Edizione Italiana
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    Domenico Scinà

    Discorso intorno ad Archimede

    La fama di Archimede suona così chiara presso di tutti, che scriverne l’elogio si potrebbe forse reputare un’opera inutile e superflua. I matematici d’ogni età pieni di venerazione han ricordato il nome di lui, e lui hanno mostrato come uno di que’ pochi, che vaghi del sapere e speculando nelle scienze sono là giunti dove può umano intelletto. Se da geometri ci rivolgiamo agli storici, e in generale a tutti gli eruditi, troviamo, che alla venerazione di quelli si è aggiunta l’ammirazione di questi. Hanno essi tra le invenzioni di Archimede quelle riferito, che colpiscono i sensi, quali son le meccaniche, e queste lodando e talvolta esagerando gli han decretato il primo posto d’onore tra gli scienziati. La voce pubblica in fine magnificando, come suole, il giudizio de’ sapienti si è sparsa per tutta la terra, ed Archimede va ognora gridando qual genio soprumano e divino. Chi potrà dopo ciò lui inalzar colle lodi, se il solo suo nome risveglia la pubblica venerazione e tien luogo di qualsivoglia elogio? Ogni lode sarebbe inferiore alla sua fama, e invece d’accrescere sminuir ne potrebbe la gloria.

    La Sicilia ciò non ostante non può in silenzio restare sui pregi e sulle virtù di un grand’uomo, che sarà, siccome è stato, il suo ornamento ed onore finchè saranno le scienze tra gli uomini. Solea ella ne’ dì felici medaglie coniare e pubblici giuochi istituire per onorar la memoria de’ suoi, che colle loro invenzioni e nelle scienze e nelle arti a fama eterna l’alzarono. Cadde poi dalla sua grandezza cadendo sotto i Romani, e tra le altre afflizioni ebbe allora a soffrire, che fosse venuto uno straniero a svellere i bronchi e le spine, che il sepolcro ingombravano del nostro Archimede1. Ma se la Sicilia non è oggi quale era una volta ne’ bei giorni del suo splendore, non trovasi certo in quel miserabile stato, in cui preda de’ Proconsoli e de’ Questori oppressa giacea dalla potenza di Roma. Conosce ella al presente quanto lustro le rechi il nome di Archimede, e non sa nè può tollerare, che co’ debiti onori celebrata non sia di quando in quando la memoria di lui.

    Niuno adunque, che giusto estimator sia delle cose, potrà come inutile o inavveduto riputare un discorso, che in segno di riverenza e di omaggio ricorderà Archimede, e le sue famose scoverte. Mostrerà tal discorso più la nostra gratitudine che la sua grandezza, richiamerà alla mente più la nostra che la sua gloria, tornerà in somma più a nostro vantaggio che ad onore di lui; poichè alla vista di sì nobil modello è da sperare, che resteranno i nostri sospinti vie più allo studio delle cose geometriche, studio che può innalzar la Sicilia ad un rango d’onore tra le colte e polite nazioni.

    Siracusa città ricca e potente, sia che fosse stata libera o pure oppressa da’ tiranni, di studii e d’ingegni fu sempre fioritissima. Avendo essa accolto la dottrina prima di Pitagora e poi di Platone accolse del pari le pure matematiche, che da quelle due scuole ebbero in Grecia accrescimento e splendore. La corte in fatti de’ suoi tiranni si vide più d’una volta piena di geometri, che figure sulla polve tracciavano, e verità dimostravano di geometria2. E se le matematiche, vinta la Grecia, irono poi a stabilirsi in Egitto seguendo le insegne del vincitore e quasi tornando al loro suolo natío; Siracusa, che aveva emulato la Grecia negli ottimi studj, non lasciò di concorrere nella coltura delle severe scienze colla città de’ Tolomei: produsse il grande Archimede, che dovea la palma rapire negli onori matematici alla stessa Alessandria.

    Nacque egli nell’anno secondo della olimpiade 1233; e, poichè i sommi uomini giungono a dar lustro al diadema ancora de’ Re, non è da tacere, che, al dir di Plutarco, in parentela era stretto col secondo Gerone4. Erano, egli è vero, al nascer d’Archimede turbate le cose pubbliche in Siracusa; ma queste furon presto ordinate da Gerone, che richiamò nel suo regno, e finchè visse ritenne la pace, l’opulenza, e la felicità. Però Archimede crescendo di età trovò nella patria pronti gli avviamenti alle scienze, che sempre più prosperavano per lo continuo commercio, che Siracusa faceva così colla Grecia che coll’Egitto.

    Lo studio allora in onore, e cui si volgeano sopra ogni altro gl’ingegni, era tutto innocente, e quello dell’esatte discipline, che aveano e stanza e scuola nella città di Alessandria. Tutti correano a questo ginnasio, in cui Euclide avea insegnato la geometria, e i Tolomei aveano onorato, e onoravano le scienze e gli scienziati. Archimede adunque disposto come era a tale sorta di studj fu sollecito di occuparsene, obbedendo in parte alla sua naturale inclinazione, e alla moda in parte de’ tempi, che suole ancor essa esercitare il suo impero sui nostri gusti e sulle nostre occupazioni.

    Ignorasi, se Archimede ammaestrato prima in Siracusa abbia poi fornito i suoi studj in Alessandria; ma egli è certo, che lesse i geometri, che erano stati prima di lui, e ne ammirò il metodo e la sodezza. I greci geometri guidati da pochi e semplici principj camminavano sempre sotto un cielo privo affatto di nubi, a passi tanto più sodi quanto più stretti, parlando senza equivoci, e ragionando senza cavilli. Vide ei questo metodo e l’abbellì conservando alla greca geometria i naturali suoi pregi, e d’altre bellezze adornandola, che ancora fioriscono, nè per giro di secoli o novità di scoverte appassiranno giammai.

    Continuo nel meditare singolar diletto prendeva il nostro geometra non che delle pure, ma delle miste discipline, che molta utilità promettono alla vita civile. Ebbe degli amici, tra’ quali quelli, che più da noi si conoscono, furon geometri. Pianse egli di fatto la perdita di Conone, e, morto questo, a Dositeo scrivea e svelava il primo a costui le sue ingegnose scoverte. Amò egli la gloria, come fanno le nobili anime, e questa riponea nel sostenere il travaglio di nuove e più difficili speculazioni. Nè fu di quei sapienti, che fuggono il consorzio de’ grandi alcuna volta per semplicità e rozzezza, spesso per ostentazione ed orgoglio: si avvicinava egli a Gerone, e intrattenea questo principe, si dica ad onor d’ambidue, della costruzione di nuove macchine o dell’inventiva di ardui problemi di meccanica. Non isdegnò l’amicizia di Gelone giovine allora ed erede del trono, cui dichiarava i suoi novelli pensieri sopra l’aritmetica5. Visse in somma caro a tutti, presso tutti in onore, sempre speculando e sempre inventando a pro delle scienze, in favor della patria, ad utile della società.

    Queste e così poche son le notizie a noi pervenute della vita di Archimede; e ben ci dovremmo dolere di essersi perduto ciò, che Eraclide scrisse di lui, se non ci fosse gran parte restata delle sue opere. In queste la storia si trova della sua vita, perchè quella si legge de’ suoi pensamenti, e scritte si osservano le sue illustri azioni, perchè notate si ammirano le sue belle scoverte. In questi libri l’andamento si scopre del suo spirito per istabilire la sublime geometria, i suoi sforzi generosi si scorgono per vincere le difficoltà, che di passo in passo incontrava, chiara si vede l’immagine della sua mente, tutto in somma si conosce Archimede. Per lo che studiati i suoi libri, non recherà più maraviglia, se egli superiore agli altri geometri per la forza del pensiero, per l’acume dell’inventare, e per la grandezza dell’immaginazione abbia ciascun di loro oltrepassato così per la copia e varietà, come per l’importanza e utilità delle invenzioni.

    I primi geometri soprapponendo colla mente una figura ad un’altra dimostrarono l’eguaglianza delle figure rettilinee, e la greca fondarono allora nascente geometria; ma non potendo soprapporre una retta ad una curva non poterono misurare le grandezze curvilinee, o sia non seppero nè poterono quadrare. La difficoltà arrestò i loro passi, ma non vinse i loro ingegni, e facendo altri nuovi tentativi il metodo dell’iscrizione inventarono.

    Iscrivendo in una curva da prima un quadrato, e poi di mano in mano triangoli, giunsero ad un poligono, la cui superficie, se non era eguale a quella della curva, da questa almeno si differiva pochissimo. Questo metodo fu espresso da Euclide sotto una forma generale6, e potea certamente guidare i geometri verso la meta da lor sospirata. Altro non era da farsi, che spingere più e più, ed anche più oltre, l’iscrizione, affinchè la differenza tra la curva e ’l poligono iscritto si fosse in modo tale estremata, che come nulla si avesse potuto reputare. Il contorno del poligono si sarebbe allora confuso colla curva, e la superficie di questa a quella del primo sarebbe venuta certamente eguale. Ma come la geometria era in quei tempi molto rigida e severa; così i geometri mancavano d’ardimento. Niuno avrebbe osato affermare due quantità, la cui differenza era minima, insensibile, e pressochè nulla, potersi tenere per eguali; poichè una differenza, quanto che piccola, fra due quantità, era allora riputata sempre finita, e come tale di qualche valore. La geometria ritenne, egli è vero, in sì fatto modo la sua evidenza, ma fu impedita di più oltre avanzarsi dal suo rigore medesimo: la quadratura in fatti del cerchio fu sino ad Archimede, come era stata per lo innanzi, il tormento de’ più nobili ingegni, e lo scoglio de’ più valorosi geometri.

