che se la era fumata, comparve fuori, nettandosi dei ragnateli, mentre la madre, raccogliendo i cocci delle rotte stoviglie, raccontava l’accaduto colla fredda rassegnazione, ond’altri racconta una febbre effimera avuta jeri; ed il padre, dando mano alla selvaggina lasciatagli, esclamava: — Non ha torto il sindaco quando dice che certa gente sono come le lumache; dove passano, lasciano il segno».
— Eh! «soggiungeva il garzone, «possiamo segnarci col gomito se non è stato che questo. Io mi era immaginato... Perchè, bisogna che vi confessi che l’altro giorno s’ammazzò una lepre...»
— Ammazzar una lepre!» gridava il padre, sospendendo di scorticare una delle tre che, tiepide ancora, gli aveano lasciate da cucinare.
— Ammazzar una lepre!» ripetea la madre giungendo le mani. «Ma ho da sentire anche di queste? Non sai gli ordini? E gli ordini si devono rispettare, che lo dice continuamente anche il signor vicario.»
— Il signor vicario?» ripigliava il giovane dimenando il capo. «Oh! quanto pagherei a dare una occhiata anch’io sul messale, e vedere se comanda sempre solamente a noi d’obbedire, e mai...»
Qui interrompendosi come avesse detto uno sproposito, ripigliava: — Or ora mi fate uscire in un’eresia. Sta bene: il signor vicario è quell’uomo che è, e sa ben lui quel che si dice. Però, a vedere! sin che quella lepre, entrata nell’orto, non fece che scompigliare i quadri e mangiare i cavoli, mi venivano i sudori; pure mandavo giù. Ma vi è li quel piede di vite, portato due anni fa a mia sorella Brigida dal giardiniere del suo padrone di filanda; gli è d’una qualità così rara, e poi alla Brigida è caro come un occhio, perchè, chi sa quali memorie vi ha congiunto! Ebbene, io lo piantai nell’orto; lo governai con tanta premura; gemmò, crebbe: ed ecco quella maledetta lepre a rosicchiarlo. M’avrebbe fatto minor dispetto se m’avesse roso le dita a me.
— Non hai tutti i torti» parlava il padre: «ma ti doveva bastare di scacciarla col malanno che Dio le mandasse.»
— Dite giusto», rispondeva Cipriano: «poteva bastare: e se ho proprio a contarvela, schietto come al confessore, io m’accontentai di spaventarla. Ma quella, scappando, sguisciò fra le gambe di Cecchino del Forno; ed egli, visto il bello, gliene diede sul capo una, che non fu bisogno la seconda. Volle il diavolo che fosse lì poco lontano quella schiuma del guardacaccia. Gridando corpo e sangue, ci corse dietro; ma sì! guarda la gamba. Non ci ha conosciuti, e dovette contentarsi di urlarmi dietro,
— Non dubitare che verrà il tuo sabato».
— Quando la cosa sta come la conti» diceva la donna «fa bisogno di mettersi in paura? Se alcuno te ne parla, si dice: Gnorno; non sono mica stato io, si dice: l’è stato il tal dei tali, e buona notte.»
— Che? come?» saltava su il giovane inalberandosi, «Io accusar il mio camerata per salvar me? Da che mondo è mondo non s’è ancora inteso che un Brianzuolo n’abbia fatto di cotesto. Ed io voglio portare il mio cappello fuor degli occhi, io; mi capite?»
E mentre il padre sentenziava novamente che non potea dargli torto, egli seguitava brontolando fra i denti, sinchè riprendeva: — È però della maledetta! L’Orso di Barzago, perchè è lui, ogni po’ di bizzarrìa che gli monti, a far battere noi poveri villani ed anche peggio, l’ha come bever un uovo; e per noi ha da esser peccato mortale se ammazziamo uno straccio di lepratto che ci fa del male. Che? non siamo cristiani ancora noi? non ci ha fatti anche noi il Signore? E la sua santa legge v’è solamente per i pitocchi? Sì, che Domenedio avrà paura di lui perchè è l’Orso.
— Oh per amor del cielo!» l’interrompeva la donna: «parla con rispetto di lui. Non vedi quanto male ci potrebbe fare? Eppure ci lascia vivere. Chi poi lo dice così cattivo sono male lingue: e guarda mo’ con che devozione sta in chiesa: ed ogni sabato non fa accendere la lampada alla Madonnina d’Imbevera? e....»
— Sì sì» esclamava Cipriano; «ogni ladrone ha la sua devozione. Ma come egli sia buono, addomandarlo al mugnajo di Santa Maria Hoe il quale, perchè aveva la donna bella ma anche savia, fu conciato che Dio vel dica. Addomandarlo a Mariantonia del filatojo, che era una ragazza chetina come l’olio, ed ora sapete anche voi quel che n’è. Addomandarlo a Carlandrea del Gobbo, che, per non avergli voluto cedere il suo camperello, n’ebbe prima tante bastonate quante può portarne un somaro, poi a rinforzo d’angherie è ridotto miserabile come Giobbe. E neppur un mese fa Lionardo di Rosina avendo, nel passare, spaurato un merlo che stava per dare nel calappio, il guardacaccia non lo fece ruzzolar giù pei ronchi come una pallottola, gridandogli dietro, spero che non tornerai più su? Oh quel guardacaccia! Il Signore ne scampi i cani. L’altro dì....»
Chi sa fin quando Cipriano toccava innanzi, sciorinando questa litania delle insolenze che, come più recenti, gli correvano prime alla lingua, e che possono essere un’altra dimostrazione del quanto sia grande la pazienza di chi soffre. Ma gli ruppe le parole in bocca, sua madre tutta scandolezzata, dicendo: — Ma sicchè? ma sicchè? Dov’hai tu la coscienza a parlar così senza rispetto dei padroni? Bada che Domenedio ti castigherà. Non è vero che egli ha fatto gli uomini parte per comandare, parte per obbedire? Bene; i potenti si chiamano così perchè hanno avuto da lui la potenza di comandare, e il nostro dovere è di fare la loro volontà senza cercar più che tanto. Che capo sei tu! vorres’tu disfare quel che ha fatto il Signore?»
— Tua madre non ha torto», soggiungeva il padre. «Non l’hai inteso delle cento volte che il destino di noi straccioni è mangiar pane e guai? e il diritto di quei che comandano è far quello che possono?»
Le idee di diritto e di dovere non doveano essersi ben identificate nel capo di Cipriano: compatitelo, avea poca barba ancora al mento. Laonde crollava il capo a guisa di chi si conosce rimproverato piuttosto dalla prudenza che dalla coscenza poi dopo alquanto saltava su: — Però, se fosse toccato a me a dar regola al mondo, indovinate mo cosa avrei voluto? Che quelli che lavorano stessero bene e di sopra degli altri; e gli oziosi facessero crocette. Ah! ah!»
E sbellicavasi dalle risa all’averne detto una così strampalata. Il padre rideva anch’esso, esclamando — Si può sentire di peggio?» Persino la madre serenavasi alquanto, poi, ripresa la sua devota ipocondria, continuava; — Che discorsi senza sugo! Se tu avessi un poco di timor di Dio, avresti anche il timor degli uomini, ti cuciresti la bocca, e certe cose non le diresti manco per baja. Ma già fin da ragazzo eri un capetto, con certe idee per la testa, che sicuro non le avevi imparate da me: e non ti pareva giusto nemmeno quando, a scuola o alla dottrina, ti picchiavano. Ora però sei all’età della discrezione, e dovresti aver acquistato un poco di viver del mondo, e sapere che i padroni, come le streghe, è meglio non nominarli nè in bene nè in male. Se tu facessi così, non avresti avuto paura adesso adesso quando capitò qui il Signore: perchè a chi va per la sua strada non importa che i padroni siano buoni o siano cattivi.»
— Ed io (soggiungeva Cipriano) sono forse andato io a cercarlo? non sono anzi scappato quando mi vide il guardacaccia? e questo non fu forse per prudenza? Perchè, del resto all’occasione so anch’io cacciarmi le mosche dal naso. E se poco fa mi rimpiattai, fu per rispetto al padrone; che se il guardacaccia vedendomi mi riconosceva per quel dell’altro giorno, e m’indicava a don Alfonso, io poteva preparar fatto l’atto di contrizione. Alla fine lo so anch’io che i padroni sono padroni, ma con quella canaglia de’ suoi uomini l’è un pezzo che la bolle; e badino a quel che fanno, perchè se mi ci tireranno per i capelli, non sono poi di sasso, e darò un piè nella secchia, e farò vedere...»
— Ah orsù» l’interrompea la madre; «finiamola, che è lunga. Lasciali stare, e nessuno verrà a disturbarti. Che se anche te ne fanno fare qualcuna, manda giù e non volere tentar Dio. Hai ventiquattro anni finiti, ed è ormai tempo di lasciare le bizzarrie. Via, discantati; dà mano a tuo padre a spennare e sbuzzare que’ selvatici; sbacella que’ fagiuoli; va a raccogliere due pesche, e monta su la pianta, da non presentargliene ammaccate».
Il giovane faceva; ma somigliante all’organista che tasteggia sotto voce nel tono in cui ha sonata dianzi e deve sonare ancora fra poco, tale seguitava egli con tronchi motti, sinchè tornava su: — Mia sorella, la quale a dir che mi vuol bene è poco, ne avrebbe detto delle belle quando avessi lasciato massacrare la sua vite. Bravo Cipriano! avrebbe detto la Brigita. Bel conto fai delle mie raccomandazioni, avrebbe detto.... Ma..., adesso che mi vien in cuore; domani non è il giorno della Madonna di settembre?»
— Certo sì», rispondeva la madre; «e farai bene a santificarne la vigilia con qualche mortificazione, almeno della lingua.»
— E non è oggi che deve tornare la Brigita dalla filanda?
— Si bene!» esclamarono ad una i genitori.
— E se la intoppasse in costoro, che sono pel bosco a caccia?»
— È vero» replicò il padre battendosi l’anca.
— O signor benedetto!» esclamò la madre giungendo le mani: e sospesero le faccende per guardarsi uno in faccia all’altro.
— Bisogna raccomandarla alla Madonna d’Imbevera, che la scampi d’ogni cattivo incontro», aggiungeva dopo un pezzetto la donna.
— Raccomandarla va bene (rispose Cipriano), ma il Signore dice: Ajùtati che ti ajuterò.
— E così? che s’ha da fare? domandò essa.
— Che s’ha da fare?» replicò il padre, e tacquero. Non ci pensò molto Cipriano e — Niente! lasciate far a me; le anderò incontro.»
E poi?» soggiunsero i parenti.
— E poi, e poi, sarà quel che sarà. Quante paure! Quando vado a fin di bene, mi sento un cuor di leone.
— Ma! fa quel che il Signore t’inspira.»
In quanto si dice un amen, egli levò il cappello di sotto una seggiola; tolse di dietro l’uscio un saporito randello, non senza cacciare, per ogni buon fine, nel taschino dei calzoni un buon coltellaccio da serrare poichè del coltello e del rosario non andava mai sprovvisto un galantuomo di que’ tempi. E mentre la madre, fattasi sulla porta, e vedendo volentieri in fatti quel coraggio che dianzi avea con parole disapprovato, gli augurava che il Signore gli tenesse la sua santa mano in capo, egli si metteva la via tra le gambe allegramente.
Passò avanti al tabernacolo d’Imbevera, dove, men rozzamente dell’ordinario, stava dipinta a guazzo l’immagine di Colei che, madre di Dio e nostra ci inspira confidenza di volgerci, colla sua intercessione, ad esporre al Signore i nostri bisogni. Era effigiata in atto di schiacciare il serpente: di sopra si leggevano le parole della Genesi Conteram caput tuum; sugli stipiti erano foggiati due nastri azzurri, che sorreggevano stinchi da morto incrociati; al piede un ceppo riceveva il soldo che vi offeriva in limosina il viandante o devoto o pauroso.
E devoto o pauroso, non era chi le passasse dinanzi senza far di cappello, e ripetere almeno tre volte la salutazione angelica. Singolarmente i contadini del contorno l’aveano in gran venerazione, ricordando una quantità di miracoli, come essi li chiamavano, impetrati per mezzo di essa, e dei quali rendevano testimonianza grucce, bende, cenci che spenzolavano, bizzarro ornamento, attorno all’effigie invocata. Le vecchie poi sapevano che, per virtù di questa, erano impedite le streghe dal congregarsi, come a loro memoria facevano, la notte d’ogni sabato a celebrare su per quei noci la tregenda. Le fanciulle venivano ad esporvi una preghiera, il cui oggetto non ardivano confessare e spiegare a sè stesse; gli uomini vi facevano l’invocazione che a ciascuno dettava il proprio momentaneo interesse: talchè spesso nel medesimo istante vi si trovavano inginocchiati un contadino ad implorare la pioggia ed un viaggiatore il bel tempo, nè l’uno nè l’altro ricordandosi di quel precetto, Chiedete il regno dei cieli, il resto verrà in aggiunta.
Cipriano, in men tempo che noi ne consumammo a’ descriverla, recitò al tabernacolo la sua preghiera di cuore, offrì un soldo pei poveri morti, e tirò innanzi cantacchiando.
Non erano molti anni che colà era stata dipinta quella immagine, e l’origine di essa si congiunge alla storia dei signori che qui sopra trovammo intesi alla caccia pel bosco: storia di sangue e di atrocità, come sono troppe fra le avventure ricordate di que’ tempi.
Le inimicizie tra i signori Isacchi di Barzago e i conti Sirtori di Sirtori, de’ quali era il nominato don Alessandro, rimontavano sino ai tempi quando sul suolo d’Italia, destinato a bevere il sangue di di tutte le nazioni, versavano il loro Spagnuoli e Francesi per disputarsi il possesso della Lombardia, ceduta da’ suoi antichi padroni o piuttosto a loro rapita. I nobili lombardi parteggiavano chi per questi chi per quelli; secondo parca loro che la lontananza de’ primi o le promesse de’ secondi, sempre larghe e sempre bugiarde, meglio potessero salvare l’indipendenza del paese, la quale trovavasi in gran punto, e di cui queste fraterne dissensioni non fecero che accelerare la ruina.
Allora le gare mandarono a fascio ogni sociale armonia; tornò il diritto della forza, e ciascun potente mascherandosi col nome d’una fazione, e così dichiarando guerra e sostenendola a visiera alzata, esercitava gli odj e le vendette private. Qualche volta al castello d’un barone presenta vasi un araldo, ed affiggeva alla porta un cartello che diceva: — Io tale de’ tali, da oggi innanzi sarò tuo nemico a morte, e nocerò il più che mi sarà possibile a te, ai sudditi, agli attenenti tuoi, nella persona e nell’avere». Talvolta chi riceveva tali disfide o chi lo mandava era una corporazione, una comunità: e da quel punto credevasi legittimata qualunque scelleratezza, come in guerra rotta.
Gli Isacchi stavano coi Francesi, mentre i Sirtori favorivano gli Imperiali, e più volte si erano recati gravi danni, od almeno ne avevano recato agli innocenti terrieri, che, destino antico, scontavano coi proprj guai i delirj de’ padroni. Ma quelli di Barzago, fiancheggiati da una più grossa fazione, prevalevano nelle parti di Brianza; e don Giberto, avo che fu del feudatario presente, a capo di forte banda teneva in soggezione gli avversarj e in danno e sgomento tutti.
Però alla fine gli Spagnuoli prevalsero: il paese fu sgombro da’ Francesi, e i loro fautori rimasero sbattuti, quanto rizzarono il capo gli altri. A governo della Lombardia fu destinato il duca d’Alba, severo, inflessibile, che, senza guardar più in fronte a nobili che a plebei, faceva pagare col sangue ogni violazione degli ordini suoi. E che tale dovesse riuscire lo mostrò da’ bei primi giorni del suo reggimento, quando, non avendogli un gentiluomo milanese fatto di berretta mentre cavalcava per la trionfata città, egli senz’altro lo mandò a morte. I Sirtori, cieco per furor di parte e per sete di vendetta, si giovò dell’opportunità per dipingere don Giberto come ostinato ribelle, e senza molta fatica ottenne dal governatore uno di quei decreti eccessivi, soliti emanarsi nell’ebbrezza dei trionfi, col quale si bandiva la taglia di dugento scudi d’oro sul capo di don Giberto.
Questi, che mai non aveva dimesso le armi, conservavasi a capo d’un pugno di bravacci risoluti, quando intese la sentenza, sorrise e battendo la mano sulla fondina delle pistole, esclamò: — Chi mi vorrà morto avrà a fare con queste».
Calcolava egli sulla forza aperta, non sul tradimento. La tentazione della taglia vinse uno tra i suoi affidati, che lo scannò, ed ottenne l’oro ed il disprezzo, — mercede perpetua dei traditori.
Il capo reciso dell’Isacchi, chiuso in gabbia di ferro, venne sospeso ad una pianta lungo la via che fendeva il bosco, dal quale soleva egli sbucare alla devastazione, all’incesto, all’assassinio, acciocchè ivi rimanesse a perpetuo spavento.
L’infamia e la pena de’ genitori, secondo la giustizia d’allora, ricadevano anche sui figliuoli e sui parenti: onde non occorre vi dica quanto la famiglia Isacchi restasse di tanto oltraggio irritata. Ogni colpa, nè a torto, veniva attribuita al Sirtori, e il desiderio di vendetta contro questo esacerbava le antiche inimicizie, quanto più era represso dallo stato politico d’allora. Poichè il duca governatore aveva bandito che cessasse ogni dissensione tra famiglie e famiglie, nè i privati esercitassero più la cieca ragione di guerra, che si erano usurpata fra i passati scompigli. Costretti dunque a ricorrere alle vie legali, gli Isacchi umiliarono alla Corte di Madrid le discolpe di don Giberto.