    Altro vantaggio non si ritrasse allor dall’iscrivere, che quello di coglier la proporzione, in cui si tengono tra loro alcune curve o altri corpi rotondi: poichè usando i geometri dell’iscrizione giunsero a determinar la ragione, che hanno i circoli tra loro, o pur le sfere, e quella che prismi lega e piramidi, o pure coni e cilindri della medesima base ed altezza. Ma queste scoverte medesime, di cui prima fu lieta la geometria, le annunziarono ben presto la sua povertà, perchè collo ajuto di queste furono i geometri quasi sopra un’altezza condotti, donde per la prima volta poterono scorgere i campi vastissimi delle grandezze curvilinee; si accesero quindi di nobil vaghezza, e alla misura di sì fatti spazj sollecitamente si volsero; ma incerti e timidi e ritenuti dal rigor matematico non sapeano più oltre procedere, quando Archimede franco di animo e pieno di senno si mise loro innanzi, e ne imprese la stentata ricerca.

    Guardò egli da prima le fatiche di quelli, che erano stati innanzi a lui, e vide ad un tratto e di che i loro metodi mancavano, e sino a qual termine coll’ajuto di questi avrebbero essi potuto giungere, e non erano giunti giammai. Pieno quinci di valore ritrasse i geometri dalla quadratura del cerchio, cui si stavano intenti ed affollati, ed indicando loro un cammino men aspro li condusse a quadrar la parabola. In questa curva non iscrive il nostro geometra che soli triangoli; ma nell’iscrivere presto s’avvede il primo triangolo a’ secondi, questi a quelli che seguono, e gli altri appresso essere tutti legati sì stretto, che nella medesima ragione decrescano formando una progression geometrica. Non prima egli, che avea gran polso, di ciò s’accorse, che di tal progressione si mette a ricercare la somma; giacchè, questa conosciuta, l’area si conosce della parabola, che da que’ triangoli si esprime, e tutta in quella progressione si racchiude e comprende. Ma ricerca era questa e nuova e difficile, in cui niun geometra potea a lui porger conforto, perchè niuno si era ancora avvenuto in tali serie, dalle quali, come è noto, il quadrar delle curve in gran parte dipende. Ciò non ostante scorre egli il primo que’ nuovi campi d’invenzione, e raunando poche e già note verità trae da queste, e pronto raccoglie la somma d’una progressione, che nella ragion geometrica decresce. Trova, che, quale si fosse il numero dei termini, sempre la sua somma risulta eguale ad una funzione costante del primo, che viene ad essere quattro terzi del triangolo iscritto, la cui base ed altezza è a quella eguale dello spazio parabolico: per lo che in questo triangolo il primo legge, e il primo agli altri manifesta l’esatta misura della superficie della parabola. Molti, par ch’egli dica a Dositeo, molti in tempi diversi han tentato di misurare or questa curva ed ora quell’altra, ma i loro sforzi, per quanto mi sappia, sono in vano tornati. Le lunule d’Ippocrate, di cui si mena gran vanto, non sono in realtà, che giuoco e trastullo di speculazion geometrica. Io vi presento uno spazio tra una retta racchiuso e la parabola, e questo vo sicuro misurando con principj non già dubbj, ma certi, non già miei, ma vostri; poichè iscrivendo han già mostrato i geometri i rapporti, con cui si attengono i circoli o le sfere tra loro, o pur la piramide al prisma, e il cono al cilindro, e iscrivendo sono io giunto a misurar la parabola7. Così egli dicea, e i geometri della sua età videro per la prima volta misurato esattamente uno spazio curvilineo, e ne presero ammirazione. Gli stessi moderni, che levano tanto grido delle loro algebriche equazioni, hanno il magistero ammirato, con cui egli il primo giunse a quadrare lo spazio tra una retta racchiuso e la parabola.

    Archimede nel quadrar questa curva non spinge i triangoli ad un numero infinito secando all’infinito le corde del poligono iscritto, affinchè potesse in ultimo confondere l’area di questo con quella della parabola. Sapea egli, che i geometri avrebbero disapprovato altamente questa maniera di ragionare, se non come falsa ed incerta, almeno come inusitata e priva di evidenza. Avevano alcuni recato la misura del cerchio e dell’ellisse; ma come l’aveano fondato non già su’ principj che eran falsi, ma sopra lemmi difficili a potersi ammettere; così quella misura era stata rigettata da’ successori di Euclide8. Tanto in que’ dì erano rigorosi e severi gli efori delle matematiche, i quali in Alessandria dettavano leggi e divieti contro coloro, che macchiavan per poco la purezza della geometria.

    Però nel quadrar la parabola, e, questa quadrata, volgendosi alla misura delle altre curve fu sollecito di evitare le misure inesatte e nebbiose d’infinito e d’infinitesimo, tra le quali ogni grandezza curvilinea naturalmente si stanzia, e concepì l’alto e nobilissimo disegno di fondare la geometria delle curve su quelle stesse basi, su cui erano stati posati gli elementi della scienza. Cogli stessi principj, collo stesso rigore, colla stessa evidenza pensò di avanzarsi creando la dottrina delle curve, che avevano fatto i suoi antecessori formando gli elementi. E come i geometri tentando di passare dalle figure rettilinee alle curvilinee ebbero per principio incontrastabile, che la differenza tra due quantità, per piccola che fosse stata, poteva aggiunta più volte a se stessa divenir maggiore di una quantità finita della medesima specie9; così ancora Archimede tenne per fondamentale sì fatto principio, ed ebbe gran cura di stabilir sul medesimo le sue dimostrazioni: pensò in somma di presentare nella sublime geometria la sembianza istessa degli elementi, anzi una semplice continuazione de’ libri del severissimo Euclide.

    Ma questo progetto, che era degno di se e del suo meraviglioso intelletto, lo stringea a battere una via soda, egli è vero, ma lunga e tortuosa e tanto più aspra, quanto le curve sdegnano l’esattezza, e quella precision di misura, di cui è capace la parabola. Per progredire quindi con sicurezza ideò prima un metodo particolare, che servir gli dovesse di guida, e mosse tosto celeri passi verso l’invenzione.

    Il primo passo, che diè, fu quello di comparare le curve alle rette, che tra loro non si erano mai poste in confronto, perchè allora si credeano di natura diversa; ma nel dar questo passo, che liberava la scienza dagli antichi ceppi, mostrò Archimede non che forza e coraggio, ma accorgimento e prudenza. Non si tolse a dimostrare quanto una o più linee rette fossero eguali ad una curva, affinchè suo malgrado imbattuto non si fosse nello scoglio dell’infinito, che volea studiosamente evitare: indicò solamente quanto un pezzo di curva fosse maggiore o minore di una o più rette, o pure quanto un pezzo di superficie concava fosse maggiore o minore di una o più superficie piane. Non è già, che una sì fatta maggioranza o minoranza non si vada ancor essa in ultimo a risolvere nell’infinito, ma la mente umana non ha tempo di ciò sospettare; perchè quella relazione di più o di meno le si presenta con tale chiarezza, che ne piglia a fastidio le prove. Archimede in fatti pose l’estremità delle rette sull’estremità del pezzo di una curva, e l’estremità delle superficie piane su quelle del pezzo di una concava, e quivi con gran senno ristandosi, più oltre non volle procedere10. Tutti allora videro quando queste linee o superficie erano le une dalle altre comprese, o le prime le seconde comprendeano, e tutti immantinente conobbero quando le une erano delle altre minori o maggiori. Gli stessi geometri de’ suoi dì, ch’erano severissimi, ne sdegnarono le prove, e venerarono come principj que’ rapporti di maggioranza o minoranza tra le linee curve e le rette, tra le superficie concave e le piane, che da Archimede erano stati posti, non dimostrati, come veri. Che se Eutocio intese ne’ tempi d’appresso a dimostrarli, costui in luogo d’accrescerne l’evidenza forse gli oscurò; perchè la verità al pari della bellezza vuole semplice e schietta mostrarsi per colpire: l’una colle prove si snerva, l’altra cogli ornamenti si guasta.

    Coll’ajuto di questi principj, ch’erano semplici ed evidenti, s’aprì Archimede un novello sentiero, che ancora non era stato battuto da’ geometri prima di lui. Costoro iscrivendo a’ circoli i poligoni si erano accorti, che questi a quelli poteano sempre più avvicinarsi, ma non arrivarli giammai. Però teneano come principio, che i poligoni iscritti, non ostante qualunque approssimazione, eran sempre de’ circoli minori, e i circoli al contrario eran di quei poligoni certamente maggiori. E questo principio fu da tanto, che felicemente li guidò nella ricerca de’ rapporti, che han tra loro le superficie circolari e i corpi rotondi. Ma Archimede dovea assai più lontano progredire, perchè la misura, non già i soli rapporti investigava delle grandezze curvilinee. Pensò quindi di aggiungere all’iscrivere il circoscrivere, ed estese in tal modo alle figure circoscritte quella proprietà, che avean trovato i geometri tra i circoli ed i poligoni iscritti. Le figure iscritte e circoscritte, dicea egli, pari passo camminando, pari passo si avvicinavano alla figura curvilinea, che circondano, ma non la giungono mai: l’una, che è l’iscritta, per quanto più e più vi si approssima, resta della curvilinea invariabilmente minore, e l’altra, che è la circoscritta, per quanto più si avvicina, viene ad essere di quella medesima invariabilmente maggiore. Fu questa verità, che pose in alto Archimede come un segno, cui riguardare per non smarrirsi nell’oscuro e difficil sentiero della misura delle curve. Pigliava egli una grandezza rettilinea o pure una curvilinea, di cui si conoscea la misura, e la mettea in confronto colle due figure, iscritta e circoscritta alla curva, che era da misurare. Questo confronto, che era attento e severissimo, tutto si versava nell’esaminare, se queste due figure ivano sempre più a quella rettilinea avvicinandosi nella stessa ragione, che faceano intorno alla curva che circondavano, e se la figura rettilinea al par di questa curva restava sempre dell’iscritta maggiore, e della circoscritta minore. Che se, fatto ogni esame, eguali ritrovava questi rapporti delle due grandezze, rettilinea l’una, curvilinea l’altra, colle figure, iscritta e circoscritta, avea per certo, che quelle due grandezze fossero eguali, o meglio, che l’una, cioè la rettilinea, dell’altra curvilinea fosse l’esatta misura. La medesimità de’ rapporti colle figure medesime era allora segno per Archimede d’identità e di eguaglianza.

    Questa maniera indiretta di ragionare, sebbene dubbia ed incerta allorquando si applica alle cose fisiche, è al contrario saldissima nelle ricerche matematiche, le quali misurano delle quantità, che si riferiscono tra loro pe’ semplici rapporti del più, del meno, o dell’eguaglianza. Se la grandezza rettilinea al par della curvilinea è sempre minore della circoscritta e dell’iscritta maggiore, certamente quelle due grandezze debbono essere eguali: perchè se la rettilinea ci piacesse supporre o minore o maggiore della curvilinea, ne seguirebbe, che la figura iscritta o circoscritta si potrebbe frammettere in mezzo a quelle due grandezze, e se la rettilinea risulterebbe contro ogni verità maggiore della circoscritta, o dell’iscritta minore. Ma in que’ tempi non era conceduto in geometria questa maniera d’induzione, ancorchè fosse chiara e ragionevole. Però Archimede conformandosi al rigore de’ tempi dimostrò non argomentò l’eguaglianza tra quelle due grandezze, dimostrando non argomentando, che l’una non potea essere dell’altra minore o maggiore. Così egli non dimostrava direttamente, che qulle due grandezze erano eguali, ma che non poteano non essere eguali, e senza presentare la loro eguaglianza forzava l’intelletto, come se veduto l’avesse, a confessarla.

    Tale forma indiretta, sotto cui egli mostrava l’eguaglianza, non era nuova nella geometria. Questa intellettuale, come è, non isdegna i lunghi ragionamenti, e per qualunque sentiero, sia breve, sia lungo, va lieta a ritrovare la verità. Eudosso ed Euclide stretti al par di Archimede dalla necessità avevano già presentato sotto questo sembiante l’eguaglianza, ed Archimede nel dimostrare, che la grandezza rettilinea non potea essere minore della curvilinea, seguì la via già battuta da que’ due sommi geometri. Suppone da prima, come suol farsi, a cagion d’argomento, che la grandezza rettilinea fosse minore della curvilinea, e poi in mezzo a queste due frappose una terza grandezza, che è l’iscritta, la quale si può a senno del geometra avvicinar sempre più alla curva. Questa terza grandezza, trovandosi tra quelle due interposta, dell’una, che è la rettilinea, riesce in tal caso certamente più grande: ed ecco l’assurdo; poichè aveva egli già dimostrato la grandezza rettilinea essere maggiore della iscritta. L’iscrizione diveniva allora uno strumento, con cui egli facea la prima e velata riduzione di quelle due grandezze, l’una rettilinea, e l’altra curvilinea, all’eguaglianza; giacchè in un linguaggio più schietto, egli dicea, non poter l’una esser dell’altra minore, perchè l’una all’altra era in sostanza eguale.

    A dimostrare poi, che la grandezza rettilinea non potea della curvilinea esser maggiore, trovò prontamente nella circoscrizione un ajuto, di cui non si erano serviti i geometri prima di lui, i quali si eran fermati all’iscrizione. A provare Euclide, che i circoli tra se, o le sfere, o i cilindri un rapporto non avevano maggiore di quello, che egli adduca, non recava innanzi un forma certa di dimostrare: ora per un artifizio, e ora per un altro, spesso per lunghi giri, e sempre con istento, giungea allo scopo, cui egli mirava11. Ma Archimede, che già all’iscrivere aveva aggiunto il circoscrivere, potè franco e sicuro fare la seconda riduzione all’eguaglianza; poichè supposta la grandezza rettilinea maggiore della curvilinea, tra questa e quella una terza grandezza interpone, che ben lo potea circoscrivendo, la quale stando intermedia alle prime due, dell’una, che è la rettilinea, certamente è minore: e qui giunto grida parimente all’assurdo; poichè avea già provato la figura circoscritta della rettilinea essere di sua natura maggiore. Con quella autorità allora, che a lui concedea la geometria, comandava all’intelletto a riconoscere tra quelle due grandezze l’eguaglianza; perchè non potendo essere l’una dell’altra nè minore nè maggiore, era di necessità, che l’una all’altra fosse stata senza contrasto eguale; o sia l’una dell’altra non potea essere nè minore nè maggiore, perchè in sostanza l’una all’altra era eguale.

    È questo lo schizzo del metodo, con cui Archimede si pose in istato di affrontare le ricerche più astruse, e che indocili erano state sino a quel tempo al magistero di tutti i geometri. I principj, su cui poggia questo metodo, la forma del dimostrare, i primi lineamenti in somma già segnati nell’iscrizione, erano stati tutti posti e riconosciuti pria di Archimede: ma egli il primo comparò le curve alle rette, ampliò questo metodo, lo ridusse a grandezza, a forma generale, atto lo rese a stabilire la sublime geometria.

    Nel misurare le curve non apprezzava, nè ponea tra loro in confronto che tre grandezze, delle quali la terza dovea essere invariabilmente maggiore dell’una, minore dell’altra; e queste grandezze eran tutte finite, tutte rettilinee. Si fermava così sul confine, che le grandezze rettilinee divide dalle curvilinee, e le quantità finite da quelle separa, che nell’infinito si perdono; e quivi stando lanciava ad un’ora da’ due punti opposti, ch’erano i due assurdi, una luce vivissima, che quasi baleno diradava le nebbie, in cui involta si sta ogni grandezza curvilinea. Era, egli è vero, questa luce istantanea, ma splendidissima; gli occhi forte colpiva, ma non li abbagliava; mostrava, non può negarsi, da lungi la misura degli spazj curvilinei, ma così chiara innanzi la parava, come se da vicino e fissamente si fosse riguardata e contemplata. Niuno dei geometri innanzi a lui fermo tenendo il piede tra le quantità finite era mai giunto ad apprezzare le grandezze curvilinee; fu Archimede il primo, che ne scoprì la scala e le misure, e fu da Siracusa, che e queste, e quella ricevette Alessandria regia allora e metropoli della geometria.
    Ma questo metodo quanto studio, quanto ingegno non volea per mandarsi ad effetto! L’algebra, che in simboli trasforma i nostri raziocinj, dalle sue formole quasi traducendo va presto a raccogliere ogni verità particolare; ma la geometria sollecita di scorrere da prima ad una ad una le idee, e poi di forte incatenarle, non ostante il metodo, che la guida, è stretta quasi ad ogni passo a durar molto stento e molta fatica. Ogni problema, che dichiara, ed ogni teorema, che ritrova, merita gli onori dell’invenzione, perchè seco porta i travagli dell’inventare. Non si sa quindi, nè si può determinare, se debba più ammirarsi Archimede quando il metodo immagina, nobilita, aggrandisce, o quando il metodo adoprando specola, scopre, dimostra. Dovendo Archimede, secondo i dettami del nuovo metodo, comparare ad una grandezza altre due, delle quali l’una era iscritta, e l’altra circoscritta, fu prima sua cura scegliere tra le figure da iscrivere o circoscrivere le più semplici, perchè più facili a potersi estimare e riferire. Il poligono adatta al circolo, il prisma al cilindro, la piramide al cono, e il poliedro alla sfera. Volgendosi poi alle sferoidi e conoidi non isceglie che cilindri, e dalle conoidi passando alla spirale non d’altro fa uso, che di settori circolari. E queste figure oltre a ciò va egli sì destramente ordinando, e disponendo, che semplice e chiara risultar ne potea la loro stima ed il loro confronto. Era questo l’artifizio, con cui il nostro geometra si spianava la via, che conduce all’invenzione, artifizio comune a tutti i grandi uomini, che riducendo a semplicità, e ordinando i primi passi giungono a scoprire quelle verità, che agli occhi volgari d’ordinario si celano.

    Nel circolo, nel cilindro, e nella sfera gli elementi della scienza corsero a lui d’innanzi per rivelargli il valore di quelle grandezze; ma nelle conoidi e nella spirale s’imbattè nel campo delle progressioni, che ingombro era di virgulti e di spine, in cui niuno erasi imbattuto prima di lui. Ma come il suo spirito cresceva di vigore, a misura che crescevano le difficoltà, così franco e libero cominciò a spaziarsi per serie e progressioni. Se mancasse altra prova, potrebbe chiunque restarne persuaso, il modo riguardando, con cui accrebbe la notazione aritmetica de’ Greci, ch’era misera allora, e molto limitata.

    Si agitava in quel tempo una quistione sul numero de’ granelli di sabbia, che sparsi si trovano sopra tutta la terra. Pensavano taluni essere un tal numero infinito. Erano altri d’avviso non potersi, ancorchè finito, esprimere in cifre; giacchè la greca notazione non giungea allora che ai soli centomilioni. Archimede, che solea concedere al suo spirito, che era matematico, ricreazioni del pari matematiche, prese parte a quella controversia, e scrivendo il suo Arenario lo indirizzò al giovane Gelone; giacchè la Corte di Siracusa era in que’ dì colta e gentile, e careggiava le arti e le scienze.