Qualche valente appoggio e l’essere morto il duca d’Alba fecero trovare colà ascolto favorevole ai loro richiami, e dopo cinque anni arrivò uno spaccio, che, dichiarando innocente don Giberto, cassava il bando contro lui pronunziato. Gli Isacchi dovettero allora, rinnovare le rimostranze alla Corte facendole conoscere come l’assolto fosse già stato ucciso. E la Corte, dopo non so quanti mesi, rescrisse che il padre era stato male ammazzato, riabilitò il figliuolo di esso ai titoli ed agli onori di prima, e gli rese i beni, che, come roba di rubello, erano stati condannati a rimanere incolti; altro dei mezzi onde quel governo faceva prosperare l’agricoltura e crescere il buonmercato.
La testa dell’ucciso fu dunque levata di colà; e nel luogo dov’era stata sospesa, il figliuolo di lui, in memoria ed in espiazione, fece erigere un tabernacolo; il tabernacolo appunto d’Imbevera. Quella depravata religione, che pretesseva alle scelleratezze il nome di Dio, anche nella scelta dell’effigie da rappresentarsi fece all’Isacchi preferire quella che alla sua idea ricordava una vendetta; cioè la più pura delle donne che schiaccia il capo dell’antico avversario, col motto della Genesi sopra accennato che sonasse, non la promessa del riscatto, ma una minaccia di sangue.
Imperocchè, sebbene astretto a rodere il freno, l’Isacchi era ben lontano dall’avere dimentica la ingiuria del nemico. Avvezzo in quegli anni a vedere, secondo la sorte delle battaglie e gl’intrighi dei gabinetti, succedersi governi a governi, sperò lunga pezza che altri padroni caccerebbero questi, e tornerebbe il tempo d’esercitare micidiali rappresaglie a suon di trombe e a vessilli spiegati, il che fra i cristiani chiamavasi vendicarsi nobilmente.
Ma gli Spagnuoli si erano qui seduti per non levarsi che dopo un secolo e mezzo, e conservavano un ordine, qualunque si fosse. All’Isacchi parve allora più prudente consiglio l’amicarsi i nuovi dominatori, come ottenne col militare sotto le bandiere degli Spagnuoli, quando con torrenti di sangue procuravano spegnere nelle Fiandre le dissensioni religiose, ed al contrario vi fecondavano il germoglio della libertà. Giovandosi poi delle strettezze di quel governo, che, padrone delle miniere americane, pativa continua necessità di denaro, comperò in feudo per cinquantamila ducati il comuune di Barzago, dove erano le sue possession avite, col diritto d’imporre tasse, imprigionare, torturare, appiccare, e tutto quello che chiamasi far giustizia.
E poichè la minacciosa fiacchezza delle leggi di allora lasciava il modo di sostituire alle spade i pugnali, al clamoroso attacco le insidie, alle sfide il veleno, colse egli ogni occasione di nuocere ai signori di Sirtori, e quanto gli bastò la vita, gravi danni ad essa recò; non però tanti che satollassero l’odio e la rabbia mortale che loro portava.
Trasmise adunque l’omicida voglia al figliuol suo Alfonso. Non appena fu questi tornato dalla Corte di Madrid, ove l’educazione ricevuta in uno de’ più rinomati collegi gesuitici aveva perfezionata vivendo secondo il costume dei nobili, come paggio fra gli ozj orgogliosi e dissoluti delle anticamere, e coll’esempio di que’ cupi, inesorabili, devoti monarchi, suo padre lo tratteneva sovente col racconto di quel fatto, gli mostrava il teschio dell’ucciso, che con irosa venerazione serbava nella propria camera; e massimamente ogniqualvolta avvenisse loro di trovarsi nel bosco d’Imbevera, più al vivo dipingendogli quell’atrocità, gl’inculcava il sacro dovere che l’onore impone ai nobili di vendicare i parenti; più volte avevano insieme ruminato il modo di ridurlo ad effetto, e quanto sarebbe decoroso alla casa e a loro di consumare la vendetta colà appunto ove sorgeva il monumento dell’oltraggio.
Venuto poi in caso di morte, il padre chiamò a sè don Alfonso, e togliendosi di collo un medaglione d’oro su cui era improntata la madonna, — Vedi tu (gli disse) questa santa effigie? La portava di continuo in petto la buona memoria di don Giberto mio padre. Pensa se la serbai preziosa! Ed ora, sul punto di abbandonarla colla vita, a te la lascio, Alfonso mio; ma con essa ti lascio un dovere sacrosanto, di vendicare colui al quale dapprima appartenne. Di quante inimicizie esercitò la nostra famiglia, sempre, grazie a Dio, n’è uscita con onore, nè alcuno si potè mai vantare d’averle usato un sopruso, che non ne patisse il centuplo di danno. Tu non degenerare da’ padri tuoi; ma serba intatta questa gloria, figliuol mio. Poss’io morire consolato di tale fiducia?»
Quando il figliuolo tra i singhiozzi glielo ebbe promesso, tutto egli rasserenossi, e poco dopo spirò.
Lui sventurato se migliori sentimenti non concepì avanti di presentarsi ai giudizio, ove i debiti nostri saranno rimessi secondo gli avremo rimessi noi ai nostri offensori!
Nel giovinetto Alfonso rimasero pertanto associate le idee di religione e di vendetta, l’effigie della Madre della misericordia, le sacre parole, gli affettuosi ricordi d’un agonizzante, colla promessa d’un assassinio. Se tanto ancora non fosso bastato, rinasprì le ire il matrimonio che il signor Sirtori, padre di don Alessandro, strinse con una ricca dama dei conti Perego, sulla quale, o, a dir meglio, sulle ricchezze, sui titoli, sulle parentele della quale aveva messo gli occhi don Alfonso.
Per questa rivalità stavano l’uno in sospetto dell’altro, nè andavano in volta per Milano se non con buona scorta d’amici e un codazzo di bravi.
Accadde (e fu il giorno della Pentecoste) che don Alfonso, con una dozzina de’ suoi appoggiati, entrò in Duomo, nel mentre quel Carlo Borromeo che operò ogni poter suo per sostituire in mano dei nostri patrizj il rosario alla spada, faceva un’omelia sopra quel testo, Se alcuno ti percuote la guancia destra, e tu porgigli anche la sinistra. L’Isacchi, avanzatosi in mezzo alla devota ciurmaglia, che gli dava il passo, si fermò accanto ai panconi, su cui stava seduto il Sirtori cogli aderenti suoi. Questi e quelli cominciarono, come si dice, a rizzar il pelo e guardarsi a squarciasacco: uno fa i seguaci dell’Isacchi, fosse caso o prurigine d’aizzare, striscia col gomito e scompone il collare al più vicino fra quegli altri: costui si rivolta con un mal piglio; con un peggiore lo fissa l’altro: comincia un brontolar sordo, fra il quale una voce abbastanza chiara proruppe: — Qui c’è alcuno che vuol farsi mettere in gabbia».
Voleva, secondo l’espressione del nostro volgo, indicare in prigione: ma quella parola gabbia ravvivò in don Alfonso l’idea del supplizio dell’avo, gli sonò come un insulto insieme e come una minaccia; la credette senz’altro proferita dal Sirtori.
In quell’impeto, dimentico del dove si trovasse, caccia mano allo stocco; i suoi l’imitano: nè gli avversarj dormono, ma balzati in piedi, avvoltolate al braccio le cappe, sguainati i ferri, rizzate le panche a modo di barricata, di qua e di là si comincia a far sangue: — a far sangue in chiesa! mentre si spiegava il Vangelo! E l’affare diveniva serio di più in più, se il governatore duca d’Albuquerque, ivi presente, non fosse accorso cogli alabardieri a por fine alla sacrilega zuffa, ed intimare a don Alfonso che uscisse dalla chiesa.
Al domani i cacciatori di novità lessero affissa su pei cantoni di Milano una grida nella quale si diceva qualmente insoffribile era divenuta l’irreverentìa d’alchune persone etiam qualificate, che portando l’aboninatione nella casa del Signore, non altrimenti che nelle pubbliche et più licentìose piazze, senza timore delle vendette divine, et quasi anzi avessero a godervi maggiore franchigia, ardivano cicalare, passeggiar in lungo ed in largo, amoreggiare, sollevar clamori et perfino metter mano alle armi. Di questi eccessi disgustata, l’eccellenza del duca governatore, intenta all’onor di Dio, et salue le giurisditioni del foro ecclesiastico, non che le pene prestabilite per la costituzione di N. S. Pio V contro li profanatori delle chiese, ordina e vuole che nessuno da hoggi inante ardisca con parole licenziose, atti inhonesti, contentioni e risse turbare la devozione in tempo dei divini uffizi. Ed ai contravventori, sotto qualunque pretesto si mantellassero, vuole sia inflitta la pena di cinquanta scudi e cinque tratti di corda, et più allo arbitrio della medema Eccellenza sua.
Chi fa colpa a quel governo perchè, dopo buttate fuori spaventose gride, non curassep più che tanto di mandarle ad effetto, non avrebbe una riprova in cotesta; poichè in una cronaca trovo notato che dalle pene ivi minacciate fu poco di poi colpito un pizzicaruolo, perchè disturbò la devozione della gente affollata a sentir messa in Santo Stefano col correre tra quella a cercare ansiosamente un chirurgo affinchè tosto uscisse a medicare un fruttajuolo, il quale, sul Verzajo, aveva tocche due coltellate da un macellaro.
Benchè da queste pone potesse don Alfonso tenersi sicuro pei riguardi dovuti ad un’illustre famiglia, come provocatore avrebbe potuto essere ricercato; laonde, per causare ogni disturbo, abbandonò la città e si ritrasse nel palazzotto di Barzago, ed ivi trovò opportuno fermare sua stanza. Si mise attorno una mano di bravacci, disposti a fare ogni suo cenno e peggio, e così indipendente esercitava le sue volontà. Ne’ primi giorni che fu uscito di Milano, invelenite le vecchie piaghe colla recente, scese dal castello nel bosco di sanguinose rimembranze, e venuto al tabernacolo d’Imbevera, vi si inginocchiò e fece una scellerata preghiera, ove prometteva alla Madonna, se, col patrocinio di essa arrivasse a sterminare la razza di colui per cui colpa gli fu l’avo trucidato, le innalzerebbe nel luogo medesimo un tempio sontuoso, ove d’ogni parte accorrerebbe agente a tributarle onori ed oblazioni.
Pochi anni dopo, il conte Sirtori morì giovane freschissimo, di una malattia così bisbetica che i medici di campagna la giudicarono cansata da acquetta, sebbene quelli di città inclinassero piuttosto a crederla effetto di stregamento. Ancora in gramaglie era le vedova di lui, quando rivenendo, non so donde, allo sue terre in Siriori pel cammino dei bosco, coll’unico suo figlioletto, e sorpresa da un tùrbine, essendosi riparata sotto un gran noce che faceva ombrello al tabernacolo d’Imbevera, fu assalita, da alcuni sicarj, i quali uccisero i lettighieri suoi ed un servo che la scortava: un altro servo, col favore del bujo, riusci a trafugare il fanciullo, che era appunto il nostro don Alessandro; la dama non fu trovata più nè viva nè morta. Fatto misterioso anche questo, non meno del precedente.
Era in quel tempo sindaco di Barzago un benedetto omicciuolo, che per le cento lire di suo stipendio credevasi in dovere di tutelare i diritti del Comune fin contro del feudatario, e che, ignorante affatto del vivere del mondo, mai non si era avvezzo a quella che, e in quei tempi ed in altri, era la prima e somma delle virtù, cioè chiudere coi padroni un occhio, e se occorra tutt’e due, chinare il capo, e dire di sì. Costui, avendo osato commentare quell’avvenimento e soggiungere che la non gli pareva farina netta, la sera seguente si trovò appoggiato un fiacco di mazzate, non sapeva da chi; solo ricordava che gli avevano detto essere questo un tientamente per lui e per gli altri villani, di non frugare troppo a fondo nel sacco de’ padroni.
Circostanza minuta, che però non volli lasciare nella penna, affinchè i lettori miei abbiano occasione di comprendere a loro pro, come con certa razza di gente, sia un torto l’aver ragione.
A don Alessandro, che poteva contare allora fra gli otto e i dieci anni, non restava che una confusa rimembranza di quel fatto; un temporale, un’aggressione, qualcuno che lo levò sotto il braccio, e turandogli la bocca, lo recò lontano, sotto un diluvio d’acqua, erano idee che gli soccorrevano alla rinfusa. Ricondotto poi a casa sua, si sovveniva gli erano state fatte molte interrogazioni, cui mal sapeva rispondere; e come tra quelle udiva sovente esclamare: Ah! non se ne può dubitare: ma è un cane troppo grosso».
Più oltre non lo ajutava la sua memoria, nè gli altri fatti per noi riferiti erano ad esso conosciuti. Perocchè, non avendo qui alcun prossimo parente, e d’altra parte bramando allontanarlo dal pericolo troppo vicino, lo chiamò presso di sè uno zio, monaco del più rinomato convento di Padova. Su quella Università in messo a studio, dove gli avevano insegnato il latino, il greco, e far versi, e quelle altre istituzioni così importanti al viver bene. Egli le apprendeva e se ne faceva onore; poi, come fanno tutti; le disimparava via via che a qualche cosa nuova era applicato. Per altro in quell’educazione più sciolta egli acquistò idee meno servili: nessuno rammentandogliene, dimenticò le nimistà ereditarie in sua famiglia: il ricordo d’una grave sventura patita in fanciullezza, i soprusi che più d’una volta avea dovuti tollerare dai camerata, orgogliosi nella protezione de’ nobili uomini di colà, avevano giovato a formargli, o, dirò più bene, a conservargli un animo, quale da bambini sortiamo, tutto aperto alla compassione per chi patisce, al dispetto verso chi soperchia, a quei dolci sentimenti che non istrappa se non una lunga serie di torti, fattici — dirò dalla fortuna per non offendere gli uomini.
Non istà qui tutta la virtù, lo so; ma ne è gran parte e gran segno.
I tutori suoi, bramosi di ravviare al più presto la casa, lo richiamarono che appena finiva i vent’anni e gli avevano già predisposta una moglie, nella cui scelta, sebbene avessero consultato tutt’altre convenienze che quelle che importano acciocchè due conjugi sieno un all’altro sostegno, consolazione, conforto; dovea però, per una vera fortuna, riuscire quel meglio che potesse desiderarsi, accoppiando ricchezze, beltà, squisito intendimento e quella soavità di carattere che tanto contribuisce alla felicità propria ed all’altrui.
Questa era la donna Emilia che conosciamo; colla quale erasi egli congiunto da poco più d’un mese; nè trà le beatitudini della luna di miele aveva egli cercato notizie de’ casi antichi di sua famiglia. Ove bene gli avess’egli conosciuti, sarebbesi dato a credere che tant’anni trascorsi, ed il cessare, non che le offese, ma quasi l’esistenza d’una delle parti, dovesse avervi posto sopra una pietra. La gioventù è confidente perchè buona, e perciò spesso o facilmente ciurmata. Come saprebbe essa immaginare e la diuturna e sottile atrocità, di cui pur troppo è capace il vendicativo? come nè tampoco supporre la natura di certi spiriti, de’ quali è un privilegio l’esecrare le persone senza conoscerle, è un dogma il voler male a quelli cui fecero male?
Pertanto, venuto don Alessandro alla campagna colla nuova sposa, eragli sorto in animo il desiderio di visitare i luoghi di quelle prime dolorose ricordanze, versare una lagrima sulla zolla ove sua madre avea versato il sangue.
Una sera a don Alfonso si presenta il guardacaccia. Quest’era un bresciano, pezzo d’uomo alto e membruto, fin dalla prima gioventù manesco, accattabrighe, coltellatore, che, sbandito dal suo paese con dieci o dodici omicidj sull’anima, e una grossa taglia sul capo, era entrato già da molti anni a’ servigi di don Alfonso, al quale faceva, secondo le occorrenze, da cacciatore, da bravo, da mezzano, da spia, da boja.
Questo arnese si presenta dunque al padrone, e gli riferisce come domattina il signor Sirtori passerà da quelle parti per condursi nel bosco d’Imbevera, non sapeva a che fare.
Tripudiò a tale notizia il feudatario, non altrimenti d’un bracco allorchè, vedendo il padrone pigliar fucile e carniera, s’accorge che deve uscire alla caccia. Tolto al tedio iracondo dalla fiducia di una imminente vendetta, quella notte non seppe l’Isacchi trovar requie; entrava, usciva senza ragione: stette lungo tempo passeggiando sopra un terrazzo; ma sebbene avesse in prospetto la pacifica amenità del Pian d’Erba illuminato dalla luna la quale dava un luccicare d’argento alle tranquille acque dei laghetti, non vi poneva egli mente; e colle braccia incrociate al petto e lo sguardo a terra, trascorreva pensoso, di tempo in tempo applaudiva a sè stesso, poi dava ordini, poi interrogava, poi tornava a starsi solo: — tanto irrequieto l’avea reso il veder presso al compimento un disegno anni de anni meditato.