    Come se quel numero di grani di sabbia fosse stato piccolo per la sua mente, lo aggrandisce oltre misura, e va quel numero cercandone, che capir potea in una sfera, quale è quella del mondo o delle stelle. Allargò così il problema, e questo allargato, immaginò a scioglierlo un sistema, in cui le unità, come avviene nel nostro, van progredendo in una decupla ragione. Il limite, in cui finiva la greca notazione, fu allora principio della novella, perchè le sue unità furono i centomilioni, e le cifre, che questi esprimeano, divennero il primo termine di una progressione, che di mano in mano iva dieci volte crescendo. Cominciò a camminare luogo questa progressione, e riscontrò non molto lontano il numero de’ granelli di sabbia, che andava ricercando. Sciolse quindi il problema, ed insieme ampliò la greca numerazione, soddisfece alla fantasia, che si lanciava ne’ suoi voli al di là delle cifre aritmetiche, e fondò un sistema novello, che Apollonio ne’ tempi d’appresso rese più facile a praticarsi, perchè lo ridusse a maggior semplicità. Ma come il suo spirito rapido e impaziente sdegnava la noja di procedere di termine in termine per la novella progressione, immaginò un artifizio, con cui a suo senno lanciar si potesse da questo a quel termine, saltando gl’intermedj. Nè prima a ciò si rivolse, che immaginò tosto due lemmi, col cui ajuto di lancio e sicuro esprimer potea un termine qualunque della sua progressione12. Erano, egli è vero, que’ lemmi di semplice specolazione, ma di tal pregio, che richiamati furono alla luce, allorchè da’ moderni fu immaginata a pro delle scienze e dei calcoli la bella e utilissima invenzione de’ logaritmi.

    Uso adunque Archimede a spaziare tra serie non è da maravigliare, se in somma raccolse tutte le progressioni, che nelle sferoidi e nella spirale si presentarono. Le progressioni, che eran da porsi in confronto, eran tre, e con sì fatto ordine disposte, che mostravano quasi la sembianza medesima. Una progressione aritmetica, la cui differenza era eguale al termine più piccolo, rappresentava la figura circoscritta; la medesima progressione scema del termine più grande esprimeva la iscritta, e la terza avea ciascun termine eguale al più grande della prima; ma questa terza o tutta o parte esprimea la figura, che misurava la grandezza curvilinea. A queste tre progressioni corrispondeano tre somme, l’una delle quali dovea invariabilmente risultare maggiore di quella, che figurava la grandezza iscritta, e minore dell’altra, che rappresentava la circoscritta. Si potea accrescere ad arbitrio il numero de’ termini di queste progressioni; ma il loro rapporto sempre si manteneva costante, perchè pari passo quelle camminando, lasciavano inalterabile tra le loro somme il rapporto di maggioranza o di minoranza, nel quale il pregio e la sodezza posava del suo ragionare. Questo è l’andamento di Archimede nelle sferoidi, e nelle conoidi, e nella spirale, e così procedendo mostra tutta e chiarissima l’immagine del suo metodo, e ne fa ravvisare la generalità.

    Ma queste progressioni non aveano la medesima forma; anzi diverse venivano a risultare, come diverse erano le figure, che misurar si doveano. Nelle conoidi i loro termini rappresentavano cilindri d’altezza eguale, ch’erano proporzionali ai quadrati de’ diametri delle loro basi. E come sì fatti diametri erano nello stesso tempo le ordinate alla curva, che avea generato le conoidi, così aveano un valore diverso, come diversa era la curva generatrice. Nella parabola i quadrati delle ordinate sono come le ascisse corrispondenti, che van successivamente della medesima quantità decrescendo; e però nella paraboloide s’imbattè Archimede in una aritmetica progressione. Non così avvenne nella iperbola e nell’ellisse: come nella prima i quadrati delle ordinate sono nella ragione de’ rettangoli delle ascisse misurate dai due centri delle iperbole opposte; così ebbe il nostro geometra una serie, i cui termini sono formati da un rettangolo e da un quadrato, o sia una serie, che oggi chiamasi di terzo ordine13. Nella seconda poi gli si recarono innanzi i quadrati di un’aritmetica progressione, perchè nella ellisse i quadrati delle ordinate sono come la differenza de’ quadrati del semiasse maggiore e dell’ascissa corrispondente presa dal centro14. E finalmente un’altra progressione a quella eguale della ellissoide ei rinvenne nella spirale, in cui le figure iscritta e circoscritta sono settori simili di cerchi, i raggi de’ quali van decrescendo in una progressione aritmetica. Somma adunque di progressione geometrica, e di progressione aritmetica, somma de’ quadrati d’una progressione aritmetica, somma de’ termini d’una serie di terzo ordine, furono ad Archimede necessarie alla misura delle grandezze curvilinee, e queste somme, ancorchè impacciate fossero tra linee e figure, tutte egualmente e con egual destrezza egli raccolse colla sola virtù di sua mente e dei principj d’Euclide: anzi altre di più ne avrebbe in somma ridotto, se in altre si fosse imbattuto nel giungere al suo scopo, giacchè il sommar delle serie era mezzo, e non oggetto delle sue ricerche. Niuno degli antichi ebbe il coraggio di seguirlo in questa nobile carriera; furono i moderni che si occuparono di serie, e fu così che Archimede, lasciati gli antichi, si venne a collocare tra i nostri algebristi, i quali pieni di venerazione cessero a lui il primo posto d’onore, e lieti seguirono le sue onorate vestigia. Archimede, dicea Barrow parlando delle progressioni, fu il primo, che schiuse la sorgente, da cui hanno preso origine più e più fiumi, che son venuti ad irrigare i campi ubertosi delle matematiche15.

    Nè dovrà recarci maraviglia, ch’ei non abbia in somma raccolto delle serie infinite. I moderni sono rifuggiti a tali serie per supplire colla somma di queste o approssimante o esatta all’imperfezione, che seco naturalmente porta il calcolo integrale; ma il nostro geometra non confuse mai le rette colle curve, nè mai recò innanzi quantità o figure, che aumenti o decrementi avevano infinitamente piccoli, o di un numero infinito. Queste idee e queste parole erano allora profane, e sarebbero state proscritte come ingiuriose alla geometria. Era solamente suo scopo mostrare, che la somma della progressione, la quale esprimea la figura rettilinea, era di quella maggiore, che rappresentava la figura iscritta, e dell’altra, minore, che rappresentava la circoscritta, nè curavasi d’altro. Un sì fatto rapporto di maggioranza o minoranza era il segno indubitato per lui, che la figura rettilinea si potea sostituire alla curvilinea, che l’una dell’altra era misura, che l’una all’altra era in sostanza eguale. Nel rapporto quindi delle somme, e non già nel numero finito o indefinito de’ termini di ciascuna progressione tutta dimorava la virtù del suo ragionare. Per lo che, se non strinse egli in somma delle serie infinite, non fu per difetto di mezzi, o povertà d’ingegno; ma perchè la geometria di que’ tempi lo sdegnava, perchè il suo metodo non lo pativa. Nel quadrare in fatti la parabola, ove s’avvenne Archimede in una serie infinita, corse egli presto a sommarla, ma ne occultò col più maraviglioso artifizio l’idea dell’infinito. Sia, diceva egli, il numero de’ termini quale che vi piaccia, se a questo numero aggiungete il terzo dell’ultimo, la somma di tutti i termini sarà sempre quattro terzi del primo. Così scorreva Archimede tra linee e figure geometriche in mezzo a progressioni, ne coglieva la somma, e si aggirava ad ogni passo intorno all’infinito, e sempre l’evitava come avveduto auriga ne’ tempi antichi solea scansare la meta.

    È questa la ragione, per cui le sue dimostrazioni, che sono sempre sode, allo spesso riescono lunghe. Per evitare ogni inesattezza e conformarsi al rigor geometrico fu costretto nel mostrare l’eguaglianza tra le figure curvilinee e le rettilinee a scegliere un metodo indiretto, e come tale più stentato e men breve; per lo che pochi tra i geometri, e i soli non bene esperti ne’ metodi degli antichi han tenuto le dimostrazioni di Archimede per oscure e complicate, e pochissimi i profani, che hanno osato calunniarle di paralogismo16. Ma i più valorosi sanno, che la via impresa da lui non potea non esser lunga, e confessano, che i passi dati nel suo dimostrare, sebbene molti, sono tanti, quanti erano necessarj ad arrivar con sodezza e senza alcun contrasto alle gran verità. Però ammirano la sagacità e la forza insieme del suo pensiero nel conformare le sue dimostrazioni, come volea la natura del soggetto, la novità dell’impresa, la condizione de’ tempi, e lo stato della greca geometria.

    Dopo tanti travagli, o meglio, dopo tante scoverte potè in fine Archimede stabilire la misura delle grandezze curvilinee. Non solamente quadrò la parabola, ma si recò da vicino, e quanto più seppe, alla quadratura del circolo e dell’ellisse. Discoprì oltre a ciò le proprietà della spirale e delle conoidi, misurò le zone sferiche, e determinò il bel rapporto, che lega sfera, cono, e cilindro. Così tutto solo e colla sola guida degli elementi fondò la sublime geometria, ne accrebbe la dignità, e la condusse a grandezza.

    Avendo Archimede depositato tante gran verità ne’ suoi libri, in cui gran parte del metodo, i mezzi del dimostrare, la misura delle curve, ogni problema, ogni teorema è un’invenzione anzi un gruppo d’invenzioni, è stato egli il maestro di tutte l’età, e la scorta di tutti i geometri. Alla sua scuola si addottrinarono gli antichi, ed i suoi libri sono stati la palestra, in cui al rifiorir delle scienze sudarono e si esercitarono gli atleti, che han riportato nelle matematiche e premj e corone; nè altri mai in alcun tempo, se educato non sarà nella disciplina di questo Licurgo, potrà acquistare quella gagliardìa di mente necessaria a sostenere il travaglio, che seco portano le nobili e severe scienze. De’ suoi libri difatto hanno attinto i moderni quelle speculazioni e quei metodi, di cui va lieta e si onora la nostra età. Keplero ingegno ardito ed altissimo collo stesso coraggio, con cui distrusse l’edifizio della greca astronomia, ci svelò il primo l’idea e il nome d’infinito formando un circolo d’infiniti triangoli e un cono d’infinite piramidi. Cavaleri profittò del suo avviso, e sotto la forma degl’indivisibili diede il primo a vedere l’infinito, che nascoso giacea sotto opportuni velami ne’ libri del nostro Archimede. Sursero poi le flussioni, e gl’infinitamente piccoli, che al par degl’indivisibili altro non sono che i piccoli solidi di Archimede iscritti e circoscritti a tal picciolezza condotti, che non sono più degni di stima. S’immaginò il metodo de’ limiti, ed altro non si fece che tradurre Archimede. Archimede in somma hanno i moderni mostrato sotto varie sembianze, e con linguaggio diverso, e ad Archimede sono eziandio rifuggiti per autorizzare i loro metodi e rendergli accettevoli.

    Allorchè apparvero i nuovi calcoli e i metodi de’ moderni si gridò da ogni parte contro l’oscurità de’ loro principj, e l’inesattezza del loro linguaggio; anzi fu comune opinione tra quei, che erano avvezzi al rigor degli antichi, che venissero meno le matematiche venendo meno la loro chiarezza natìa. Tentavano, egli è vero, i più sublimi algebristi di diradare le nebbie, in cui inviluppati si stavano i loro metodi; ma gl’ingegni erano sempre indocili, e liti e contrasti si mossero nella pacifica geometria; per lo che altro scampo non ebbero i fabri de’ nuovi calcoli, che rifuggire ad Archimede. Quando l’esercito greco correa alla sommossa, e i Diomedi e gli Atridi veniano tra loro a contesa, era il senno di Nestore, che sedava i tumulti e componea le discordie. Si misero quegl’inventori, non senza grande accorgimento, a dimostrare co’ loro ingegni, ch’eran facili e spediti, quelle stesse verità, che il geometra di Siracusa, era gran tempo, avea già scoverto e dimostrato. L’uniformità delle cose trovate fu allora segno della sodezza de’ loro calcoli, e la facilità nell’arrivarle, indizio della loro utilità. Rassicurati così gli spiriti dall’autorità di Archimede divennero men ritrosi a’ metodi novelli, e intervenendo il nostro geometra non altrimenti che mallevadore autorizzò le invenzioni degli stessi moderni. È stato, egli è vero, l’onor dell’Italia il sommo La Grangia, che ha condotto non ha guari a gran luce i principj de’ moderni riducendo il calcolo sublime, proscritte le differenziali, ad algebra di variabili e finite quantità; ma fu per mezzo di Archimede, che durante l’oscurità di quei principj, si vinse la ripugnanza degl’ingegni, e si facilitò la propagazione de’ nuovi calcoli.

    Dotato adunque, come egli era, di altissimo intendimento, presto nell’inventare, severo nel dimostrare avanzò colle sue scoverte la scienza, e gran vantaggio ha recato alla posterità. Ha egli da più, e più secoli educato gl’ingegni, incoraggiato i timidi, mostrato a tutti le vie da imprendere e le nuove regioni da scoprire, sostenuto i primi e difficili passi de’ geometri, e indicato a tutte le nazioni il sacro alloro, le cui frondi, come han cinto la sua fronte, debbono quella onorare de’ grandi uomini. Non si possono ricordare i nomi di Fermat e Roberval, di Maurolico e Cavaleri, di Wallis e Barrow, non si può ricordare lo stesso Newton senza fare insieme onorata menzione di Archimede, che tutti gli educò, e quasi gli scorse per mano nel difficile e spinoso cammino delle matematiche. Ne pigli vanto la Sicilia, che lo produsse, giacchè i soli grandi uomini e le loro virtù tornar possono a gloria delle nazioni. Ma così piacesse a Dio, che come ella ne piglia il debito vanto potesse esser madre feconda di nuovi allievi, che avessero il coraggio di emularne il senno geometrico e gli onori, che lo coronano.

    Severo e ingegnosissimo fu il metodo immaginato da Archimede per la misura delle curve, ma non è da credere, ch’egli lo abbia adoprato nell’inventare, siccome fece nell’esporre e dimostrare le sue scoverte bellissime: molte proposizioni s’incontrano ne’ suoi libri, e una in particolare ve n’ha nell’equilibrio de’ piani17, che chiaro ci annunziano essere state da lui ritrovate per modi non allora in uso tra i geometri, e quindi nelle forme consuete ordinate e disposte. Nè molta fatica è da sostenere leggendo Archimede per trovare nelle sue dimostrazioni ora una via ed ora un’altra, con cui riggettate alcune piccole differenze senza la lunga serie de’ suoi ragionamenti, giunger si possa alla verità de’ suoi teoremi. La sua mente oltre a ciò era stata già avvertita nel sommar la progressione, con cui misurò la parabola, che senza andare errato trascurar si poteano alcune piccole quantità. Non è quindi fuor di ogni verosomiglianza il credere, che Archimede men severo inventando che non era dimostrando le cose inventate, fosse tant’oltre progredito iscrivendo, che confuso abbia le figure rettilinee con quelle, che da curva si chiudono. Ma procedendo così arditamente non facea che congetturare, e schizzare, dirò così, nel suo gabinetto le scoverte; il suo spirito poi non mai si acquetava, e in continua sollecitudine era inviluppato sinchè non avesse nella solita forma assodato le cose, che avea abbozzato e veduto colle congetture. Ripigliava allora la più scrupolosa severità, non altro riguardava che i principj della scienza, nè mai si ristava, se prima ogni cosa non avesse con sodezza dimostrato. I teoremi sulle sferoidi, scrivea egli a Dositeo, han tenuto il mio animo per lungo tempo dubbio ed incerto, giacchè dopo di averli esaminato più volte mi parea, che contro i medesimi nuove insorgevano e non poche difficoltà; ma avendoli quindi più attentamente considerato son giunto in fine a trovare quei chiarimenti, che mi erano da prima fuggiti.18 In questa guisa dava egli a vedere, che due erano i suoi metodi, e due le fatiche del suo ingegno nello specolare, l’una inventando e l’altra dimostrando; vogliono queste due maniere di fatica un ingegno, che ora franco ed ardito nell’invenzione si lancia, ed ora cauto e severo nel dimostrare procede, e questa doppia sembianza del pensiero di Archimede chiara a tutti si mostra ne’ libri di lui.

    Prepara egli da prima, e con diligenza dispone quelle verità, che vanno di mano in mano stabilendo un teorema principale; ma, queste posate, corre sollecito a trame nuove e recondite illazioni. Cammina da principio a piccioli passi, e cauto e paziente ordisce, incatena, compone, perchè nella evidenza e semplicità delle prime idee la forza è riposta e la sodezza del ragionare; si slancia di poi a gran passi, e libero e sicuro cerca, svolge, disvela le più belle verità, perchè allora in più un sol teorema trasforma, e ragionare in certo modo altro non è che tradurre. Si vede in fine ora un fiume, che lentamente s’ingrossa, ed ora un torrente, che ingrossato velocemente discorre; ma sia che Archimede svolga o componga, spesso adopera la sintesi, talora l’analisi, non mai si allontana dal rigor matematico, e sempre trionfa, perchè sempre discopre.

    Nel libro della sfera e del cilindro era suo scopo coglier le misure della superficie e solidità d’una parte, o di tutta la sfera; ma prima guida per mano i geometri, e va loro più e più proposizioni mostrando, alcune delle quali sono grandi in se stesse, ciascuna prepara la via a quella misura, e tutte insieme l’assodano e fiancheggiano. La mente di chi legge va così spiando tutto il cammino, prevede quella misura prima di vederla, e si lusinga di trovarla mentre Archimede gliela presenta e dimostra.

    Misurata la sfera, i più utili problemi dichiara, che da quella misura dipendono. Dati due pezzi di una sfera, un terzo ne ritrova, che ad uno di quei due sia simile, ed all’altro eguale nella solidità, come nella superficie; ed ora ad una sfera fa eguale un cono o un cilindro, ed ora i segmenti in tal modo ne taglia, che abbiano questi una proposta o misurata ragione ad un cono o ad un cilindro della medesima base ed altezza. Ritrova in somma, e interpetra nuovi ed ardui problemi a questi adattando, e in modo convenevole trasformando quella misura della sfera, che già aveva estimato e conosciuto, perchè da questa, com’egli dice scrivendo a Dositeo, viene e procede la più parte di quelli problemi19.