Prima dell’alba fu in piedi, e comandato che tutto fosse lesto per la caccia, si rinchiuse nella propria camera; rimossa la tapezzeria, che mascherava un usciuolo a fior di muro, lo aperse; entrò in un gabinetto, e trattasi di seno una piccola chiave, fece con quella scattare un luchetto che teneva il catenaccio d’una ribalta ferrata; aprì questa, e con attenzione causando la soglia, fattosi qualche passo innanzi, gettò dentro un pane, che risonò sopra un pavimento profondo, e gridò giù: — Te’ miserabile. Oggi ti darò compagnia».
Ribattè la bottola, inanellò il paletto, tese ancora il parato e venuto in camera, gettossi sopra un inginocchiatojo, che stava nel vicoletto del letto, e fra il crocefisso e la piletta dell’acqua santa alzò il raso nero che velava un teschio posato sopra un bacile d’argento, e fissatolo un tratto come uomo meditabondo, cavò dal petto il medaglione d’oro, paterna memoria, che portava sospeso ad una catenella, ove era infilata insieme la chiavetta testè adoperata. Baciò l’effigie scolpita sulla medaglia, e recatasela fra le mani giunte così pregò.
— Beata vergine patrona mia! se mai esaudiste le preghiere di me povero peccatore, oggi ascoltatemi benigna. Datemi grazia di far buona caccia, sicchè io renda giustizia al mio progenitore, e liberi la promessa data al moribondo mio padre. Pur troppo mi posso rimproverare d’aver recato offese a voi ed al vostro divin figliuolo. Ma se oggi mi propiziate quel Dio che punisce la colpa dei padri fino alla terza generazione, voglio rimettermi a vita esemplare; se fui sempre divoto al vostro nome diverrò più ancora, e comincerò l’emendazione mia collo sciogliere il voto che già vi feci e che ora rinnovo. Sì, madre misericordiosissima, ajutatemi oggi e se dovessi imporre un pedaggio, se dovessi assaltar alla strada per trovarne il denaro, inalzerò un ricco tempio sopra la benedetta vostra immagine d’Imbevera.»
Ribaciò l’effigie, se la tornò in seno; preso quindi dal ginocchiatojo un uffiziuolo, ne sciolse le borchie d’argento, e volle tentare un modo d’oracolo, che egli soleva ne’ casi importanti, cioè aprirlo alla ventura; e dalle prime parole che gliene cadessero all’occhio argomentare del come gli succederebbe il suo pensiero.
Gli occorsero quelle d’un salmo penitenziale: Dominus de cœlo in terram adspexit, ut audiret gemitus compeditorum, ut solveret filios interemptorum; e, come sogliono i passionati oltraggiosi, ricordando le offese ricevute, non le recate, riconobbe il suo avo in quell’incatenato, se nel figlio dell’ucciso di cui qui si accenna; parvegli la profezia che più quadrasse colla domanda fatta in pensiero. Onde con effusione di gioja baciata una Madonnina su frontespizio del libretto, sorse pieno di confidenza. Sotto alla casacca di velluto affibbiossi un leggiero corsaletto di maglie d’acciajo flessibili; alla gorgiera, increspata a canoncini e fortemente insaldata, pose un rinforzo metallico; si legò alla cintola un eletto pugnale; calzò usatti da caccia; sul capo un caschetto senza piume, e scese. Tutto era a ordine. Monta un destro ginnetto spagnuolo; toglie sul guanto imbottito della sinistra il falcone, e tra un suono di corni, uno squittire e scodinzolore di bracchi e di segugi, si avvia.
Stavano in quella discorrendola il signor curato e il sindaco del paese; l’uno in nicchio a tre venti e spolverina, l’altro in maniche di camicia e gambe nude. Di quest’ultimo parmi avere già toccato; lo altro, don Amadio, passava per un dei valenti se ce n’era là intorno, famoso per gran pratica dei quaderni teologici e de’ casisti, e per una salva di testi che aveva sempre alla bocca. Nelle congregazioni plebane, ove, secondo i decreti del Concilio di Trento, osservati perchè ancor recenti, accoglievasi spesso il clero per decidere casi di coscienza, don Amadio era sempre lui che dava il tratto alla bilancia; e dopo aver lasciato un poco diguazzarsi i reverendi suoi confratelli pel sì e pel no, egli buttava fuori il suo oracolo, che troncando il nodo, li metteva tutti bravamente in sacco. Pel suo credito era stato anche fatto vicario foraneo, dignità di qualche conto allora, quando le curie emanavano da sè decreti ed encicliche, senza bisogno del regio visto; e tenevano tribunali, giudizj, prigioni. Vero è bene che il nostro curato non voleva sciuparsi con troppe brighe che lo distraessero dai prediletti suoi studj: e men voglioso di fare che di lasciar fare, anche nella parrocchia, dopo che le domeniche aveva pascolato le sue pecorelle con prediconi, distesi secondo tutti i precetti della retorica che era il suo forte, lasciava poi ad esse la cura di metterne in pratica gl’insegnamenti; se noi facevano, colpa loro; la sua coscienza era tranquillata. Uomo specchiato del resto, riverente ai signori, e sopratutto amante della pace e di quelle cose che si chiamano il buon ordine e il tranquillo vivere.
Sorseggiato la cioccolata, se la passeggiava egli giù giù, digerendo all’aria aperta, colle mani alle reni una nell’altra e fra le due la tabacchiera, mentre il sindaco, il quale sbocconcellando un tozzo di pan mescolo asciutto, colla zappa sulla spalla dirizzavasi ai campi, si veniva con lui rammaricando d’una nuova tassa, imposta dal feudatario, contro le antiche consuetudini, e detta del bollino, perchè faceva pagare a’ vinaj il bollo che metteva sulle mezzette del vino a minuto.
Il sere ascoltava quel rancore del sindaco, poi dando fuori in uno scroscio di riso che gli faceva traballare la pancia, tra l’offrirgli una presa di tabacco, gli diceva: — Eccoti alle solite antifone. Ma cotesto non è un cercar le noje col lanternino? Che importa a te s’egli mette una tassa nuova? Quando toccasse a te a pagarla, vorrei dire: ma chi ha da fare ci pensi. Sai che tu se’ curioso? Se tu cavassi frutto dalle mie prediche, non ti prenderesti no tante scese di capo. Bada a me, bada a me, che la so più lunga. Lascia andar l’acqua in giù, e lega l’asino dove vuole il padrone. Il mondo non è sempre andato di questo passo? Che? Vuoi tu ora ristampare il mondo?
— Sarà bene (soggiungeva il sindaco), sarà bene, perchè vossignoria legge tante storie, e deve saperlo: ma però codeste angherie una volta non si soffrivano, e quando godevamo la nostra libertà....
— Zitto là» l’interruppe don Amadio. «Che cosa, mi vai accattare qua il tempo che Berta filava? Ora è così, e così lascia stare, e dà mente a me, se non vuoi farti avere in tasca. Ecco me; io sono pure qualche cosa, e Domenedio, per sua grazia, non mi ha fatto una zucca. Eppure sto coi frati, e così me la campo d’amore e d’accordo con tutto il mondo. Oh questa è curiosa! Che i padroni operano da padroni sono forse cose che le si facciano da jeri? Che? Le dita della mano sono forse tutte eguali? Ti ricorda piuttosto che egli è l’illustrissimo don Alfonso, e tu, tu sei Isidoro pover uomo.
— Ma galantuomo» dava su il sindaco: e toccandosi la sua gabbanella di frustagno, — Vede, signor vicario? su questi stracci non c’è una macchia nè di sangue nè di lacrime; mentre sul broccato di qualchedun altro...»
Egli s’interruppe all’udire degli abbaj ed uno calpitare fragoroso, e poco stante vide don Alfonso svoltare la cantonata; onde, facendogli tanto di berretta, mogio mogio tirò di lungo. Ma il curato, coprendo una larga tonsura, con profondi saluti si avvicinò a riverire il feudatario. Cortesissimamente questi ricambiò, e — Ci onorerebbe vostra riverenza di sua compagnia alla caccia?»
Al nostro curato sarebbe parso di mancare ai convenevoli se coi superiori avesse parlato nel tono stesso che faceva colla marmaglia, e però, qualvolta gli occorresse di ragionare con essi, vestendo un tutt’altro uomo, lasciava da banda il favellare piano e alla ambrosiana, per isfoderare un gergo concettoso, fiorettato, e, come si dice, in punta di forchetta: nel che quella generazione, come sanno persino i barbieri, poneva il paragone dell’ingegno e dell’eloquenza. A quell’invito adunque — Oh illustrissimo (rispondeva), mercè i raggi che il sole della sua cortesia diffonde sulla valle de’ meriti miei, pajonmi le tenebre mie più chiare che non sono. Ma i canoni che, come vossignoria, m’insegna, debbono essere la nostra stella polare, mi diniegano d’accettare un favore, esibitomi così cortese e graziosamente. A venationibus, aucupiis, tabernis, choreis, lusibusque abstineant.
— Bene, bene» replicava l’altro. «Domani però si ricordi che, al solito, la posata è disposta per lei.
— Sarà un aggiungere un nuovo al cumulo degli obblighi che tengo scritti nell’archivio della memoria», rispondeva con nuove riverenze don Amadio, e guardandogli dietro mentre procedeva, esclamava: — Che buon signore!»
Il qual buon signore s’avviò per la strada che doveva tenere don Alessandro, mostrando esservi portato dal caso. Veniva questi a cavallo colla sposa, messo anch’egli in mezzo a quattro galuppi, senza cui, in virtù della pace dominante, non sarebbe andato attorno un gentiluomo, fosse pure di quei buoni. Come distinse l’altra comitiva, chiese egli da’ suoi uomini chi fossero. Questi non glielo celarono, e lasciarongli intendere esservi poco da fidarsi. Il giovane fece loro riflettere come l’Isacchi non conducesse che poca gente da caccia, senz’armi di offesa; e come d’altra parte si trovassero a tal punto, ove il mostrarsi insospettiti non gioverebbe allo scampo, e potrebbe far nascere di fatto il pericolo. Seguitò dunque la la via, solo raccomandando ai seguaci di tenersi all’erta, e non perderlo mai d’occhio per qual si fosse ragione.
Don Alfonso, come prima scôrse il Sirtori, brillò in modo, che il guardacaccia disse sommessamente ai camerata: — Ha l’occhio d’un astore quando ha veduto la starna». Venuti poi vicini, il feudatario si fece incontro all’altro, tutto amichevole è manieroso e — Qual buon vento conduce da queste bande il mio padrone e la gentilissima sua damina?
— Anzi il suo debole servitore» rispose il giovane, e vie più rassicurato dal cortese accoglimento, gli espose la ragione del pellegrinaggio.
— Oh non si dirà mai» replicò l’Isacchi «che una tal coppia abbia onorato di sua presenza la mia giurisdizione senza aggradire l’ospitalità che può ne suo castello, offerire un romito campagnuolo»,
E perchè don Alessandro se ne scusava allegando il bisogno d’essere al più presto di ritorno, — Già già (soggiungeva quegli con un ostentato sorriso) due sposi novelli si fanno rincrescere di passare una nottata sotto altro baldacchino. Certo però non vorranno farmi rifiuto di quel che posso sui due piedi offrir loro, una partita di caccia. Qui il mio guardiano ha notato la pesta di un porco selvatico e, se c’è, lo vogliamo scovare».
La caccia era passione così universale dei ricchi, l’esibizione vestiva tale aspetto di sincerità, che sarebbe parso un fallo a don Alessandro di non tenere l’invito. Presto dunque furono loro presentati spuntoni, balestre, falchi de’ meglio addestrati, e si misero alla caccia, finchè capitarono alla bettola di Cipriano, dove, se vi ricorda, gli abbiamo lasciati. Dalla quale mentre si partivano, don Alfonso misurò d’un occhio scrutatore i bravi di don Alessandro, i quali, col non discostarsi mai dal costui fianco, pareva gli guastassero il disegno: poi chinatoci all’orecchio del guardacaccia, gli susurrò: — Sarà tua cura avvinazzare gli uomini di costui».
Il bravaccio rispose inchinandosi: poi tornati al corso, riuscirono anch’essi vicino alla Madonnina d’Imbevera: — Ecco appunto il posto di quella mia disgrazia. Nel rimirare questi luoghi, vengo trovando nella mente certe idee smarrite, come quando si raffigura un amico della prima fanciullezza. Quel tabernacolo. oh lo riconosco. Guarda, Emilia. Qui era appoggiata la lettiga, giusto al piè di quella grand’albera. Veniva un’acqua a secchi. Io, per non udire, per non vedere i tuoni, i baleni quasi continui, acquattavo il capo in grembo a mia madre; ed ella, povera mamma! mi accarezzava, mi confortava. Quando a un tratto si odono delle moschettate, un dàgli dàgli, un allarme: sporgiamo il capo: ecco venire incontro... che guardature! Folti ciuffi, cascando dalla fronte, velavano ad essi tutta la faccia, che rischiarata ad ogni tanto dai lampi, somigliava veramente a quella di demonj. Farmi tuttora avergli sugli occhi, e forse, vedendoli, li ravviserei».
Il guardacaccia (e sapeva ben lui il perchè) voltava a dar degli ordini: donn’Emilia, compatendo allo sposo, non teneva gli occhi asciutti: il feudatario, bramoso di metter fine a quel discorso, — Oh via! (esclamò) la sua tenerezza le fa onore, ma ora siamo a divertirci. Bando alle melanconie. All’erta: lanciate i cani».
Diede fiato al corno, spronò, imboscossi, e dietro a lui si sparpagliarono tutti per la boscaglia.
In qual modo don Alfonso intendesse cogliere la preda, alla quale già vi siete accorti che mirava veramente, lo sapreste già, o lettori, se v’avessi detto come, fra le altre disposizioni date quella mattina, chiamò a sè il guardacaccia, ed ordinògli che mandasse tre bravi, conosciuti alla prova delle imprese più rilevanti, cioè delle più scellerate, e — Si collochino (diceva) colà al lembo della collina sullo stradello che dai mulini conduce alla Madonnina, rimpiattati dietro la macchia, e non si muovano. Tu ti terrai al mio fianco. Troveremo qualche ingegno di separare colui dalla sua brigata, e trarlo a quella parte. Quando io griderò A noi, essi balzino fuori: se v’è qualche servo, lo freddino: l’importanza è d’assicurarsi del padrone: se lo cogliamo vivo, tanto meglio; e portarlo senza più in castello». A questo comando, dato colla freddezza onde un ricco d’oggidì comanderebbe al cocchiere d’aggiogar i cavalli, con altrettanta freddezza il guardacaccia rispose; — Illustrissimo, ho inteso». E poi ch’ebbero accordato ogni cosa fra loro, e il padrone gli accennò che se n’andasse, quegli stette fermo guatandolo. L’intese don Alfonso, e ripigliò: — Avrete una lauta mancia.
— Grazie, illustrissimo» ripetè inchinandosi l’altro in cui andavano del pari la fierezza e l’ingordigia. «Però... per regolarmi cogli uomini... qualche cosa di preciso...
— Questo, e la paga d’un anno», rispose il feudatario, gettandogli una doppia nel cappello.
E l’altro strisciando gran riverenze, — Illustrissimo, mille grazie; perchè ella vede, i vizj sono molti.
— Non dubitare; fa che la cosa riesca a disegno.
— Illustrissimo, sarà servito da par suo».
I tre ben armati presero dunque il posto indicato, ed ivi dietro un veprajo stavano, chiaccherando, celiando, sbadigliando, ad aspettare la vittima. Non sapevano quale, non lo cercavano: basta che colui che li pagava lo aveva ordinato. Indifferenza che ci pare orribile vedendola in uno o due individui, e non ci tocca allorchè la troviamo in quattro o seicento mila combattenti, che aspettano un fiato di tromba, un batter di cassa per correre a scannarsi un l’altro, senza conoscersi, senza cercare il perchè, senza sapere altro se non che furono comandati.
L’Orso di Barzago intanto non avea la mira che a separar il giovane dalla compagnia; ma per la fedeltà dei servi poco sperando riuscirvi per allora, traccheggiava confidando ottenere il suo desiderio quando, coll’occasione della merenda, avesse ridotti questi ubbriachi. La fortuna però parve mandar tempo al proposito suo; poichè, essendosi la signora voluta mettere un tratto a riposare, don Alessandro, lasciando con essa i bravi, si lanciò sulle tracce d’una lepre insieme col feudatario, non seguito anch’esso che dal guardacaccia, il quale destramente li traeva verso il luogo dell’agguato. Già ne erano lontani non più che tre tiri di fucili, don Alessandro seguitando colla sicurezza e coll’ardore della gioventù, l’altro palpitando nel pensiero dell’imminente espiazione; quando repente odono di mezzo alle piante un gagnolare, un insultarsi, un gridìo. Don Alessandro si arrestò insospettito fissando gli sguardi in faccia all’Orso, poi diede volta verso il luogo nel quale aveva lasciato la sposa, temendo non le fosse accaduto alcun sinistro. Intanto il feudatario, ben accorgendosi di dove uscissero que’ gridi, sebbene non ne indovinasse il motivo, sbuffando d’ira spronò verso là donde veniva lo schiamazzo.
Cagione di questo era stato, che, mentre i bravi, come da noi si diceva, i buli rimanevano appostando la vittima, secondo v’ho narrato, un’altra di genere diverso vi rintoppò; la Brigita ostina, che, scortata dall’amorevole Cipriano, tornava a casa.