    È cosa maravigliosa a vedersi come ei ne’ più difficili e spinosi problemi lieto si avanza quando coll’analisi, quando colla sintesi. Per le vie ingegnose dell’analisi taglia una sfera in due porzioni, le di cui superficie sieno tra loro in qual ragione che si voglia. Per le vie laboriose della sintesi colloca e incastra tutti i rapporti, che possono avere tra loro le solidità di due pezzi ineguali di unica sfera in mezzo a due confini, che sono due potenze o funzioni delle superficie di que’ pezzi medesimi. Nè lascia di mostrare, che tra due pezzi sferici il massimo in solidità sia l’emisfero, o pure quello, che a questo più si avvicina. Vince in somma colla sintesi que’ problemi, che vincere oggi non senza stento si possono coll’ajuto dell’algebra, e de’ massimi, e de’ minimi.

    E giacchè parlando di Archimede non si può fare a meno di ammirare le forze della sintesi, sarebbe oramai da desiderare,che i docili ingegni de’ giovani fossero prima d’ogni altro esercitati nella geometria degli antichi. Darebbe questa una maravigliosa tempra a’ loro teneri intendimenti, affinerebbe il loro intelletto, e facendoli più gagliardi e robusti, atti li renderebbe alla carriera delle severe scienze. Gli atleti non si educano nelle mollezze di Sibari e di Capua, ma nelle fatiche del Circo e dello Stadio. L’esercizio più opportuno alle menti de’ giovani è certamente la sintesi, che le guida con ordine mirabile, rinvigorisce le loro forze, e mostra tra lo splendor dell’evidenza l’aspetto giocondissimo delle più utili verità. Per buona fortuna l’Italia, che è ricca di allori per li suoi travagli nell’algebra, non ha mai posto in oblìo la geometria degli antichi, e pare, che già si corregga il gusto tornandosi agli antichi geometri anco presso quelle nazioni, che, vestendo la geometria di formole e di equazioni, la spogliarono de’ suoi naturali ornamenti, evidenza, e sodezza. Già sono stati pubblicati e tradotti i più famosi tra gli antichi geometri, e già vi ha chi emulando Euclide ha richiamato la geometria all’antica severità. Che se alcuno stimerà questi voti inutili per avventura o esagerati, è da ricordare, che sono quegli appunto, che eccita ed ispira il grande Archimede, il quale non pago delle sue speculazioni sulla sfera e sul cilindro spicca ancor colla sintesi più alto il volo trattando della spirale.

    Volgendosi Archimede a questa curva, che porta il suo nome, perchè il primo l’illustrò, ei s’immerse ad un tratto nelle più profonde ricerche: eguaglia una linea retta, che è la suttangente ad un arco, ad una o più circonferenze d’un cerchio; comparando oltre a ciò gli spazj, che sono chiusi tra le spire in aree circolari, tra queste e quelli trova ed insegna costanti i rapporti: mette in fine in confronto gli spazj interposti tra le spire, che in bello ordine si succedono, e scopre, che tutti, eccetto il primo, van pari passo crescendo, e alla legge obbedendo della serie de’ numeri naturali. Ma nello investigare queste ed altre simili verità va prima a passi lenti stabilendo i particolari teoremi, e poi in alto levandosi questi presenta sotto una forma più elegante e generale. Eran questi sentieri allora ignoti, e sono anche al presente spinosi per noi, ed egli là si avanzava colla sintesi, dove oggi non hanno il coraggio d’inoltrarsi i moderni senza la guida del calcolo sublime. Che più? fu egli il primo, che vinse il problema allora famoso della quadratura del cerchio, il quale non era stato mai vinto da geometrico artifizio. Frammettendo la circonferenza del circolo tra due poligoni, l’uno iscritto e l’altro circoscritto, il valore ne trasse in parti del diametro per via dell’approssimazione, che suol essere il felice supplemento a’ nostri metodi, e talora alla scienza medesima. Conosciuto questo valore, si provvide a’ bisogni delle arti e della società; divennero all’istante utili i rapporti, che prima di lui aveano ritrovato i geometri tra i circoli e i corpi rotondi; si ebbe l’unità di misura, con cui estimare le curve e i solidi curvilinei, o la sfera e le sferoidi, il cono e il cilindro: e partendosi in somma di là, ove i suoi antecessori si erano fermati, si avanzò più oltre, e costruì il maestoso ed immortale edifizio della sublime geometria.

    Nè è da passare sotto silenzio, che fu così tenace nel fondar, come aveasi proposto, questa grand’opera su’ primi elementi della scienza, che trascurò di chiarire que’ problemi, che scioglier non potea colla riga, e il compasso, perchè l’ajuto cercavano insieme del circolo, o d’altra curva delle coniche. Ogni volta di fatto, che s’imbatte in simili problemi, che oggi chiamano di terzo grado, si contenta di accennarne con alcuni teoremi la soluzione, o di ridurli a trovare due medie proporzionali, nè passa più oltre: ma per condurre, come fece, a perfezione quest’alto suo pensamento quale dovea essere la gagliardìa del suo ingegno, e quale il suo sentimento nelle cose geometriche? La geometria ove s’inalza alla considerazion delle curve è costretta ad ordire lunghi e non interrotti ragionamenti per trovare quelle verità, che di loro natura sono astruse e lontane; però l’intelletto dell’uomo può a stento incatenare tante idee, multiplici di numero, e varie ne’ loro rapporti, e legandole si fatica, vien meno, non di rado s’annoja, e spesso nel cammino si arresta. Ciò nondimeno riuscì Archimede in sì alta impresa, e nel drizzare i suoi ragionamenti così forte li lega, e fil filo connette, che giungono talvolta a travagliare ancora noi, che già belli e spianati li leggiamo ne’ suoi scritti. È questo uno de’ punti di vista, sotto cui Archimede una mente dà a vedere così destra e robusta, che par voglia oltrepassare i confini d’ordinario prescritti all’umano intelletto.

    L’unica arma, che potea a lui porgere la geometria, era quella delle proporzioni, che sulla somiglianza si fondano delle figure. Quest’arma egli impugna, e di questa munito affronta e vince tutti gli ostacoli, che senza posa nel suo cammino rincontra. La sua mente ristretta in sì fatti confini pare che acquistato avesse un vigore novello per la felice combinazione con cui le intreccia, e per la destrezza, con cui le dispone. In mille guise diverse inverte e converte, somma e sottrae, alterna e permuta tutte le ragioni. Queste dispone in più ordini, ed ora i rapporti cerca quando delle loro somme, e quando de’ loro prodotti, ed ora i rapporti rintraccia di que’ termini, che in varj modi e in varj luoghi fra lor si rispondono: e sempre in ciò fare si mostra così destro e vigoroso, che talora riesce per vie inaspettate al suo scopo, spesso ci fa desiderare un riposo in seguirlo, e sempre maraviglia e venerazione si attira. Le proporzioni in somma erano tanti fili, ch’egli a suo senno intrecciava, e de’ quali la gran tela ordiva delle sue dimostrazioni. Barrow non sapendo immaginare, che ingegno mortale avesse potuto a tanto giungere colla virtù del ragionare, è venuto in opinione, che Archimede fosse stato ajutato dall’algebra, che segretamente conoscea, e studiosamente occultava20. Tanta è la fatica, tanta è l’intensità del pensiero, l’assiduità dell’attenzione, che dovea durare Archimede col suo intelletto nell’inventare e nel dimostrare le cose discoverte da lui.

    Ma senza rifuggire ad ipotesi, che prive sembrano di verosimiglianza e di ragione, è da credere essere state le cose geometriche così familiari al suo spirito, come son pronte a chiunque le parole del linguaggio natìo nel conversare. I suoi occhi trasformavano le cose, ch’esistono, in esseri matematici; la sua immaginazione non tracciava che linee e figure; il suo intelletto, non rivolgea che teoremi geometrici; il suo mondo in somma era tutto matematico. Per lo che la sua mente rivolta in sè stessa, esercitata nelle vie dell’intelletto, versata nelle verità geometriche, di queste e non d’altro prendea senso e diletto: di che venía, ch’egli talora non s’intrattenea delle cose di fuori, e ponea, come vuole Plutarco, non di rado in dimenticanza i bisogni eziandio della vita21. Rideranno forse alcuni nel sentire, che Archimede non curava talora di ungere il suo corpo, o che nell’atto che lo ungea per conforto di sua fantasia segnava linee e figure sul suo corpo medesimo. Ma ciò non dee recar maraviglia a chiunque sa, che la mente nostra quanto più si raccoglie in se stessa, tanto più si aliena da’ sensi. Coloro, che occupati sono in qualche pensiero più e più volte, e non di rado per inezie, divengono astratti dagli uomini, non veggono, non sentono. Archimede adunque, che contemplava altissime cose, e preso era dalla dolcezza di queste; quanto più si stendea nel pensiero, tanto meno si affaccendava alla cura del corpo. Così e non altrimenti possono gli scienziati dalla terra inalzarsi, pigliare le vie sublimi del cielo, le fame eterne acquistare. Era di fatto l’avidità del sapere, e l’ardore della gloria, che reggea le sue forze, aguzzava il suo intelletto, sostenea la sua attenzione. Nè i suoi desiderj andarono falliti: nome e fama chiarissima ebbe allora presso di tutti, e la posterità, che non suole ingannarsi nella stima degli uomini, che già furono, lo riguarda come chi tra gli antichi, oltre di ogni altro geometra, fu presto e copioso nell’inventare. Sono, egli è vero, famosi i nomi di Euclide e di Apollonio, che ambidue tra’ greci alto salirono nelle cose geometriche; ma costoro, sebbene avessero accresciuto la scienza colle proprie speculazioni, pure intenti furono a mettere insieme quelle verità, ch’eran conosciute, e quà e là si trovavan disperse: mostrarono ambidue, in ciò fare, singolare intendimento e perizia delle cose matematiche, e profitto recarono inestimabile agl’ingegni ed alla posterità. Ma occupandosi in parte delle altrui scoverte perdettero un tempo nel ricalcare le vie già calcate da’ loro predecessori. Archimede fu il solo, che sdegnò di trattare le cose già trattate, e di là partendosi, dove gli altri si erano ristati, non pensava che ad inventare, e sempre per vie nuove, ardue, spinose verso l’invenzione lanciavasi. Che se alcuno si mostrerà ritroso a concedere tale superiorità al nostro geometra sopra Euclide ed Apollonio, potrà almeno reputare questi tre prestantissimi geometri come i triumviri, che alla repubblica matematica prescriveano leggi e divieti; ma non potrà certamente negare, che Archimede più avanti inoltrandosi, che Euclide ed Apollonio non fecero, nelle miste discipline, l’uno e l’altro abbia lasciato dietro di se, e solo abbia strappato la palma promessa a colui che più scopre e travaglia a pro delle scienze e della società.

    Siracusa a parte d’un ottimo principe, che ne reggea con saviezza l’impero, era lieta di un altro dono del Cielo, del grande Archimede, che cooperava coll’ ingegno alla gloria e felicità della patria. Traendo ella, come stato marittimo, potenza e dovizia non tanto dalle città, cui dominava, ch’erano assai poche, quanto dalle navi e dal commercio, pensò il nostro geometra di volgere la sua mente a quegli studj, che dirigono le mani dell’artefice nel trattare le macchine, nel costruire le navi, nel migliorare le arti. Prese di fatto a speculare sulle meccaniche, e come le venne contemplando, le tolse dalla rozzezza, in cui esse giaceano, e le condusse a stato e dignità di scienza.

    Lo spirito di Archimede facile e destro nell’inventare l’una all’altra speculazione legava, e tutte insieme le connettea nella sua mente. Per lo che volgendosi dalle pure matematiche alle miste discipline la via si mise a ricercare, per cui dagli oggetti geometrici potea la sua mente discendere a quei, che son fisici, e da questi a quelli colla stessa facilità risalire. Un punto trovò in ciascun corpo o sistema di corpi, che tutto in se aduna e raccoglie lo sforzo, che fa la gravità del corpo o del sistema, o sia trovò il centro di gravità. Questo punto, che è comune agli oggetti fisici e matematici, partecipa insieme delle fisiche e matematiche qualità; poichè i corpi, di quale grandezza che fossero, restando pesanti, siccome sono, si riducono per mezzo del loro centro di gravità a soli e semplici punti, ed acquistano, come tali, una sembianza matematica. Le linee poi e le figure geometriche, ove si considerano dotate di gravità, ritengono un sì fatto centro in quello della loro grandezza, e diventano, dirò così, fisiche senza perdere le naturali loro qualità geometriche. Per via adunque del centro di gravità comune agli oggetti fisici e matematici possono le pure discipline riuscir nelle miste, e per mezzo di questo centro passò la mente di Archimede dalla geometria alle meccaniche, che sfornite erano allora di principj, e il conforto esigevano delle sue speculazioni.

    Le macchine e gli strumenti, siccome è naturale, furono assai prima inventati, che pensato non si fosse a ridurre in iscienza le meccaniche; perchè gli uomini guidati e sospinti dal bisogno, che è pronto, imperioso, attivissimo, vennero presto a formarsi gli ordigni delle arti: s’inalzarono in fatti i più maestosi edifizj coll’ajuto della leva molto tempo prima, che conosciuto non si fosse come, e perchè questa macchina conforta le nostre forze a movere e innalzare pesi gravissimi. Ma non così presto potè esser creata la scienza, che regola le leggi dell’equilibrio e del movimento de’ corpi; poichè gli uomini nell’inventare furono costretti a prender norma dalla ragione, la quale con lentezza procede, incatena a poco a poco le verità, e col tempo produce le sue opere. Ne’ libri in fatti di Arislotele si trovano i primi barlumi della meccanica; ma se quivi leggesi tutte le macchine allora in uso potersi ridurre alla leva, e questa alla bilancia, supposizione e sospetto era soltanto, non già fatto e dimostrazione, perchè i principj allora s’ignoravano della meccanica. Archimede fu il primo, che cercò l’equilibrio de’ piani per mezzo del centro di gravità, e il primo additò agli uomini il principio, giusta cui una leva non altrimenti che una bilancia si mette e riposa in equilibrio.

    Scorre egli da prima le figure geometriche, e la posizione determina del centro di gravità nel paralellogrammo, nel triangolo, nel trapezio rettilineo, e sopra d’ogni altro nell’area d’una parabola, in un trapezio parabolico, in una paraboloide, e vi giunge per tali ingegni, che recano ancora ammirazione e sorpresa. E se non è vero, come alcuni vogliono, che siensi perduti i libri, in cui Archimede facea più distesa parola de’ centri di gravità, egli è certo, che di tante figure cercò e rinvenne que’ centri, di quante si propose di trovar l’equilibrio. Era questo l’andamento ordinario del suo spirito; scopriva nuove regioni geometriche, e tanto in queste si spaziava, quanto era necessario al suo scopo, nè curavasi d’altro.

    Eleva poi a principío generale una verità d’esperienza, cioè che pesi eguali a distanze eguali dal punto d’appoggio si equilibran tra loro; e da questo principio ricava ciò, che non sapeasi, che pesi ineguali a distanze reciproche da quel punto debbono ancor essi restare in equilibrio, perchè allora la leva si riduce anche a bilancia. Giunge egli a dar questo passo quando le grandezze sono incommensurabili per via del metodo generale, che lo avea guidato alle più sublimi scoverte nella geometria delle curve. Ma quando le grandezze sono commensurabili, l’artifizio, che pone in opera, è semplicissimo. Suppone una linea retta divisa in parti eguali, e caricata in ciascuna parte di pesi eguali, che tutti si equilibrano nel punto di mezzo, che è stabile e fisso; o in altri termini una bilancia suppone a braccia eguali. Ritenendo poi stabile il punto di mezzo divide quella linea in due porzioni ineguali, cui un numero corrisponde di pesi parimente ineguale, e rappresenta il numero così maggiore, che minore di questi per lo rispettivo loro centro di gravità, che il mezzo sortisce di ognuna delle due ineguali lunghezze. In tal guisa i pesi sono espressi da’ due centri di gravità, e questi sono tra loro nella ragion reciproca delle distanze, o sia senza turbare l’equilibrio la bilancia a braccia eguali a bilancia riduce a braccia ineguali, e questa come quella si tiene in equilibrio, perchè i pesi sono in ragione inversa delle distanze dal punto di appoggio22.

    Archimede ebbe cura di provare, che due pesi eguali sortivano il centro comune di gravità nel mezzo della linea, che unisce i loro centri. Ma sia che sembrasse a lui cosa evidente, sia che altrove, come è più verisimile, l’avesse dimostrato, trascurò di provare, che l’equilibrio non si turba allorchè due pesi eguali per via del loro comune centro di gravità nel mezzo si uniscono della loro distanza. Niuno sino al secolo decimosesto dubitò della dimostrazione di Archimede, e furono Stevin e Galileo i primi a pigliarne sospetto; e se Hugenio ne recò un’altra nuova ed ingegnosa, che esente era di quella difficoltà, non parve questa così incontrastabile e soda, che fosse reputata senza replica. Ciò nondimeno niuno può negare, che Archimede fondò la statica, e pose il primo i principj dell’equilibrio riducendo la leva a bilancia.

    La leva adunque non fu per Archimede che una linea retta, il punto di appoggio che un punto fisso, e i pesi non altro che punti matematici dotati di gravità, e questa bilancia, la quale altro non avea di fisico che il peso, col mezzo de’ centri di gravità divenne per lui tutta geometrica e razionale. Però coll’ajuto di questa bilancia fece Archimede ritorno dalle cose fisiche alle geometriche: cominciò a pesare figure matematiche, e dal modo, con cui queste si equilibrano, andò trovando il rapporto delle loro superficie. Appese ad un braccio della sua bilancia un triangolo rettangolo, che era circoscritto alla parabola, ed all’altro i trapezj iscritti alla medesima curva, e contrappesandoli mostrò, che un terzo di quel triangolo della somma di questi è sempre maggiore. Levati i trapezj iscritti, sostituì a questi nel medesimo braccio i circoscritti, e bilanciandoli del pari indicò, che il terzo di quel triangolo de’ trapezj circoscritti riesce costantemente minore. Pesò in fine sulla medesima bilancia quel triangolo e la parabola, e trovò, che un terzo di quello viene a questa eguale esattamente. In tale modo per via dell’equilibrio e de’ principj meccanici, o sia per un cammino tutto nuovo ed inaspettato arrivò a quadrar la parabola, ch’era intento a misurare, col metodo geometrico e comune della iscrizione. Ma quante invenzioni egli non fece per discoprire il principio semplicissimo della statica! Trovò il centro di gravità; lo vide non che tra i corpi, ma negli esseri ancora geometrici; lo rinvenne in molte figure, ed in quelle eziandio, che vogliono gran magistero, come nella parabola, nel trapezio parabolico, in una paraboloide; ridusse co’ centri di gravità la leva a bilancia; stabilì in fine il principio generale dell’equilibrio, ed applicò la statica alla stessa intellettuale geometria. Gli antichi presi di maraviglia ristettero a cementare il principio dell’equilibrio recato per la prima volta da Archimede, e lo mostrarono al più nelle macchine, ch’erano in uso tra loro, nè seppero più innanzi procedere. Si ebbe ad aspettare il secolo decimosesto per potersi aggrandire la statica, allorchè surse il gran Galileo, che colle celerità virtuali, e per mezzo del paralellogrammo delle forze la nobilitò, e sospinse gl’ingegni a scorrer più oltre in questa nobilissima scienza.