Era delle belle contadine che possono vedersi con un par d’occhi: sul fiore dei venti anni, una ricca capellatura nerissima raccolta in trecce contornava un viso gioviale e pienotto, dove le rose che costantemente vi dipingeva la sanità erano in quell’ora avvivate dal calore del mezzogiorno e dal camminare; come il contento di ritornare fra suoi cresceva l’allegrezza d’un cuor pacifico e buono. In vestire lindo e semplice, poco diverso da quello che si usa tuttavia fra le Brianzuole, con corsetto e sottanello di filaticcio e grembiule di vergato, sul braccio ignudo recavasi un paniere dov’erano riposti i pochi arnesi che seco aveva portati alla filanda. La cortesia del fratello non era tanto incivilita da alleviarla di quel peso; non gli cascò tampoco in mente: ma in quella vece, camminandole innanzi per l’angusto sentiero, tutto affetto egli la veniva interrogando dietro via dei casi suoi, le narrava i suoi e quei della famiglia e dei conoscenti, poi con aria d’ingenua intelligenza voltandosi a fare l’occhiolino, domandò: — E col giardiniere, di’ su, come va?»
Ella, divenendo ancor più incarnata, e con un sorriso di modesta bontà, non gli fece altra risposta, se non d’interrogarlo:». E la mia vite?
— Oh la tua vite! se tu sapessi che pericolo ha corso! È salva per miracolo.» Così Cipriano, il quale tolse di qui occasione per raccontarle la grande avventura della lepre, dello spavento, e in conseguenza del perchè le fosse venuto incontro. — Ma sta col cuor quieto (egli seguitava) che il rumore della caccia si sente là abbasso, molto lontano di qui».
Così discorrendola, i due buoni fratelli inciampicarono senza accorgersi fra i bravi, appostati alla macchia. Uno dei quali, come gli avvisò, — Ohe! ohe! (cominciò) guarda, camerata; vanno anche delle fiere domestiche per questo bosco.
— Che bella pollastra!» gridò il secondo balzando in piedi.
— Ah, ah! questo villano non si può dire che sia di cattiva bocca», soggiungeva il Guercio, sgangherando la bocca ad un riso sguajato.
Cipriano in quel momento avrebbe veduto più volentieri il diavolo. Gittò un’occhiata all’intorno: non v’era anima da sperarne ajuto; talchè, visto che era il caso di bevere o d’affogare, si voltò loro con una cera brava, gridando: — Però?.. m’avete mai visto?.. avete forse ad avere qualche cosa?» ed altre parole, che uno dice più fiero, quando ha più paura.
Ma coloro non erano musi da ristarsi per parole, e cogli sfacciati modi dei bravacci, s’accostavano alla ragazza, la quale, diventata di mille colori e trasudando, s’avvinghiava al braccio del fratello gridando: — Ajutami, Cipriano; ajutami».
Questi, poichè vide a nulla giovar le parole, montandogli il sangue al capo, cacciò fuori tanto d’occhi, e soffiando come una gatta quando sente la canizza, cominciò a girare a mulinello il suo bastone, mentre coll’altra mano brancò il coltellaccio gridando: — Indietro, malandrini, o vi mando tutti al Creatore.
— Oh, oh! costui fa di buono», ripigliò il Guercio: «ma come è così, neppur noi non si farà da baja». E se gli volsero incontro. Lo stradello correva stretto e insaccato fra due cigli assiepati di vepri, talchè non riusciva difficile a Cipriano lo schermirsi da tutti e tre, mentre alla sorella diceva: — Fuggi, scappa». Essa però ben comprendeva che il discostarsi non sarebbe che peggio; onde si teneva poco dietro di lui, che arretrando si difendeva.
Sbucarono così sul piazzuolo che girava davanti alla Madonnina. Coll’ansietà onde il fantolino, inseguito da un ringhioso cagnaccio, ricovera al grembo della madre, la Brigita corso al tabernacolo, prostrandosi ginocchioni. Colà pure tentò ripararsi Cipriano; ma non appena fu al largo, un di coloro gli tolse l’avvantaggio, sicchè egli rimase frammezzato. Non intendevano già ammazzarlo; non n’erano comandati: e s’erano messi a quella baruffa piuttosto per chiasso che altrimenti. Ma quando ne toccarono alcune saporite dal randello di quel gagliardo, che non sapeva prendere da celia gl’insulti tentati verso la sua buona sorella, non l’ebbero più da riso, e pieni di mal talento giurarono fargliela pagare. Batti dunque ch’io ti batto, uno contro tre, Cipriano si trovava nelle male peste.
Anche l’asilo del luogo sacro, ove la Brigita erasi ridotta, secondo le idee di que’ tristi proteggeva contro la violenza bensì, non contro la lascivia. Onde, nel mentre che due tenevano ciascuno per un braccio agguantato il fratello, il Guercio, che era fra essi il più laido d’animo come di figura, saltò verso la fanciulla a molestarla con parole scomposte e scomposti atti. La meschina accoccolatasi, raggricchiata, stretta stretta alla parete della Madonnina, colle braccia incrociate sul seno e la faccia tra quelle appiattata come poteva, gridava:
— Signore! ajuto! Cipriano... o Cipriano, soccorrimi!... Caro voi, lasciatemi stare... Vi prego, per vostra madre, per vostra sorella... No, no... per carità... sono una povera ragazza, abbiatemi compassione... state quieto... Oh cara Madonna!... Oh anime del purgatorio!.. vi dirò il rosario tutti i lunedì finchè campo... No, no... ajuto, ajuto!»
E Cipriano vedeva. Indarno procurava sviticchiarsi da coloro; pestava i piedi, imperversava, gagnolava, stiacciava come una civetta in collera, stralunava gli occhi al cielo, urlava — Sta cheto mostaccio da forca. Se ti posso arrivare! Guarda che t’ammazzo...»: e non poteva farne altro. Anzi i buli, mescendo giuraddii e sghignazzi, gli facevano tratto tratto sentire come pesassero le loro manaccie.
A questi strilli, a quel diavolezzo, accorse dapprima la canatteria che l’accrebbe, poi cacciatori da diverse bande, infine don Alfonso istesso. L’apparir suo nulla di bene prometteva a Cipriano: pure v’ha dei momenti, in cui è di consolazione anche un disastro, purchè ci tolga all’affannoso presente. Di fatti, appena il padrone comparve, i buli, tanto umili coi superiori quanto erano prepotenti cogli inferiori, lasciarono i due martiri, e cavate le berrette, si ritrassero insieme, coll’abjezione che nasce dall’abitudine della servilità. Cipriano, riposte anch’agli le sue armi e trattosi il cappello, stette ad occhi bassi, e per un istante si fece un silenzio cupo, siccome all’avvicinare del terremoto; finchè don Alfonso, fiottando e con piglio quanto più si poteva severo, gridò a quei tre: — Così s’adempiono i miei ordini, canaglia? Animo, al posto, e me ne renderete ragione».
Non pareva vero a Cipriano che l’Orso sgridasse i suoi uomini per una cattiva azione, e risorto da morte a vita, andava fra i denti raccappezzando un ringraziamento da recitargli. Ma come in chi abbia sorbite alquante stille di belladonna, alla dormigliosa vista si presentano gioconde figure, che a poco a poco si tramutano in mostruosi sembianti, alla guisa stessa il povero villano ebbe tutto a rimescolarsi, quando, alzati gli occhi, scôrse il torvo cipiglio del feudatario, che col tono istesso di minaccia, gli parlò: — E quanto a te, mascalzone petulante, che ardisci opporre la forza alla mia livrea, l’avrai da fare con me».
Cipriano intontito biascicava una risposta, una scusa, quando per trista giunta vide fissati sopra di sè i torti occhi del guardacaccia. Avrebbe allora voluto sobbissarsi, e voltava la faccia, stringevasi nelle spalle: ma invano; che quegli, fattosi più dappresso e battendogli una palmata sulla spalla, — Olà! (gridò) non m’inganno: tu sei uno di quelli che l’altra settimana andava ammazzando lepri pel bosco». Indi con uno sgrigno satanico replicando la battuta, — Ora t’ho côlto (proseguiva) e il tuo salario, come t’ho promesso, ti verrà prima del sabato».
Don Alfonso, già esacerbato dal colpo fallito, ora punto in parte così delicata, s’inviperì; e prorompendo in una salva d’improperj, che anche i nobili, negl’impeti loro, non isdegnano usurpare dalle bocche della plebaglia, da cui son tutto studio a discostarsi nei rimanente, — Come! (gridava) anche questo? violare la caccia bandita, ed ora resistere alla mia gente? Ah, questa passa il segno, e t’avvezzerò io. Intanto legatelo a codesto ramo, e dategli un pajo di strappate di corda, finchè nomini i compagni di sue ribalderie».
Cipriano stava chiotto, col capo basso, nella figura che sì spesso tocca, in questo bel mondo, all’offeso innocente davanti al potente oltraggiatore. Ma quando intese la parola di corda, si sentì sdrucciolare un gelo per le reni, e — Signore... Illustrissimo... La badi a me... Quanto alla sua livrea, da povero figliuolo, sono stati loro che mi assalirono, che maltrattarono mia sorella. Della lepre, le dirò la verità... Sì... ma... è vero... c’è una vite... Questa qui è mia sorella...»
Tali e somiglianti parole ciarfogliava, affoltava il povero Cipriano, ma invanamente; che l’impassibile crudeltà del barone sollecitava con uno sguardo i cacciatori, i quali, fatti manigoldi, si difilavano contro l’ostino. Come questi vide inutile la sommessione e il pregare, côlto il momento, spiccò un lancio, e ricoverossi in un batti baleno alla Madonnina, ove stava la Brigita pallida, tramortita, colle mani giunte e gli occhi supini, moltiplicando ave marie. Qui sentendosi sicure le spalle e protetto dal luogo sacrato, Cipriano, rifatto un cuor risoluto, calcossi in testa il cappello, ripigliò le armi sue plebee, ed in suon di rabbia, gridò: — Avanti chi gli basta il cuore».
Trarlo di là non avrebbero osato gli uomini: ma i cani, poco impacciandosi degli asili, aizzati scagliavansegli addosso, e non erano pochi. Egli rotava senza riguardo un randello, e a chi toccavano uomo bestia, erano sue onde un guaire, un ringhiare di cani, un fremere di bravi, lì tra gli ordini del padrone e la venerazione del sagrato; un bestemmiare ancor più sonoro di don Alfonso, che al vedere trattati a quel modo, non solo gli uomini, ma fin le sue bestie, dimenticando ogni rispetto, spronava il cavallo addosso al miserabile, giurando gliela farebbe scontare, se avesse dovuto strapparlo d’in su gli altari .
In quella apparivano sullo spianato istesso don Alessandro e la sposa sua, accorsi al rumore. Gettarono uno sguardo su questa scena; ma ciò che più diede nell’occhio al Sirtori furono i tre scherani che, ritiratisi al cenno del padrone, postati dietro una fratta allo sbocco dello stradello, sporgevano le luride facce, curiosi di vedere come finiva. La Brigita, rimasta coll’angoscia dell’agnella quando vede e sente il lupo vagolare ululando attorno al debole steccato che la protegge, appena avvisò la dama, balzò, ed a precipizio corse ad essa, gridandole colla concisione dello spavento: — Signora, la mi salvi; cara lei, mi salvi, per amor di Dio».
Non sapeva ella chi costei fosse: ma il cuore delle donne è sempre così dischiuso alla compassione, che l’apparir di una viene riguardato dagli infelici come una consolazione, una sicurezza. Donn’Emilia in fatto, dipinta di pietà, scese di cavallo, e colla simpatia che tutti inchina alla gioventù ed alla bellezza, ma che le donne non ricusano mai a persone del loro sesso, presa fra le braccia la bella sbigottita, con parole e più cogli sguardi commosse il marito ad assumerne le difese.
Veramente, allorchè si vedono in lotta il debole e il forte, non la carità cristiana, ma certo la prudenza umana insegna a pigliare la parte del secondo e giudicar reo e ribaldo il fiacco, se non altro perchè ardisce resistere. Ma la generosità della gioventù e la franchezza d’un’anima ben educata facevano don Alessandro inchinato alla parte del paziente; al che aggiungendosi il pregare della sposa e il sinistro concetto in che era tenuto il feudatario, non esitò a chiarirsi campione di que’ meschini. Colla maggior creanza di modi, venuto adunque allato a don Alfonso, — È lecito sapere qual sia la colpa di quegli sciagurati?»
La collera aveva già invaso l’animo dell’Orso al trovarsi impedito nella giustizia, com’egli ed altri chiamavano la vendetta: onde, a guisa di sparviero che vede la colomba abbandonare il sicuro nido, egli vibrò l’occhio sulla fanciulla quando si scostò dall’asilo, nè punto badando al Sirtori, con un sogghigno ove mescevasi il pensiero atroce col pensiero lascivo, — Ah! ah! (disse) ci sei venuta da te stessa, eh? Animo, cacciatori; essa pure è complice; pigliatela, e portatela dritto in castello».
Parve atto scortese e crudele al giovane cavaliere, prima il non rispondergli, ed ora il voler levare quella fanciulla dalle braccia d’una dama; onde, col morbido della voce mitigando un cotal poco la precisione delle parole, — Signore (esclamò) vorrei sperare che la cortesia e l’onestà di un cavaliere le fossero abbastanza conosciute».
Misurollo quell’altro con bieca guardatura, e — Conosco i miei doveri, nè occorre che altri venga a dar il tono in casa mia». Poi tornatosi ai cacciatori che esitavano. — Su via (intimò): a chi dico: obbedite».
La Brigita ascondeva la faccia in seno alla dama, gridando: — No, no, per carità.... per amor della Madonna.... mi ajuti: pregherò il Signore per lei tutti i giorni.... Poverina me! La mi ajuti, o piuttosto mi ammazzi». Cipriano, assediato nel suo asilo, non poteva che gridare, — La salvi, la salvi». — Salvala», diceva pure donn’Emilia, volgendosi al marito, bagnata di lagrime e resa più bella dalla pietà. Il Sirtori girò la briglia e, spinto il cavallo fra la donna e i rapitori, vibrando contro questi lo spuntone da caccia, intimò — Indietro».
Chi ha visto come il fuoco divampi al gettarvi dello spirito, pensi che altrettanto avvenisse di don Alfonso a quell’atto. L’odio represso fin là sotto la maschera della cortesia, ruppe nella collera più furibonda, e — Che?» gridava con parole ammezzate dal singhiozzo dell’ira. «Chi è tanto audace da frammischiarsi nella mia giurisdizione? Sono miei vassalli; hanno violato le mie leggi; chi si oppone è sleale al re. Indietro».
E difilatosi contro don Alessandro, gli pose la mano alla briglia del cavallo. Per quanto gravissimo fosse questo affronto secondo le idee d’allora, per quanto un cavaliero fosse dilicato nel punto d’onore ed anelasse l’occasione di mostrar valore ed ostentare maestria nel maneggio dell’armi, studio quasi unico de’ nobili, pure la differenza di età, la situazione, l’ospitalità che ne riceveva contennero don Alessandro, che quanto più seppe pacato gli diceva di rimando: — Qualunque altro, ed in qualunque altro luogo si pentirebbe tardi d’avere intaccato la lealtà d’un par mio. Qui però, se ben vedo, non si tratta di giustizia; nè conosco legge o costumanza al mondo, che permetta di rapire una ragazza e di violare un luogo consacrato. No, finchè io sappia tenere un’arma in mano non permetterò mai che, dove io sono, si commettano soperchierie».
— Soperchierie?» sclamò l’altro nel colmo della furia. «Anzi soperchieria fai tu, arrogante fanciullo, a pretendere ch’io ti renda ragione del mio operare. Tu hai smentite le mie parole come fossero quelle d’un villano: ti ricambio la mentita e ti chiamo codardo e sleale, e te lo sostegno con l’armi. Mettiti in parata, che mi sento cuore di farti provare come ferisca questa punta, che da un pezzo ha sete del tuo sangue».
Che il disegno dell’Isacchi fosse tutt’altro che di suscitare un alterco, abbastanza appare dalle precedenti disposizioni. Ma queste gli rimanevano scompigliate, sì dal trovarsi lontano dal posto dell’agguato, sì dall’avere intorno troppa gente per celare il fatto quanto fosse duopo alla impunità.
L’ammazzare, insegna la legge di natura e di Dio, è sempre delitto: l’ammazzare in duello, insegna il mondo, è non solo lecito, ma lodato da quel punto d’onore, virtù di parata, che può associarsi a tutti i vizj e fin colla codardia.
Don Alfonso dunque, vistosi presentare il destro di riuscire al suo intento con un duello, spinse la provocazione sino al punto di farla nascere, si perchè sitibondo più che mai di sangue in quell’impeto; sì perchè disprezzava un giovane, non ancor avvezzo ad affrontare la morte, i cui riguardi stessi interpretava per vigliaccheria. Anche a don Alessandro parve gli tornerebbe ormai a biasimo il ricusarsi: finì di determinarlo l’ultima frase, ove sonava una di quelle verità, che suo malgrado sfuggono all’uomo nella foga della passione. Onde balzar di cavallo, impugnare uno stilo abbindolato all’arcione, e mettersi in attitudine, fu un lampo. Altrettanto avea fatto il nemico: ma quel furore non gl’impedì che, nel brandire il pugnale, ne accostasse alla bocca il pome, imprimendovi colle labbra convulse un bacio sul nome di Maria, che v’era niellato: indi si venne ai fatti.
Al primo vederli così inaspettatamente alle contese, le donne si misero fra loro, procurando attutirli: ma vista vana ogni opera, si raccolsero a tabernacolo, e quivi gettatesi ginocchioni, avvicendavano preghiere. L’occhio però, che alzavano supplichevole a quella che andavano chiamando cara Madonna, volgevasi ogni tratto per fermarsi sui due pugnali, terribile arma, che di sopra al capo dei due combattenti sfavillavano d’un lampo ferale. In entrambe le donne un solo era il voto, ma mentre la villana restava quasi fuor di sè ad uno spettacolo tanto insolito, sul volto di donn’Emilia poteva, insieme all’angustia, notarsi una certa compiacenza al vedere il suo Alessandro mostrar coraggio e generosità, doti che sempre riescono gradite ad una dama, tanto più se le scorge in colui che è suo.
Il sèguito del feudatario erasi rannodato da una parte; rimpetto si erano collocati i bravi del Sirtori, che cogli sguardi cagneschi ricambiando i cagneschi sguardi degli altri, parevano dire, — Eccoci qua, per qualunque caso, a darvi buon conto di noi». Cipriano che, durante il diverbio, a guisa d’una macchina avea voltato la faccia e la bocca a quel dei due parlava, ora, colle spalle sempre volte al tabernacoletto, e rispondendo sopra pensiero alle orazioni delle preganti, non dispiccava mai l’occhio dai combattenti, e colle braccia e con tutta la persona ne secondava i colpi. Poco lontano il Guercio due altri bravi ustolavano e adocchiavano con ansietà; e si dicevano tra loro: — Sta a vedere che il padrone risparmia a noi la fatica di fargli festa.
— Mi pare piuttosto (soggiungeva il Guercio) che il giovane voglia risparmiare a noi la ramanzina o peggio, che il padrone ci ha promesso.
— Mi rincrescerebbe (aggiungeva il terzo) a restare senza salario».
Infatti apparve ben tosto come il giovane sull’altro prevalesse. L’Isacchi era il toro inferocito, che assale ad occhi chiusi; l’altro, più freddo e cauto, colla sinistra dietro il fianco, la destra sporta, l’occhio fisso all’arma dell’inimico, mentre con quieta destrezza ne schivava o schermiva i colpi, pareva andar ritenuto per non trargli mortalmente, nudrendo ancora quella speranza che conserva un onest’uomo, strascinato contro voglia ad un tal passo, quella d’uscirne con nessuno o poco sangue. Don Alfonso, non aspirando che ad uccidere l’inimico, gli cacciò una puntata di sotto in su, ma l’altro fu lesto a dargli un mezzo riverso sopra il braccio destro, al tempo stesso che gli voltò una punta al petto, piegando ad arte lo stilo in modo di scalfirlo appena. Con meraviglia però incontrava un ostacolo, e s’avvide del giaco onde il feudatario aveva difeso il petto. Poco mancò che questo accidente non gli costasse la vita: perocchè il nemico, intento al proprio vantaggio, colse quell’istante per drizzargli alla testa una stoccata, che fece gelare di spavento le donne spettatrici. Se non che il Sirtori, stomacato di simile slealtà, e vistosi la morte a un pelo, fu pronto a togliersi la botta sul filo dritte del pugnale, e nel parare istesso, spinto innanzi il piè manco, gli pigliò il braccio per di fuori in guise che d’un rovescio gli trafisse il collo.
Barcollò, cadde l’Isacchi: ma nello stramazzare gridò A noi, che era la parola concertata per l’assalto. All’intenderla, il guardacaccia a sbalzi lanciossi contro don Alessandro esclamando — Assassinio, Assassinio»; i tre in agguato sbucarono, sebbene con impeto minore: anche gli altri cacciatori parvero mettersi sulle offese. Cipriano, cedendo a quel primo moto che nei caratteri aperti previene la riflessione, era balzato dal suo asilo, sventolando il cappello e gridando a tutta gola: — Evviva! è morto; morto l’Orso»,
Che l’ammazzare un altro, quant’è glorioso, altrettanto sia piacevole, nol credo: ben so che, al vedersi davanti un essere che dianzi pensava, parlava, operava, e che ora, per opera sua, trovavasi vicino a diventare un pezzo di materia, pastura di vermi, il nostro don Alessandro rimase qualche tempo in un’attonitaggine, che sarebbe potuta riuscirgli funesta, giacchè lo lasciava esposto alla prima furia del guardacaccia. E questi gli si scagliava addosso; se non che Cipriano, pentitosi all’istante d’aver insultato un ucciso, e bramoso di riparare quella scappata, si precipitò attraverso ai passi dell’assalitore, mentre i buli del Sirtori tenevano testa agli altri, sinchè il loro signore rinvenuto dallo stupore, gridò a coloro in tono di comando: — Abbasso le armi».
Furono parole magiche. Il guardacaccia si arrestò, ed, o fosse l’abitudine di obbedire ai cenni signorili, la simpatia naturale e sovente disastrosa che pruova l’uomo per un esito fortunato, o l’irresolutezza che ben egli avverti nei camerata, i quali, vili come tutti gli arroganti, al mirar caduto colui che di sua ombra copriva le loro ribalderie, si mostravano più disposti a pensare ai casi proprj che a vendicare gli altrui, alzò la bocca dello schioppo guardò di traverso il ferito, scosse le spalle e gridatogli — Ben ti sta; n’hai fatte abbastanza», soggiunse ai compagni: — Seguitemi».
L’occhio di don Alfonso, che sopra di lui stava fissato, come lo vide dar volta, prese il luccicar cristallino e disperato di chi sente lo schianto del ramo cui s’era ghermito dirupando da una balza. De’ cacciatori, alcuni guardandosi in faccia e dicendo, — Qui la più sicura è andarsene fuori di ballo», col pretesto di correre chi pel chirurgo, chi pel prete, se la batterono per la campagna. Gli altri si drizzarono verso il castello col guardacaccia; che tra via discorrendola de’ fatti loro, diceva: — Sapete che? Il morto in sepoltura e il vivo all’osteria. Qui bisogna cercare salvezza e pagnotta per noi. In palazzo c’è degli zecchini a pala. Nemmeno il diavolo non ci tiene dall’andarci, e far bottino del bello e del buono. Quell’ammazzasette non verrà certo ad insultarci là dentro: ad ogni caso, per fare il bizzarro con noi vogliono essere altre barbe che la sua. I servitori che sono lassù n’avranno di grazio a tenerci il sacco; se no, sapete come si fa. Quanto a cotesti villanzoni, anime di Sambuco, da me ne fo stare un centinaio. Poi colle bolgie ben in assetto e i nostri tromboni sul braccio, ce n’infischiamo di mezzo mondo».
Gli altri ad applaudire alle costui trasonerie; e fra tali smargiassate seguitavano la strada, concertando futuri delitti.
Nel bosco frattanto, attorno a don Alfonso erasi fatto il solenne silenzio che succede presso a chi sta sull’orlo del sepolcro. Donn’Emilia aveva ammaniti dei pannolini per fasciare la ferita: il vincitore, proteso in sulle mani giunte e a capo chino, lo contemplava in atto e con parole di sentita compassione: Cipriano gli sorreggeva la vita perchè stesse meno a disagio: — quel Cipriano che testè aveva tremato al superbo cipiglio di lui, ora ne sorreggeva la cascante persona, alitandogli sulla fronte ed esclamando — Poveretto»; nel mentre che la Brigita col grembiule gli tergeva il gelato sudore, e venivagli dicendo: — Si ricordi del Signore: si raccomandi alla sua misericordia che è infinita: faccia l’atto di contrizione: rispanda col cuore alla Salve Regina che io reciterò».
Oh soperchiatori!
Ma don Alfonso, sentendosi venir meno la vita, accennò che lo portassero appiè del tabernacolo. Ivi, levando la mani e gli occhi ondeggianti nella vicina morte verso l’effigie divota, — Ho profanato (diceva con debole e stanca voce), ho profanato il vostro terreno colla violenza e col sangue... Perdonatemi!»
Era un richiamo delle antiche superstizioni, per cui più sentivasi rimorso dell’aver violato il sacro asilo, che non dell’assassinio tentato. E proseguiva: — Pure esaudite la mia ultima preghiera».
Si diede a cercarsi in petto, il che fu dagli astanti creduto in sulle prime quell’atto macchinale per cui i moribondi sembrano volersi aggavignare alle fuggenti cose del mondo. Si vide poi che ne traeva una medaglia ed una chiave, appese ad una catenella: baciò la medaglia e additandola, coll’anelante voce disse: — Questa offeritela alla Madonnina». Voltosi poi al Sirtori, e porgendogli la chiave, — Qui sotto... nel gabinetto dietro la tappezzeria della mia camera... vostra madre... Andate voi... voi stesso a liberarla». E dopo alquanto stringendogli la mano, — Voi stesso» ripetè. Protese le membra, boccheggiò; travolse le pupille, ne più si mosse.
Le donne diedero in un pianto: inginocchiati poi tutti recitarono il De profundis: indi i servi, recisi e rimondi dei rami, ne formarono una bara, sulla quale composto il defunto, si avviarono verso il castello. La Brigita e Cipriano, non sapendo finire di ringraziare la Madonna d’Imbevera e que’ buoni signori, tornarono a casa con quel misto di gioja e di sgomento che succede ad un grave pericolo sfuggito raccontando l’occorso, ma con tale ansietà e confusione che poco altro si comprendeva se non che l’Orso di Barzago era morto, morto come un santo.
La notizia non tardò a spargersi pel Comune. Stava il sindaco scegliendo le più mature pannocchie di grano turco dal suo camperello, quando arriva uno tutto trafelato e — V’ho a dire una nuova che rimarrete.
— Che cosa? è nato forse il vitello?» domandò Isidoro.
Altro che! È morto il padrone, l’Orso.
— Che?» saltò su il sindaco, lasciando cascare gli spigoni, e spalancando gli occhi, e Morto il padrone? Oh voi mi canzonate. Se l’ho visto io sta mattina, sano come un pesce.
— Tant’è: l’hanno ammazzato», rispondeva l’atro; «e sono addietro che lo portano in su, morto stecchito».
Intanto sopraggiungevano altri a confermare la notizia; onde Isidoro; fatto tanto di cuore, pianta lì sacco e gonnella, ed — Animo, figliuoli: qui bisogna correre, se mai fosse bisogno di noi». E toltosi in spalla il forcone, s’avvia più che di passo giù verso il bosco, e dietro altri ed altri, di mano in mano che ne incontrava, col badile, con mazzapicchi, con vomeri, con quel che prima capitava sotto le mani. Ma non andarono troppo, che il sindaco fermossi in sui due piedi, ed — Alto là, ragazzi. Don Alfonso non ha figliuoli, eh?
— Sicuro di no», risposero ad una voce.
— Dunque (replicò egli), noi ricuperiamo la libertà.
— La libertà? — La libertà?» ripeteano i villani, guardando un in viso dell’altro, come chi ode una parola che non intende: e si stringevano intorno ad Isidoro.
— Senza dubbio (seguitava egli), la libertà. Perchè, non avendo egli nè figliuoli nè cagnuoli, questo feudo ricasna al re, e noi torniamo ad essere liberi come eravamo prima dell’ottanta, cioè a non ubbedire se non al re, che Dio conservi. Queste cose io le so ben io, perchè è un pezzo che maneggio gli affari della comunità, sebbene sotto colui pesassi per un quattrino. Ma è finita questa vita da cani: ed ora, che vantaggio, ragazzi! che allegria! Se vi avranno a dar la corda, se avranno ad ammazzarvi, saranno i ministri del re, non i costui e...
— E non s’ha più a pagare?» saltò su un padre di sei figliuoli, a cui l’esattore aveva portato via il pajuolo, perchè non si trovava un filippo da dare pel testatico.
— Ma che idee!» ripigliava Isidoro, «Pagheremo sì; però i nostri bezzi non se li metterà in tasca costui, ma anderanno in Spagna, dove ci sono i dobbloni d’oro tanto fatti. Vivano i nostri privilegi! viva la libertà!
E scaraventava in aria il cappello; e gli altri facevano il somigliante, gridando — Viva la libertà», senza conoscere tampoco che cosa la si fosse, come è il solito della moltitudine e sovente di quelli che guidano la moltitune, benchè si diano a intendere di saperla tanto più lunga del povero Isidoro, e quel ch’è più, senza avere la probità, il disinteresse e le rette intenzioni di quel galantuomo di Brianzuolo.
A mezza l’erta incontrarono il convoglio. Il popolo si affollò intorno alla bara, quasi per accertarsi che veramente fosse morto, e vistolo proprio spacciato, se prima ne dissimulavano i veri delitti, ora ne mettevano fuori anche di falsi: que’ timorati, che a dirne male mentr’era forte avrebber creduto offendere Dio, tiravano giù a refe doppio ora che Dio l’aveva raggiunto: quei che più lo avevano piaggiato potente, più sfoggiavano la bravura del vile insultandolo caduto; scene non nuove a chi si ricorda di vent’anni fa. I più dabbene gli recitavano dei suffragi; ed il signor vicario, ch’era pur dovuto accorrere se mai fosse bisogno del suo ministero, esclamava — Intendete, figliuoli? imparate. Vidi impium superexaltatum et elevatimi super cedros Libani: transivi, et ecce non erat.
Il popolo non capì niente; pure dissero con suffragio universale: — Ha ragione; questo si chiama un parlare! Già è un pezzo che la bolliva. L’ho sempre detto anch’io che finirebbe così».
Ma la calca fattasi intorno ritardava don Alessandro, cui le ultime parole del moribondo avevano messo pensate di che cuore. L’ansietà d’un contadino, quando in agosto invocò un pezzo e un pezzo la pioggia sull’inaridita campagna, e che vede finalmente sorgere delle nubi, ma insieme farsi un tempaccio cupo, un cielo nero, con certi lampi lunghi, continui, certo brontolar sordo del tuono, onde tremante aspetta se sarà acqua che ristori o grandine che finisca di desolare, è uno scarso confronto con quella di don Alessandro. Si trattava di sapere se vivesse ancora una madre, cui tant’anni egli avea pianta per morta; se quello dev’essere il giorno più bello di sua vita, o se andasse a discoprire chi sa qual tremendo arcano, che inconsolabilmente lo desolasse. Non cessava dunque di gridare: — Avanti, avanti, figliuoli».
E questi poggiavano verso Barzago, ingrossando più sempre come un torrente in suo cammino, perchè non le donne, non i vecchi, non i fanciulli rimasero in casa: e come, allorchè fu ucciso il lupo di cui tutti tremavano, tutti accorrono a vederlo, a toccarlo, così facevasi là intorno una pressa, un sospingersi, un narrare, un minacciare. Giunti alla forca, la quale sorgeva, non inoperosa, sulla spianata del castello, a furia la distrussero, perchè era costume (allora) de’ sollevati d’abbattere ciò che loro dispiaceva del reggimento precedente, per dare al successivo la fatica di rifabbricarlo.
Nel castello era già prima entrato il guardacaccia cogli altri: ove raccoltisi intorno i famigli, annunziata la fine del padrone, e parte colle buone, parte colle brusche trattili dal suo parere, si accingeva a frugare la casa per trovare il denaro. Ben presto però intende da prima un sordo mormorio lontano, poi alte grida farsi più e più vicine; infine i villani tutti che ormai giungevano alla cima urlando, — Evviva! al castello! abbasso le torri! viva noi, morte ai padroni».
Un popolo, non fosse che il popolo di Barzago, non fosse armato che di ciottoli e di bastoni, mette paura a musi troppo più bravi che i bravi di don Alfonso. I quali, trovandosi circondati, nè vedendo a che la cosa riuscirebbe, ma persuasi che l’audacia raddoppia gli uomini, levarono il ponte, calarono le saracinesche, poi affacciati tra i merli spianando i fucili, intimarono — Indietro marmaglia».
E la marmaglia, che non se l’era aspettato, dava indietro. Ma il Sirtori, che a cavallo soprastava alla turba, fattosi innanzi, ed alzata contro i bravi la mano ignuda in segno di pace, — Quieti (diceva), quieti. Non fate male ad alcuno, e, parola di gentiluomo, neppure a voi non vi sarà fatto male. Potrete andare dove vi piace; vi pagherò i salarj scaduti: ma deh! lasciatemi entrare costà. Il fu vostro padrone, guardate, morendo mi diede questa chiave, e m’ingiunse che io stesso aprissi il gabinetto dietro la sua camera e che colà sta rinchiusa mia madre, la contessa Perego. Forse voi altri ne sapete Deh! vogliate al più presto lasciarmi vederla, salvarla. Non chiedo altro: non vi chiamerete certo scontenti di me».
Queste e simili parole diceva egli in aspetto di tanta compassione, che a molti circostanti s’imbambolavano gli occhi. Il guardacaccia, partecipe dei delitti del padrone, si ricordava benissimo come, anni fa nel bosco avesse rapita quella signora: sapeva d’averla portata in castello: ma quivi era scomparsa, nè quel che ne fosse avvenuto lo sapeva egli, nè l’aveva cercato, non essendo questo affar suo: la credeva anzi da un pezzo morta e sepolta. — Ma se (pensava egli), se la è viva tuttora, ed il padrone la conservò tanto tempo per finezza di vendetta, possibile ch’egli sia stato debole a segno da sventare in un sol punto l’opera di tanti anni?» Dal quale ragionamento venne a indurre che, questa fosse un’astuzia del signor Sirtori, o veramente il moribondo avesse affidata a questo la chiave perchè sotto a quella stesse chiuso il tesoro, che la popolare credenza supponeva essere riposto in ogni castello.
Approfittò dunque della smania di don Alessandro per conchiudere una specie di capitolazione. — Ella vede come due e due quattro che con questi uomini io posso tenere il castello per un mese: e intanto quell’altra se non è crepata, creperà. Pure, se tanto le preme d’entrare, io lascerò venire vossignoria co’ suoi uomini nel cortile: quando sarà dentro, tratteremo più preciso; ma prima, sulla fede sua mi prometta di lasciare andare me ed i miei camerata con tutto quello che avremo indosso, senza molestarci».
Per quanto al signore paresse degradarsi scendendo a condizioni con siffatta genìa, pure, struggendosi di venirne a capo, non esitò a rispondere: — Si, sì: prometto in faccia a Dio e a tutta questa brava gente».
Allora fu abbassato il ponte. I quattro bravi di don Alessandro precedettero: egli e la sposa, che mai non se gli partì dal fianco, tennero dietro a cavallo: ma fu impossibile impedire che alcuni dei galuppi più arditi, sguisciando fra le gambe dei cavalli, non entrassero nel cortile e dietro a loro tutto il popolo. I bravi, tolti in mezzo, per quanto urtassero e minacciassero, poco profittavano tra la folla e agevolmente avrebbero potuto restare uccisi. Ma il sindaco, al quale troppo sarebbe dispiaciuto il non potere in tutte le forme pigliar possesso del castello a nome del Comune, e che si ricordava in che modo taluno de’ suoi predecessori si fosse comportato in caso di sollevazione, andava gridando: — In nome della legge, all’ordine. Se sarà da ammazzare, aspettate che vi sia comandato». Il vicario, che, tanto contro sua natura, trovavasi strascinato in quel serra serra, a somiglianza d’un tordo presiccio che starnazza e ficca il capo fra le grettole della gabbia se mai possa distrigarsene, così lui, dimenticati i testi e le metafore, prendendo or questo or quello per la giubba diceva: — State buono state savio; altrimenti posso andare di mezzo anch’io che non ne ho nè colpa nè peccato».
Da tutto questo ajutati, i bravi si rannodarono e, rotto il folto della calca, guadagnarono la portella del palazzo, liberarono i mastini di guardia, raccolsero altro servidorame, abbarrarono l’ingresso e ripigliato il sopravvento, tornarono a scaraventare maledizioni e bestemmie, ad inarcar gli archibusi, a minacciare di mandar tutto a fuoco e sangue. Valse l’opera di don Alessandro, sicchè la gente tanto o quanto si ritrasse; il sindaco situò intorno alla porta una dozzina di suoi fidati, e allora il guardacaccia, tanto più coraggio mostrando (usanza di molti) quanto peggio la vedeva parata, e dell’ansietà del Sirtori valendosi per trovare e scampo e denaro, cominciò, quasi fosse lui il buono e il bello, a lamentarsi della promessa fallitagli, e alzar le pretensioni. — Ora che la va di picca, (gridava, battendo per terra il calcio del fucile) qui dentro non ci entrerà nè lei ne altro muso, finchè io sappia sparare una palla contro un temerario. Alle corte, per fare una parola sola, dia a me cotesta chiave. Io ho pratica della casa; andrò a vedere, a ricercare. Se no, la si tenga la sua curiosità finchè glielo dico io.»
Il guardacaccia poneva tutta l’importanza del fatto nell’aversi in mano quella chiave: perchè (discorreva col pensiero) o sotto di essa vi è il marsupio, e avrò fatto una buona giornata: o v’è la donna, e son a cavallo; essa mi servirà di statico per ottenere quel che voglio.
La raccomandazione però fatta da don Alfonso al Sirtori d’aprire egli stesso, tratteneva questo dal cederla, quantunque non potesse indovinarne il motivo. Si fece innanzi il sindaco, esibendosi, quale rappresentante del Comune, di entrare egli stesso alla ricerca; ma l’altro aveva messo i piedi al muro: onde, non volendo far sangue, dal che, oltre il male del prossimo, poteva venirgli anche una persecuzione dalla giustizia, don Alessandro s’indusse a ceder la chiave al guardacaccia, che, sognando mucchi d’oro, s’avviò con essa.
Non v’è entrato mai il capriccio, o lettori (poichè un uomo di mondo dee veder tutto, anche i delirj, anche le sciocchezze) di trovarvi là dove si cavano i numeri del lotto? Un ampio cortile pieno fitto di gente (plebe s’intende, perchè questa è il predestinato zimbello degl’inganni) rimbomba dello schiamazzo di mille voci, che suonano ognuna diversamente, ma tutte sul motivo stesso, cioè i numeri giocati. Uno gli ebbe dal tale, ammesso ai segreti della fortuna, l’altro li tirò da un sogno, chiaro come il sole; un terzo li almanaccò addosso al poverino che fu impiccato sta settimana; quella comare ha messo la polizzina nelle occhiaje d’un teschio, e la notte sognò fuoco; narrano, ascoltano, consultano: in volto a tutti leggi l’ansietà. Nè a torto. Si tratta che alcuni non hanno fatto colazione per serbar i cinquanta centesimi da mettervi su; si tratta che quest’altro picchiò sua moglie perchè, invece di dargli i quattrini, voleva con essi comprare una libbra di pan cruschetto da sfamare i puttini; si tratta che quella donnina è venuta ad una parziale transazione colla severità di sua virtù. E forse di lì ad un momento sentiranno gridare due, tre numeri, di quelli appunto scritti nel loro polizzino; e per trenta o quaranta scudi che di giovedì in giovedì buttarono a minuto nel bugiardo botteghino, andranno contenti come pasque, a riscuoterne tre, quattro, fors’anche venticinque uno sopra l’altro, gridandosi fortunati, e pagando da bere a tutti gli amici: già impromettono, già fanno i più begli assegnamenti su quei denari. Ma allorchè compajono sul palco quei signori a far con tanta serietà un giuoco, con tanta onestà uno scrocco; quando l’innocenza mette la destra nel bossolo dell’illusione; più non s’intende uno zitto: cheti come pesci, tengono il respiro: le bocche, gli occhi stanno incantati verso il palco, verso l’urna, verso l’orfanello.
Questa similitudine, che senza sconcio si sarebbe potuta ommettere o almeno scorciare, vaglia a farvi intendere quel che succedeva nel cortile del castello di Barzago. Al frastuono di prima era succeduto il curioso silenzio dell’aspettazione: fissi gli occhi, proteso il mento, levati sulle punte dei piedi, stavano i villici attenti alla porta per cui era entrato il guardacaccia, figurandosi ad ora ad ora vederlo ricomparite... con lui una donna; e qui la fantasia di ciascuno sbizzariva, immaginandola o pallida estenuata come Lazzaro quatriduano, ovvero ancor bella fresca, raggiante, per uno dei tanti miracoli, sparsi intorno dall’ignoranza, dai cantastorie e dai frati.
Quando improvviso rompe quel silenzio un fragore come di fulmine: tremò il castello: cento teste fecer civetta fra lo spalle, cento bocche si spalancarono ad un ah di meraviglia, di sgomento: poi al grave odore di solfo, ai densi volumi di fumo che sbucavano da una finestra, le donne e i più timidi cominciarono ad esclamare: — il diavolo, il diavolo! è venuto a portar via il padrone ed i suoi bravi».
Tanto abituali e radicate erano queste ubbie, che non solo cacciarono il più de’ circostanti in dirotta fuga, ma fecero impallidire gli stessi più sicuri: e quei bravi che le tante volte aveano sfidata viso a viso la morte, ora dinanzi ad un potere invisibile presi da panico terrore, gettarono le armi gridando: — Perdono! misericordia!» Nè meno sbalorditi rimasero il vicario, il sindaco, e, a malgrado del sangue generoso, anche don Alessandro. Questi però fu il primo a ripigliarsi, e tolta ornai ogni resistenza, si mosse diviato per riconoscere l’accaduto. Il vulgo non dubitate che più varcasse la soglia, da che la idea del diavolo la custodiva. Il vicario, per poca volontà che se ne sentisse, non potè rifiutarsi all’invito fattogli di entrare scongiurando: e fioco siccome avesse veduto il lupo, trinciando benedizioni che l’una non aspettava l’altra, ripeteva esorcismi e oremus cui donna Emilia rispondeva. Seguitavano i servitori, girando gli occhi pieni di sospetto, e colle armi inarcate quasi avessero intenzione d’ammazzare lo spirito maligno: dietro a tutti veniva il sindaco, con tremula voce dicendo come un giornalista: — Coraggio, innanzi».
Così s’avviano alla camera di don Alfonso. Ogni cosa era ingombra di fumo: ma l’usciuolo dietro alla tappezzeria era aperto: passano nel gabinetto... che spettacolo! Il guardacaccia sfracellato giaceva in un lago di sangue, attraverso alla portella, il cui soliare era stato spezzato e scagliatogli incontro da una specie di macchina infernale sott’esso coperta e a cui l’ingordo avea dato inavvedutamente lo scatto. Il giovane signore lanciossi dentro la portellina, e al lume delle fiaccole portategli dietro da due uomini si calò per uno scaletto angusto, erto, disuguale, scarpellato nel macigno; mentre il sindaco di stando in cima, veniva dicendo: — non la abbia paura: ad ogni modo siamo qui noi. È giù?»
Il Sirtori, disceso molti scaglioni, trovato alfine il pavimento, ecco vi scorge disteso qualche cosa di nero: — Dio, Dio! che palpiti al cuore d’un figlio! Accosta il lume: è una donna. Non la conosce: ma le parole del moribondo, ma una voce interna non gli lasciano dubitare chi ella sia. Ma ohimè! non si muove, non sente, non risponde alle parole di lui, che va gridandole — Madre, madre». Se la leva in dosso, e su.
Pallido, sudato, coi capelli irti sulla fronte, rischiarato dietro dalle fiaccole, adombrato avanti dalla fumea non ben dissipata, quando ricomparve nel gabinetto recandosi sulle spalle quella infelice, che spenzolava come cosa morta, il sindaco diede indietro: il curato raddoppiò gli scongiuri: la sposa se gli gettò incontro, e sollevando il capo cascante della meschina, lo bagnava di lagrime dirotte La posero a letto, la scaldarono, la soccorsero; non era morta. In quel corpo, già estenuato da lunghi patimenti, il colpo rimbombato più fortemente nel sotterraneo, aveva sospesa non troncata la vita. L’impressione dell’aria e della luce, il calore, le assidue cure del figliuolo e della nuora, richiamarono i sensi smarriti: il cuore tornò a battere, il sangue a rifluire per le vene: tutta alfine si risentì, guardò intorno... Più non era la fetente oscurità, la desolata solitudine della sua tomba; rivedeva il sole, rivedea visi umani, ed un giovane, che premendo il volto contro il volto di lei, andava ripetendo: — madre, madre! sono Alessandro; sono il vostro figliuolo».
Lettor mio, non fosti tu mai in prigione? Dunque non hai gustato qual gioja sia il tornare da quelle angustie alla libertà, all’aria aperta, all’uso del proprio volere; dagli ozj penosi all’opere; dall’incompassione, dalle beffe, dal sospetto, all’abbraccio de’ suoi fidati, al colloquio sincero e spensierato, alla pietà, all’onore, al credere, all’esser creduto, al riconosce! e ancora l’uomo e la sua dignità. Pure a questa consolazione generalmente non si arriva che dopo gustati, giorno per giorno, minuto per minuto, gli ineffabili spasimi della speranza.
Ma per la signora Perego il balzare dall’eccesso delle angosce all’eccesso della gioja era istantaneo. Addormentatasi in un terribile sogno, si svegliava al colmo della letizia. Da sì lungo tempo non vedeva altra luce che la fioca di un altissimo pertugio: da sì lungo tempo non udiva che qualche insulto scagliatole dall’Orso, insieme col pane: da si lungo tempo non diceva altre parole se non la preghiera che inalzava con fede a quel Dio, che sa tramutare in esultanza il dolore quando sembra più disperato.
Ripreso quindi il vigore, essa potè narrare come dal bosco d’Imbevera fosse stata rapita a quel castello: i primi giorni fu tenuta in cortesia; ma perchè costantemente resistette a minaccie e lusinghe dell’osceno che le aveva trucidato lo sposo, egli, convertito l’amore in odio mortale, ingiuriata di mille scorni, l’aveva sepolta in quel sotterreno, dove non sapea dir quanto tempo, giacchè nulla numerava la monotonia de’ suoi giorni, ma certo anni ed anni era vissuta, desiderando, invocando la morte, nè da alcuna consolazione confortata, se non dall’avere, tra gl’impeti della collera del feudatari», compreso come di mano gli fosse scampato almeno il diletto suo Alessandro. All’intenderla, il vicario impietosito diceva: — Affè, vossignoria può cantare col redivivo Giona: De centre inferi clamavi, et exaudisti, Domine vocem meam». Il figliuolo piangeva dirotto, ad ora ad ora esclamando, — madre mia, mia cara madre, quanto patire!»
— Sì» rispondeva ella; «sì, ho patito e quanto! Ma l’innocente che geme sotto la prepotenza ha un conforto inesauribile ove si volga al Signore. Io lo pregava di cuore; io pregava la beata Vergine dei dolori, che fu madre anch’essa, che essa pure ha perduto un figlio per l’iniquità degli uomini; pregavo non perchè finissero i miei tormenti, che nè tampoco lo speravo, ma per ottenere pazienza, ed allora sentivo mitigarmisi gli affanni».
Più minuto osservando, si conobbe come il sotterraneo rispondesse appunto sotto al letto del feudatario, che conservando viva la sua vittima, avea voluto sorsi a sorsi assaporare la voluttà della vendetta. Tenere in catena il suo nemico; sapere quel che ad ogni istante egli patisce; contarne, sto per dire, i gemiti uno ad uno, e questo nemico non avere altra cagione d’abborrirlo se non le ingiurie recategli, è squisitezza di piacere che voi non conoscete, non conoscerete mai, anime umane, e che solo alle sue privilegiate riserba il demonio.
Sull’usciuolo di quel sepolcro era delineato il teschio racchiuso nella gabbia, affinchè l’aspetto di quello condisse la vendetta, che là entro se ne stillava. Il Sirtori, esaminando la soglia, fece notare gl’ingegni, disposti in modo che dovesse dare il volo alla polvere sott’essa adunata chi vi entrava senza le precauzioni, note forse soltanto a colui che l’avea preparata. Il sindaco, che, per fare il dover suo, osservava ogni cosa finamente, non sapeva intendervi, e diceva: — Questa non si può dubitare è una mina. Ma come qui? e perchè?»
— Era un colpo di riserva» rispose, don Alessandro.
— E per chi preparato?...» addimandò la sposa, e impallidì. Il Sirtori impallidì anch’esso, e guardandola tacque.
Era quella, disposta pel caso d’una disgrazia, affine di trucidare chi tentasse di liberare la rinchiusa? col disegno di condurre colà il figliuolo, e quando la madre corresse nelle braccia di lui, spalancare una voragine di fuoco di mezzo ai loro amplessi?
Chi può asserirlo? Molte, sottili, avvilluppate sono le strade della perversità, più che l’uomo onesto non sappia indovinarle. Troppo però manifesto appariva il perchè tanto stesse a cuore a don Alfonso che il giovane aprisse egli medesimo, confidando così, almeno dopo morte, coronare la vendetta, che aveva meditato per tutta la vita. L’ingordigia dell’oro aveva strascinato invece quel miserabile ad attirare sopra sè stesso il colpo che dall’innocenza sviava Colui, la cui mano anche in questa vita fa talvolta piegare a favore della giustizia la bilancia degli eventi, preponderante per l’ordinario a favore degli scellerati.
Il curato pensò a seppellire i due morti, coi riti che non rifiuta la Chiesa, la quale, confidata nella misericordia di un Dio che per un sospiro condona una vita intera di scelleraggine, rimuove l’insulto dall’uomo che sta dinanzi al giudice vero. Il fatto andò tra il popolo, rimpastato in cento guise diverse, tutte qual più qual meno lontane dal vero: ma dove gran parte aveva il diavolo, che, dicevano, non avendo potuto ghermire il padrone perchè morto in luogo sacro, erasi portato in carne ed ossa il ribaldo servitore. Che se no domandavano il vero al sindaco egli raccontava di buona voglia, ma quando si veniva a quello scoppio, sul quale le sue congetture non si potevano mai chiarire abbastanza, rispondeva come un professore: — Cosa volete mai sapere voi altri ignoranti?»
Poichè non è a dire quanto il buon uomo andasse in gloria, sì per quella poca autorità che trovavasi avere ricuperato, sì perchè l’amor suo proprio era lusingato dal vedere come non fossero stati vani i suoi sospetti al tempo che avvenne l’aggressione della contessa madre, sospetti che lo avrebbero condotto alla scoperta del vero se non fosse stata quella bastonatura, di cui, ricordandosi, crollava ancora le spalle. — Già (diceva) a questo mondo chi pensa male pensa bene, e al figlio di mio padre non è così facile il mostrar bianco per nero. Basta! ha finito colui di rubarci, di farci battere ed ammazzare come fosse lui il re. Ora staremo da papi, e baronate di questa stampa non ne succederanno più, più». Così diceva colla sicurezza con cui la gente, al cadere d’un cattivo padrone, allo scappolare da un grosso fastidio, si promette mari e monti, e non s’accorge come l’unico bene che ne trarrà, sarà la breve gioja del tempo che corre fra il sorgere della speranza e il vederla delusa. Così il fantolino tripudia e si ringalluzza nel mentre che la balia sta allestendo le fasce da imprigionarlo di nuovo e più bene.
Ma perchè turbare con sinistri presagi una di quelle consolazioni che arrivano sì di rado? Lasciamoli dunque fare, e come avessero toccato il cielo col dito, scialarsi, dar nelle campane, coi falò annunziare il fausto evento a tutto il vicinato. Al domani i signori vollero tornare a vedere il luogo di antichi pericoli e di recenti.
Cadeva il giorno sacro alla natività di Maria: un lietissimo sole, irradiando l’azzurra volta senza nubi e penetrando quasi furtivo tra le dense chiome dei castani, temperava nel bosco il più amabile rezzo, al mite soffio de’ venticelli onde respira la stagione facendo passaggio dal polveroso agosto al mese della vendemmia, — bello da per tutto, più bello sui poggi della mia Brianza. Una folla di paesani trasse dietro alla lettiga ed ai cavalli da cui erano portati don Alessandro e le signore. V’accorsero molti che prima stavano riposti per isgomenti di quegli spauracchi; ragazze che non poteano salvarsi dai colui bracconi se non tenendosi rimpiattale, giovinotti bizzarri, che non sapendo chinarsi e mandar giù, erano dovuti rifuggirsi ne’ paesi vicini: corsero quelli che ieri aveano mostrato coraggio: quei che s’erano schivati del pericolo corsero del pari ed anche meglio al trionfo. Non occorre dirvi che il sindaco, tutto raffusolato, si trovò, là per conservare il buon ordine.
Come la comitiva passò dalla bettola, Cipriano, la Brigita, padre e madre furono incontro ai signori con un mondo d’inchini e un tripudio di ringraziamenti. — Buon dì, signorie! (esclamava Cipriano) entrino e s’accomodino. Non gli aspettavo che loro. La merenda che jeri aveva ordinata quell’altro è bell’e pronta, ed io la servirò oggi di miglior cuore a loro, e insieme un balsamo d’un vinettino che salta agli occhi, e che il simile non lo bevono nemmeno a casa loro... Cioè... volevo dire...
— Capisco, capisco», l’interruppe sorridendo don Alessandro.» Ma la merenda e quanto può somministrarci la tua dispensa portalo colà davanti alla cappelletta d’Imbevera, e dopo che avremo ringraziato la Madonna, la distribuirai a questa buona gente».
Alla Madonna di fatto si condussero: il signor curato ribenedisse il terreno, disacrato dal sangue e tutto il popolo vi si prostrò, rispondendo alle preghiere che con edificante pietà recitava donn’Emilia al cui fianco stavano inginnocchiate la Brigita e la madre rediviva. Sorti poi, si sparsero a gruppi pel pianerotto e nel bosco, a contare, a domandare a designare i luoghi. Di Cipriano non vi dico altro. Era divenuto due dita più alto; e mentre cocessero le vivande, sbracciavasi come un telegrafo narrando il primo atto in cui era stato tanto personaggio: poi nell’udire il successo della storia, trasecolava; batteva l’anca esclamando: — Oh!... Se ci fossi stato io!... ma chi poteva indovinarlo?» Come poi intese la fine del guardacaccia, — Che? (disse) anche lui? fanne e fanne, s’è dato la zappa sui piedi. Credeva lui che fosse arrivato il sabato mio: ma il sabato non arriva soltanto per noi poveretti».
Il sindaco andava cercando sottilmente la verità de caso, per estendere esatta la informazione a chi di dovere. Il signor vicario diceva: — Ecco: io come io, ho perduto un desinarello tutte le feste e de’ bei straordinari, ma tanto tanto ne sono contento, perchè vedo contenti voi altri, che siete le mie pecorelle. E diciamola, che tanto è morto: avete cento sacchi di ragione. Peccato però ch’io non sia giunto in tempo, che, oltre il resto, gli avrei, pulcriter, cum bonis modis, rammentato quel che tante volte m’aveva promesso, di volere qui fabbricare una chiesa e mettervi un cappellano. Oh! un cappellano ad nutum del parroco pro tempore di Barzago, sarebbe un ajuto di costa.
— Ma la chiesa (soggiungeva il sindaco) non si potrebbe farla ugualmente?
— Cum quibus?» domandava il curato, fregando tra loro i polpastrelli dell’indice e del pollice.
E Isidoro, accarezzandosi colle dita stesse il labbro inferiore, guardando la terra e dimenando un pocolino il capo siccome un poeta che cerca la rima, replicava:
— Vedo quel che vuol dire. Ma ecco; in paese siamo novecencinquantatre anime: se dessimo, puta caso, una lira per testa...
— Ah, miserie», interrompeva il parroco. «Non bastano manco per la sacristia.
— Oh, se consiste solamente in questo, io ne dò quattro e patiscano gli eredi», Cosi, facendo saltare sulla palma della mano quattro berlinghe, parlava Cipriano, il quale calcolava sul maggior concorso che la divozione trarrebbe alla sua osteria.
— Ed io (ripigliava il reverendo) raccomanderò a cosa caldamente dal pulpito.
— No, no», interruppe la contessa madre, la quale ora sopraggiunta in mezzo a tali discorsi. «La grazia l’ho ricevuta specialmente io, ed io è ben giusto ne ringrazii la madonna. La chiesa si farà, e voi, sindaco, poichè vi dimostrate così ben disposto, l’impegno per soprantendere al lavoro».
Il sindaco che, al sentirsi diretta la parola da una dama, erasi allungato d’un palmo, faceva scappellate e inchini da settanta gradi, esclamando: — Troppo onore; tutta bontà dell’eccellenza sua».
Qui il curato soggiungeva: — Anche il cappellano, illustrissima?» Ma l’illustrissima non udì, credo in grazia del bacano che faceva l’ostino, annunziando alla gente una tale risoluzione. Poi, secondo gli ordini, cominciò questi a servire vino e mangiari, e, tutto brio e ilarità, contava e ricontava fitto fitto la ventura, la quale (come pur troppo facilmente i lettori nostri ne converranno) nulla avea d’interessante se non l’esser vera. Anche suo padre davasi attorno tutto traffico, snocciolando sentenze, e dando ragione all’ultimo che avea parlato. La madre pure, la quale, vistone gli effetti non sapeva disapprovare il coraggio di suo figliuolo se dapprima credeva che la legge di Dio vietasse fino di conoscere i torti recati dai padroni, ora, adattando la sua morale all’esito delle cose, colla solita cera quaresimale veniva ripetendo. — Domenedio non distingue il raso dal frustagno: tardi o tosto egli arriva i cattivi, comunque abbiano nome».
Tutto insomma era lieto di così schietta allegria, che fino i signori, ma sovratutto la vivace sposina, pareva si struggessero di mescolarsi alla turba, festiva: se non ne fossero stati rattenuti dalle imprescindibili leggi del decoro. Sopra un rialto protetto da un noce annoso, che il vicario assomigliava al fico di Mambre, tenevansi dunque in disparte i due sposi, la madre, che, come succede nei rapidi passaggi dal male al bene, sentivasi impedito il cuore e la lingua, e don Amadio, al quale vi so dir io che tal compagnia serviva (per usare un modo suo) di manovella a montargli la macchina dell’ingegno e fargliene pronunziare delle squisite ed allambiccate. Stava con essi la Brigita, e tratto tratto anche Cipriano, poichè la gratitudine onde questi erano avvinti non lasciava temere che abusando dell’affabilità, scemassero quella distinzione dei ceti che anche dai buoni credevasi la più importante molla del vivere sociale. Quivi godeano insieme riandando il passato, a quel modo che la mattina si rincorre un sogno pauroso della notte colla consolazione di sapere che non fu che un sogno.
Così speso quel mezzo di e fatto sera, tornarono i terrieri al paese, i signori al loro palazzo. Subito il contorno fu pieno di quell’impresa; alla città formò parecchi giorni il trattenimento de’ crocchi e delle veglie.
Erano allora moltissimi in Milano i gentiluomini, che, avendo per le politiche vicende perduta l’occasione d’uccidere i nemici della nazione, esercitavano i rimasugli del valore italiano con quelle vendette che la religione proibisce e l’onore comanda, mettendosi al caso d’accoppare o di farsaccoppare secondo le ragioni di un’arte, la quale (o m’inganno) non è la migliore che gl’Italiani insegnassero agli stranieri. Costoro dunque, contentissimi di trovare un caso sul quale sfoggiare le teoriche loro, si divertirono di rimbobolare il fatto del bosco d’Imbevera colle circostanze che meglio tornavano al proposito per farlo credere un vero e formale duello, contando per filo e per segno tutti i mandritti, i riversi, le parate, e via via come fossero stati presenti, sebben ognuno li narrasse diversamente; accordandosi poi tutti (e l’esito lo faceva chiarissimo) a renderne onore a don Alessandro. Il quale per tal guisa andò, così giovane, colmo di gloria, giacchè è gloria, come s’è avvisato di sopra, ammazzare uno secondo le forme. E Cesare Trombone, quel famigerato maestro d’armi che ognun sa, e che ancora aspetta una statua dai moderni spadaccini milanesi, predissegli che diverrebbe uno dei più famosi matadori. Ma come altre profezie di benevoli e di malevoli, così questa non tolse che il Sirtori conservasse cuor sincero e benevolo, rettitudine di anima, ingenuità di carattere.
Quando si vide che e’ non riusciva nulla meglio che un galantuomo, a malgrado di quella prima impresa rientrò nell’oscurità, e più non andò per le bocche degli uomini: giacchè i virtuosi (salvo quei da teatro) pochi si curano di conoscerli, e quei pochi si astengono dal parlarne e più dal lodarli; credo per quel dogma di prudenza che insegna a non propalare i tesori che si possedono.
L’autorità, se non fosse altro, per la relazione del sindaco Isidoro, venne in cognizione del caso ma avrebbe avuto un bel da fare se ella avesse preteso impacciarsi di tutti gli ammazzamenti che succedevano. Era anche troppo che adoperasse la sua politica a conservare quella bellezza di pace al popolo contento, la sua giustizia a sterminare le streghe e gli eretici, che il Sant’Uffizio, raccomandando clemenza e misericordia, rimetteva al braccio laico da bruciare. Ond’è che di questo fatto, non essendovi chi ne sollecitasse l’esame, non si ricercò se fosse un caso d’onore od un assassinio; e morì sul tavolino d’un assessore, e fu sepolto in un archivio dove i sorci prevennero le ricerche degli eruditi.
Ma il luogo ove s’è patita una sventura, corso un pericolo, è pur giocondo a rimirarsi a chi ne campò! Ho veduto più d’un navigante starsi delle mezz’ore fisso al mare, contemplando con certa quale compiacenza le onde, che, per due o tre giorni di seguente, gli erano ruggite d’intorno. So di chi, uscito da un triste luogo, dove gli toccò fare lunga e non ispontanea dimora, molte volte ritorna a guardare a considerare con un fremito involontario quelle mura, ove passò tanti giorni ansiosi, tante notti palpitanti, e tirare il fiato, ed esclamare: — L’ho scampata bella».
Anche la famiglia de’ Sirtori trovandosi alla villeggiatura l’anno seguente, volle nel giorno stesso ritornare al bosco. I paesani, che n’avevano avuto sentore, trassero colà in folla, ricordevoli di quell’avvenimento e di quel rinfresco. Come discesero laggiù, la Brigita comparve innanzi ai signori tutta rimpulizzita: un fitto giro d’agoni d’argento attorno alla nuca, due grandi orecchini d’oro, una pettorina rossa impuntita di turchino, il vistoso bustino di broccato a fiori, tutto trinato a gale di nastri, due candide lattughe ove al gomito finivano le maniche un grembiule di mussola bianca nuovo di bottega, sopra una gonnella color di cielo, terminata in balza a gonfietti. Nel vederla così in fiocchi, — Oh, oh! che novità c’è, Brigita (chiese donn’Emilia). Tu sembri uscita da uno scatolino.»
La fanciulla fece ancor più vivo l’incarnato delle guancie, e con garbo contadinesco presentandole una manciata di confetti, — Illustrissima, son di nozze.»
— Oggi (entrava a dire il curato) oggi l’ho detta in chiesa la seconda volta, e questo qua è il suo fidanzato.»
E additava un pezzo di giovinetto, vestito anche egli tutto nuovo d’impianto, con una cintura rossa in vita, e che, traendosi di capo la reticella, da cui spenzolava una gran nappa bianca e rossa, fece una strisciata di piedi, e non sapeva rispondere se non — Grazie» ai mi rallegro di quei signori.
Gli era quel tal giardiniere del padrone della filanda, che, se vi ricorda, aveva anni fa, regalato alla Brigina, quel magliuolo di vite, pel cui guasto era avvenuto il lepricidio. — E anch’io (soggiungeva Cipriano) ci ho anch’io un poco di merito alle fortune di mia sorella, per aver tenuto in guardia quella vite; non è vero, Brigita? Basta: la vite ha portato frutto, e il bel primo grappolo mi prendo la libertà di presentarlo a loro illustrissimi.»
Qui, levandone i pampani sovrapposti, discoperse un paniere di pesche fragranti, sormontate da dorata moscadella.
— Abbiam tutto per ricevuto,» risposero i signori: poi donn’Emilia si trasse di capo uno spillone d’oro, che le dame portavano infisso nel volume delle treccie, come d’argento l’usano tutt’ora le contadine; la contessa madre si sciolse uno smaniglio d’oro a filagrana; don Alessandro spiccò dalla giubba una dozzina di massicci bottoni d’argento (allora giudicavasi più decoroso il regalare così che non con denaro), e diedero ogni cosa alla Brigita, che fu un bel presente. Don Alessandro poi, voltosi a Cipriano e battendogli sulle spalle con quel fare d’amichevole protezione che i signori, senza derogare alla dignità, possono concedere ad esseri tanto a loro inferiori, — E tu (gli disse) possa tu non aver mai occasioni che giuste di metter fuori il tuo coltellaccio.
— Oh per questo (replicava Cipriano, che non toccava coi piedi in terra al vedersi, là in faccia a tutto un mondo, trattato con tanta bontà da un nobile), oh per questo, illustrissimo, la stia sicuro. Perchè, non c’è risposta, noi Brianzuoli siamo fatti così: somigliamo ai cani da pastore; fedeli sempre quieti, da bene finchè si lasciano stare; ma vien l’occasione? arrulfano il pelo, cacciano fuori tanto d’occhi, e non temono affrontarsi, fosse bene coll’orso».
I primi passi, com’era naturale, furono alla nuova chiesa.
Se don Alfonso avesse potuto sciogliere lo scellerato suo voto, avrebbe forse eretto ed ornato uno splendido tempio, perchè laute sono le rimunerazioni onde il delitto mercanteggia la complicità, che al Cielo domanda. La gratitudine, più modesta, non aveva edificato se non una angusta e disadorna chiesuola, che il sindaco mostrò parte a parte con una compiacenza da artista. Il signor vicario poi montò in una botte sfondata della cànova di Cipriano, che per quell’occasione erasi rinfronzita in modo da scusar di pulpito, e sopra il versetto Sicut fluit cera a facie ignis, dispereant peccatores a facie Dei, et justi epulentur et delectentur in lætitia sfoderò un bravo panegirico; un panegirico sulle molle. Gli è ben vero che, quando i signori gliene presentavano le loro congratulazioni, egli asseriva che unicamente la cortesia di essi era la cifra che dava valore allo zero de’ meriti di quello, e volse lasciare intendere d’averlo fatto a braccio; ma non è facile il persuadersene chi badi all’erudizione e all’ingegno che v’erano a pale. Accennò di fatto tutti i templi antichi, da quel di Serapido fino alla rotonda di Agrippa; recitò una sequenza di architetti i più famosi; con una dilicatezza da stordire encomiò i Sirtori e la signora Perego sotto al velo di Salomone e di Zorababelle; conchiuse esortando i contadini ad elevare un mistico tempio, dove gli affetti fossero i muratori, che, colla calce della carità fraterna e la cazzuola della limosina, sopra il fondamenta della fede ergessero le mura della speranza, tra cui le colonne della memoria coi capitelli della gratitudine sostenessero la cupola della devozione, sotto alla quale dalle campane della tradizione venissero congregati i popoli ad una festa, in cui fossero arazzi le preghiere, altari i cuori, lampade l’allegrezza comune, organi le gole cantanti, incensi... non mi ricordo più che cosa, giacchè quel panegirico non fece mai gemere i torchi; ed è un peccato, perchè potea far testo.
I paesani, più trasecolati da quel tòcco d’eloquenza quanto morto ne avevano compreso, sbucarono di chiesa non appena fu finito, e don Alessandro ordinò a Cipriano che mescesse ancora a tutti; il che non domandatemi se accrebbe l’allegria ed il frutto del sermone.
Mi s’era dimenticato di dire come la medaglia d’oro che era stata pegno di vendetta, venne di fatto appesa in voto alla Madonna, e là rimase fin quando, trentasett’anni fa, i Francesi ci fecero, cogli ori della chiesa, pagare quella bellezza di libertà che ci venivano a regalare. Allora uno di questi contorni, spirito forte che si era fin lasciato intendere a dire che i frati non erano se non tanti oziosi, d’ordine del Governo la levò via per cambiarla in tanti zecchini, e ve ne sostituì un’altra di similoro. E la medaglia e la libertà, come succede delle cose false, presero il verderame: quella passò tra le ciarpe d’un ferravecchi, l’altra tornò in paradiso ad aspettarvi il Dies iræ.
Tanto andò a genio quella sagra campestre, che i signori istituirono di tornarvi ogni anno. Cominciarono a menare alcun amico, e amici n’han serale di molti i signori, massime d’autunno: qualche ricco che là intorno villeggiava, per curiosità per passatempo volle vederla. I contadini rimangono in quel tempo disposti all’allegria dalle miti sere e dai ventilati mattini succedenti alle eterne giornate, sudate sotto la sferza della canicola, dal vedere indorato il granoturco e colorita la vendemmia. Se vi aggiungete le memorie della libertà ricuperata, cosa non meno importante, della merenda goduta, facilmente intenderete perchè vi traevano volentieri, quando anche non vi dicossi che don Alessandro continuò a pagare a Cipriano due zecchini, perchè distribuisse quattro brente del buono. Con così poco i ricchi possono farsi voler bene! Morto poi quel signore, per non ismettere la buona usanza, gli accorrenti portarono con sè da merendare e da bere una volta, ovvero dei bravi quattrini, coi quali, mentre pagavano il fiasco a Cipriano, questi, già grave d’anni e padre di figli che aveano figli, coll’aria d’importanza propria dei suoi confratelli, diceva loro: — Ecco; finchè visse quel buon signore, si bagnava il becco con meglio che dell’acqua, e gratis et amore Dei, e questi erano tanti risparmiati. Ma dei signori buoni non se ne trova uno ad ogni uscio. Eh tu, Matteo, non puoi aver idea di quel diavolo a quattro; tu eri ancora a balia. Ma voi, Cosmo, che, poco su poco giù, siete del mio tempo, dovete serbarne memoria, eh?» E trovava tutto il suo pascolo quando, messo in mezzo da una ventina di villani, non meno vogliosi d’udire che essa di narrare, poteva ripetere punto per punto l’istoria, mostrar la vite, che ormai rinfronziva tutta la fronte della casetta, e di bei festoni attorniava le finestruole, e descrivere gli atti e le parole dell’Orso di Barzago che Dio gli abbia perdonato, e di don Alessandro Sirtori che spendeva come un Cesare, e che aveva il cuore compassionevole quanto se fosse stato un pover uomo. — E la cagione di questo sconquasso (aggiungeva con una stropicciatina di mani) chi è stato? Io, io persona prima. L’ho vista brutta, ma la paura non sapevo dove stesse di casa io. Eh! adesso sono da mettere fra gli scarti: ma allora ero un acciarino bresciano: poi un buon Brianzuolo, quando fa bisogno, non c’è a dire, muora Sansone e tutti i Filistei».
Mancò poi anche Cipriano; mancarono quel Cosmo che se ne ricordava, e quel Matteo che non se ne ricordava: col valicar dei tempi, nuove disgrazie fecero perdere la memoria di quelle: e però, non fo per dire, ma bisogna chiamarsi obbligati a chi riempie queste importanti lacune della storia col tornare in luce fatti così istruttivi ed esemplari come veri.
La concorrenza però non è mai venuta meno: anzi un secolo che non crede nulla e si fa beffa di tutto, fin delle intenzioni, quando il Gioja si congratulava di vedere scemata l’affluenza al santuario di Caravaggio e ad altre sagre, chi lo crederebbe? alla Madonna d’Imbevera aumentò straordinariamente. Se domandaste il perchè, vi risponderemmo: — È la moda»; ragione la sola che molti possano rendere delle loro azioni, e fin della loro guisa di pensare. Nè crediate vi si faccia una musica una fiera, qualche cosa di fracasso; no: unico spettacolo è quello degli spettatori. La romita solitudine, onde sono per tutto l’anno circondati la povera chiesuola d’Imbevera e un casamento eretto là d’accosto, ogni otto di settembre si popola così rapidamente, così variamente, come si legge che un giorno solevano le selve al cenno delle fate.
Chi drizza a quella volta, già da assai lontano ode una romba, simile al romoreggiare della marina. Ed ecco le strade, che d’ogni parto vi capitano, brulicare di gente, contadini, artigiani, mestieranti, soli, a coppie, a gruppi, a frotte. Giovinetti con capelli di paglia artificiosamente trecciati a trafori, adorni con piume, specchietti, galanterie: quali contenti del frustagno e del taglio all’antica, mentre gli altri vestono giubbe più moderne, colla cocca del fazzoletto affacciata alla tasca e con larghi pantaloni, invano e dal curato e dal fattore rinfacciati loro siccome indizio evidente d’insubordinatezza e d’irreligione; pigliansi al collo gli uni degli altri, a spintoni rompono la calca, od in ischiere arditamente festanti colla zampogna fanno risonare concerti, che sentono il sole e il vento della montagna. Le caute madri, tutte occhi a vigilare le ingenue fanciulle, quel giorno permettono che, per devozione, esse vadano a Imbevera. Tu scerni la Brianzuola alla snella corporatura, ai baldanzosi fianchi che davano per la fantasia al mio Parini, ad un’aureola d’argento al capo: distingui la briosa Bergamasca al bustino cortissimo di vita, ai vezzini d’oro, ai cincinni della fronte, ad un agone a trafori infisso nelle trecce cascanti bizzarramente da una banda, a certi sguardi bricconi. E tutti ne’ varj loro dialetti chiedono, cianciano, gridano, fanno fiera. Il garzone, che per la prima volta vi trae, interroga curioso un vecchio, che ci veniva prima del 96, quando vi comparivano indemoniati strillando, e buli che deponevano alla soglia della chiesa la omicida loro carabina; che si ricorda quando i Giacobini in nome della libertà proibirono quella sagra, e quando Russi e Cosacchi, tornandoci cattolici, l’ebbero ristabilita; c’è venuto coi Francesi repubblicani, coi Francesi imperiali, ed ora seguita da vent’anni a venirci con cotesti, sperando venire coi loro successori.
Nel bosco e sul piazzuolo s’innalzano assiti e baracche, si spiegano tende, curvansi e intrecciansi i rami a pergole, a capricciosi frascati, si dispongono tavole, trespoli, sediuoli; è un mondo di gente, è un tremoto di faccende. Qui fierajuoli a sfoggiar mercanzia: là bettolieri a rosolare braciuole e friggere galletti: il buzzurro alessa e brucia le castagne primaticce: un gruppo di villani già mezzo brilli urlano a chi più i punti della mora: altri straziano costolette così guascotte, e le irrorano di aquavite, di vino, di mosto appena spremuto dall’uva non ben matura. La fanciulla compra un santino per la nonna devota: la nonna gingilli per ispassar il bambino quando il portano a mimmi; il becerume, bocca ed occhi spalancati, attende alle forze, o al bagatelliero che ha rimedj per tutti i mali e per altri ancora, o al cantanbamco che sul cartellone dimostra vita e morte del famoso Pacino, l’incendio di Mosca e l’inondazione del Danubio; o a qualche, Orfeo che, strimpellando la ribeca o raschiando un violino, attira le pietre. La chiesa, che fu già occasione della festa, è la meno che si visiti: in quella vece fitti, serrati, vanno come un’onda di su, di giù, per la spianata e pel bosco vicino.
Così la pedonaglia. Ma quelli di maggior bussola non compajono se non nel basso del giorno, tanto più tardi quanto ciascuno è, o si crede da più. Monza, Milano, Como, Bergamo (e si v’è due passi) risentono ai corsi loro la mancanza della crema o della schiuma dei cittadini: e dove sono? al bosco d’Imbevera. Zerbinotti che sbraveggiano su sbuffanti puledri, o trionfano in tilbury eleganti: gran signori rimpettiti in comodi cocchi, con ambiziose mute, condotte a centinaia di zecchini dai pascoli dell’Holstein e dell’Olanda: fittajuoli che staccarono dalla benna e dall’aratro i robusti ronzinanti svizzeri, e rivestirono di nuova livrea il carrettiere: nobili scadenti, o sorgenti plebei, i quali noleggiarono ad alto prezzo un calesso, due rôzze e un vetturale, il quale cornando e schioccando fa rumore per quattro: particolaretti che coll’industria sperano quando che si mutar in carrozza la timonella di cui ora mal s’accontentano: il granajuolo nella sedia nel baroccio che lo porta il sabato ai mercati di Lecco alle calende a Bergamo; tutti insomma qui piovono a darsi aria, a vedere, a farsi vedere. Gli alberghi più capaci della città appena basterebbero a tanto concorso, non che le meschine bettole del contorno, poco migliori di quella ove, ducencinquanta anni fa, vendeva vino il nostro Cipriano. Quindi vedi i cavalli affidati a ragazzi su pei prati; e da tutte le bande disposti in fila cocchi a centinaja, che dico? a migliaja: e tra quelli sparsi i pitocchi, che sporgono la mano o il bossolo, ostentando al passeggero piaghe, moncherini, una nidiata di puttelli, e strillando Pietà, limosina. — Concordanze sociali!
Chi credesse che una sagra campestre dovesse far luogo a quella semplicità, che aggiunge tanto più all’allegria, quanto più la scioglie dagl’impacci, sarebbe troppo in inganno. Il lusso più ricercato, le più suntuose gale di vesti, di fronzoli, di gioje sono di balzo trasportate dal corso delle città al bosco d’Imbevera. La signorina, venuta, già è un mese, a villeggiare qui poco lungi, fra il grosso bagaglio non si dimenticò di qualche bel capo o d’un vestitino a posta per questo bel giorno: la fidanzata vi fa la prima comparsa coi vezzi donatile dallo sposo: quella sciarpa, quella cappottina furono rinnovate per farne spocchia alla Madonna di Imbevera. Belle dall’arguto pallore e dal fuoco raccolto degli occhi pensosi, meraviglia dei teatri e dei ridotti cittadini; forosette dalle gote rubiconde e piene come melerose, che nelle solenni processioni del villaggio sentonsi dire Ve’ com’è bella, qui compaiono insieme: le prime appoggiate ad uno sposo fedele, beando di lusinghiero ritenuto sorriso il fedele milordino, che con membra e con andar femmineo sbircisce colla lente e sussurra meditate cortesie; l’altre colle compagne, dando ascolto e risposta ai vivaci scherzi ed alle espressioni più clamorose quanto più cordiali, del bifolco e del bottegaio: finchè vanno queste a tracannare l’acquavite e la spumosa birra, l’altre a gustar la gramolata, il sorbetto e le paste sfoglie sotto ai padiglioni dell’efimero acquacedrajo.
Chi di là gira lo sguardo, vede brulicare una folla di teste; cappelli da villano, da signore, da prete, da cittadino; brillanti colori e delicati; il sedan ed il velo crespo alternati colla stamina e col bambagello; foggio testè arrivate da Parigi presso a quelle da un anno abbandonate alle provinciali, all’altre che già discesero al contado, alle arcaiche, custodite dalle matrone in commemorazione de’ tempi migliori. Qui le piume d’uccello di paradiso ondeggiano a canto al pennacchio del gendarme, la cui vista fa sguisciar via il tagliaborse, frena l’allegria d’un ubbriaco e le ominazioni di due baffuti, che battendo i tacchi, ragionavano della buona causa. Qui gli uomini creati dalla natura a consumare e godere, misti con quelli da essa destinati a sbracciarsi e stentare per la soddisfazione dei primi: contadini imbruniti e ingagliarditi dal sole e dalle fatiche sono riurtati sdegnosamente dal prediletto dalla fortuna, gonfio per dieci generazioni di antenati, al par di lui oziosi, il colore e le membra dilicate del quale fanno prova del sangue più gentile, cioè degli squisiti bocconi e del non far nulla. Qui un veterano della legion d’onore e dai mustacchi bruciacchiati dalla polvere d’Ulma e d’Austerlitz, e che sarebbe colonnello se le cose, dic’egli, fossero ite come dovevano, trovasi a fianco del coscritto che una sola notte passò in caserma fra gli stravizzi, il fumo e le facili beltà. Qui la schifiltosa mantenuta pavoneggiandosi raccomanda al suo ganzo che le suntuose trine da lui donatele non lasci mantrugiare dal contatto del ruvido guarnellino, che la setajuola guadagnò di sacrosante fatiche.
Quando poi, veduto ed ascoltato intorno il linguaggio de’ ventagli, de’ fazzoletti, delle lenti, lo sguardo ansioso di chi cerca, il dolénte di chi troppo ha trovato, il confidente susurrio delle recenti spose, e l’inesorabile cicaleccio delle terribili madri che hanno tre fanciulle da maritare, tu volgi dall’altra parte ove sale il bosco, ecco per tutta la pendice una mobile decorazione di gruppi che, disposti nel più pittoresco modo tra le fratte e i castani e sul molle tappeto del muschio, godono la merenda e lo spettacolo, che l’onda della folla scendendo e poggiando cangia ad ogni batter d’occhi al loro piè.
Deliziata a tale scena, la vispa zitella esclama, — Deh! com’è bello!» nel mentre stesso che un’altra, coll’ingrata maestà del quarantesimo anno, ripete contraendo il labbro, — Al confronto d’anni fa: non c’è la metà gente, la metà lusso, la metà allegria».
Così il giovane, cui l’età del primo amore dipinge tutto a color di rosa, trova qualcosa di gajo tale mescolanza del boschereccio collo scialoso, della naturalezza coll’eleganza, della franca giovialità campestre colla contegnosa della città; intanto che un altro, cui l’esperienza rese iterico lo sguardo, raggrinza il naso esclamando: — Pazzie! venirsi a pompeggiare io un bosco!»
V’è intanto chi si perde per la selva a cercare una pianta remota, dove, anni sono, in questo giorno istesso incise un nome, — il nome d’una fanciulla, con cui si erano giurati eterno, inseparabile amore. La pianta crebbe, crebbe il nome con essa, ma l’amore svanì; ed egli appena ricordò l’amica perchè la rintoppò laggiù, contenta madre dei figliuoli d’un altro.
Ancora v’ha chi, non logoro dai diletti cittadini a segno da non sentire l’incanto delle semplici bellezze naturali, guadagna le vette, e di là vagheggia il cielo che s’inazzurra sui poggi e sulle valli della Brianza: quel cielo che gli stranieri credono un’esagerazione quando lo vedono dipinto nelle tele dei gran maestri: e che in queill’ora, imporporandosi ai tremuli raggi del sole che declina, fa spiccare all’occhio ammirato le sommità dei colli e dei monti, che formano cornice ad uno dei più graziosi paesaggi; mentre gli augelletti...
Ma che ha qui a fare quest’arcadica descrizione?
Che ha a fare?
Ah! lo sa il mio cuore, che alla sconsolante realtà del presente procura sottrarsi col figurare come sa più al vivo quei luoghi di care memorie ed incolpate. O miei monti, o miei colli! Deh quando il sereno spirare del vostro orezzo pioverà ancora la pace sul mio solingo cammino? Quando l’alba mi troverà sulle vostre vette ad aspettarne il primo biancheggiare? Quando la sera accoglierà il saluto che manderò al patetico astro di Venere? Quando il sole mi vedrà, in gara col capriuolo, libero come l’aria che vi si respira, balzar di pendice in pendice, aspirare l’aroma del cisto e dello spigo selvatico e l’autunnale fragranza delle eriche fiorite; tuffarmi nei torrenti della luce ond’esso v’ammanta; esultare sentendomi al disopra dei tumulti - dell’umanità e più vicino al tempio del Creatore? Quando, quando? — Ah forse mai più!
Perdonate, lettori, se da voi mi son dilungato, come perdonereste al vetturino che vi guida in viaggio, e che s’arrestasse per abbracciare un bambino che gli ricorda il suo fanciulletto, ahimè! rapitogli dagli assassini. Sono con voi, se volete che tornando alla campestre festa, scrutando i cuori, cerchiamo tra quel nugolo di gente alcuni successori di don Alfonso, ma che, grazie alla crescente civiltà, sostituirono al ratto la seduzione alla violenza il raggiro, alla legge sfidata la legge illusa, alla vendetta scoperta la denigrazione e il bacio di Giuda: od anche qualche imitatore di don Alessandro, col proposito, più generoso che prudente, di assumere la difesa del debole contro il soverchiatore, massimamente se questo non sia troppo grosso, nè l’affare importi pericolo.
Potremmo anche o maligni rivelare alcune fortunette che la boscaglia e la folla mal coprì; o morali compiangere tante che vennero a perder l’innocenza per festeggiare un giorno in cui l’innocenza fu salvata; e i molti che gozzovigliano un dì per digiunare una settimana coll’affamata famigliuola, e che non abbandonano il tumultuoso stravizzo se non dopo che la ragione è sfumata a rinforzi di bicchieri, e che il vino o la gelosia fece cacciar a mano i coltelli; — solite appendici delle sagre, solite conseguenze delle devozioni clamorose, qui ed altrove, ai nostri tempi e a quelli dei nostri buoni vecchi.
A tutto mette fine la sera. Al domani ecco il luogo spopolato: pochi operaj intenti a riporre le trabacche, a sgomberare il lieto apparecchio; poi tutto ritorna nel silenzio. Fronde intrecciate, rami aggruppati schiantati, l’erba calpesta, qualche tronco abbronzato dal fuoco, reliquie di cibi, sono tutto quello che rimane del tumulto di jeri, che si rinnoverà da qui ad un anno per terminare ancora nel modo istesso.
Così nell’anno dei secoli passano le generazioni. Quella che oggi a calca si affanna su quest’ajuola del mondo, dimani sarà scomparsa; agli splendidi clamori che oggi ne rintronano, succeduto il silenzio; al tumulto delle futili importanze, la solitudine, il disinganno del sepolcro; gli edifizj che noi ci architettiamo, verranno levati come il padiglione d’una notte: altre generazioni succederanno poi a tripudiare e gemere, a compiangere ed esser compiante, a soffrire e far soffrire, sintantochè, giunta a sera la loro giornata, daranno luogo alle successive; — nulla più ne indicherà l’esistenza, nulla se non le ruine.
Novelle lombarde, 1834