    Dall’equilibrio de’ corpi salì Archimede per la via de’ centri di gravità alle cose geometriche, e da queste tornò per la medesima via alle cose fisiche cercando l’equilibrio de’ fluidi. Pigliò, come egli solea, una verità di esperienza, e l’innalzò a principio generale; perchè sapea fecondare i nudi e semplici fatti, e cavar da’ medesimi que’ teoremi, che fondare e illustrare possono una scienza. La natura dei fluidi, dice egli, è così fatta, che, tra le sue particelle, le meno premute sono dalle altre discacciate, che sono premute di più. Ogni parte del fluido, egli soggiunge, è premuta sempre da quella colonna, che di sopra le risponde verticalmente. Pone in somma una perfetta eguaglianza di pressione, affinchè una massa fluida, e ciascuna sua parte si tenesse in equilibrio. Colla guida di questo principio comprese col suo intelletto, che la superficie d’un fluido pesante, che stassi in equilibrio, deve essere sferica e non già piana, come ci mostra la testimonianza fallace de’ sensi; perchè le particelle fluide portandosi lungo la verticale verso il centro della terra debbono disporsi in isfera, acciocchè vadano lungo i raggi verticalmente al centro della medesima terra; e però sferica, non già piana dimostrò l’immensa superficie del mare. Dopo di che va i solidi immergendo nei fluidi pesanti. Un solido, dice egli, immerso in un fluido perde del peso, e questa perdita è al peso eguale del fluido, ch’esclude immergendosi. Difatto eguali volumi di corpi più pesanti del fluido, in cui s’immergono, perdono parti eguali del loro peso: egli il dimostra in un suo teorema, e più corollarj ne cava, che sono tutti bellissimi. Se un corpo ha un peso eguale a quello del fluido, in cui si tuffa, in quel punto ristà ove s’immerge; e se un corpo pesa più del fluido, ch’esclude immergendosi, cala questo a poco a poco colla differenza del peso, e al fondo si va a riposare. Che se specificamente più leggiero è del fluido, è allora sospinto all’insù dall’eccesso del peso del fluido medesimo, ed emergendo alla superficie si mette a galleggiare. Tutte queste verità, che ritraeva Archimede non già coll’esperienza, ma col suo ragionare, eran corollarj del principio già posto dell’equilibrio: con tutte queste verità creava ei l’idrostatica, e con queste potè iscoprire al Re Gerone l’inganno d’un artefice, il quale avea posto dell’argento in una corona, che dovea essere tutta oro.

    Avendo lasciato scritto Proclo Licio, che Archimede senza guastar la corona trovò quanto era il peso dell’oro, e quanto quello del- l’argento, che l’artefice aveavi per frode mescolato; molti tra gli antichi e tra i moderni han cercato di speculare, come il nostro geometra fosse pervenuto a discoprirlo. Vitruvio ci riferisce, che Archimede potè ciò indagare per mezzo delle diverse porzioni d’acqua, che uscivan fuori di un vaso egualmente pieno, allorchè ad una ad una immerse prima la corona, e poi due masse, una tutta d’oro, e l’altra tutta d’argento, eguali in peso e tra loro, e a quello della corona. Ma sebbene Vitruvio ci dica avere Archimede scoverto in questa guisa, che nella corona vi avea dell’argento; pure non ci avverte, che ne determinò precisamente la quantità. Questa per altro si dovea ricavare dal rapporto, nel quale erano tra loro le diverse porzioni di acqua uscite fuori del vaso, che non si possono bene e con esattezza misurare. Però altrimenti che Vitruvio dichiara questo fatto Prisciano, o altri che fosse l’autore del libro de’ pesi e delle misure. È egli di avviso, che il nostro geometra mettendo in equilibrio nell’aria due libbre, una d’oro e l’altra d’argento, nell’acqua dipoi l’abbia immerso; e come si rompea così l’equilibrio, perchè l’oro perde meno del peso, e più l’argento, aggiunse alla libbra d’argento tanto di questo metallo, quanto tornate fossero ad equilibrarsi quelle due libbre stando nell’acqua. Mise quindi in equilibrio sopra la bilancia la corona e una massa d’argento, e poi nell’acqua tuffolle. Sapeva egli per la prova già fatta quanto argento doveva aggiungere a quella massa per restituir l’equilibrio tra questa e la corona nel caso, che fosse stata tutta oro, così ben presto si accorse del furto; poichè quanto meno di quel metallo dovette aggiungere, tanto più grande era stata la frode.

    Ma tutti questi saggi, e tutte queste prove di esperienza non sono ad altri parute degne di Archimede, nè dell’andamento del suo spirito, ch’era tutto intellettuale. Per lo che hanno alcuni creduto potersi ricavare il modo, che tenne Archimede nello sciogliere quel problema da ciò, che posti nell’acqua corpi di volume eguale, eguale viene a risultare la perdita del loro peso. Altro adunque non ebbe a fare il nostro geometra, che tuffare nell’acqua due verghe, una d’oro e l’altra di argento in tal modo formate, che ciascuna di queste per- dea lo stesso peso, che facea nell’acqua la corona; dopo di che pesò questa nell’aria, e le due verghe, e dal rapporto, in cui si tenea l’eccesso del peso dell’oro su quello della corona all’eccesso del peso della corona su quello dell’argento, argomentò le quantità precise de’ due metalli, ch’erano stati in quella corona mescolati. Ma tutte queste soluzioni suppongono, che la corona non contenea che due soli metalli, oro ed argento, e non altri; se l’artefice in luogo di due avesse mescolato tre metalli, la corona avrebbe potuto risultare sempre dello stesso peso, e il problema venire indeterminato e di più soluzioni capace. Ma quale si fosse stato l’artificio posto in opera da Archimede, egli è certo per la concorde testimonianza degli autori, ch’ei giunse con gran sagacità a chiarire un sì fatto problema: anzi Gerone, i Siracusani, e tutti gli antichi furono così colpiti di stupore nel sentirne la soluzione, che gli scrittori ne hanno accompagnato ed ornato il racconto col maraviglioso. Ci hanno essi lasciato scritto, che stando Archimede dentro il bagno nel punto, che colse il chiarimento di quel problema, ne fu sì lieto e fuor di se, che uscito dall’acqua nudo se n’andò verso casa gridando a chiara ed alta voce: Ho ritrovato, ho ritrovato. Non è credibile, che lo spirito di Archimede esercitato in ogni maniera di speculazione, e presto, e già uso all’inventare abbia sì alto levato le maraviglie per una pura e semplice applicazione de’ principj idrostatici a quel problema, che, vinto ogni decoro, fosse nudo e gridando corso per le vie di Siracusa. Questo racconto in luogo di esprimere la sorpresa e l’allegrezza di Archimede, altro non ci può indicare, che la maraviglia e lo stupore di quelli, i quali ignorando i princjpj dell’idrostatica non sapeano persuadersi in qual modo, e con quale argomento fosse egli venuto a scoprire, senza guastar la corona, il furto, che era stato fatto dall’artefice. Quando Archimede disse a Gerone: Datemi un punto, ed io solleverò la terra, fu certamente Gerone, che n’ebbe maraviglia, non già Archimede, il quale altro non facea, ch’esprimere il principio e la teorica della leva. Così e non altrimenti avvenne per l’interpetrazione del problema della corona. Fu Gerone, ch’esclamò di voler credere tutto ciò, che potea dire Archimede, furono tutti quei che ignoravano i principj dell’idrostatica, che levaron su le maraviglie, e trasportando in Archimede il proprio stupore, inventarono il bagno, la nudità, le grida. Se dovea sentirsi il petto pieno di allegrezza fu certamente allorchè gli venne fatto di trovare l’equilibrio de’ galleggianti, e la loro stabilità idrostatica per la novità, per l’utile, e per l’importanza di tale scoverta; e pure non fa altro, che porne i varj teoremi con indifferenza nel secondo libro, ch’ei scrisse su’ corpi, che sono trasportati in un fluido.

    Alla teorica de’ galleggianti levando su l’animo trasse dall’esperienza un principio novello dicendo: Ogni fluido, che sospinge all’insù, lo fa lungo la verticale, che passa per lo centro di gravità del corpo sospinto. Alla vista di tal principio si conobbe immantinente, che il peso d’un galleggiante trovandosi raccolto nel suo centro di gravità viene ad esser distrutto dalla spinta del fluido all’insù, e dall’azione di queste due forze, che sono eguali e contrarie, ne risulta l’equilibrio; ma come la sua mente non vedea ne’ galleggianti che navi, e volea provvedere al vantaggio della navigazione, così andò investigando come, e perchè, e in quali circostanze un sì fatto equilibrio potea avere stabilità. Inclinò col pensiero l’asse dei galleggianti per determinar con esattezza, e colla guida de’ suoi principj, quando quelli inclinati per avventura ristanno, quando ripigliano la diritta loro posizione, o pure si capovolgono e rovesciano. A parte del centro di gravità di tutto il galleggiante ne distinse altri due, l’uno della parte immersa nel fluido, l’altro della emersa, e poi si mise a considerare l’azione di ciascuno di questi due centri, e in che modo possono tra loro operare. Il centro di gravità della parte sommersa, dicea egli, è sospinto all’insù lungo la verticale del fluido sottoposto, e quello dell’emersa tende all’ingiù lungo la verticale in forza della sua gravità. Or quella spinta operando da una parte all’insù, e la gravità dall’altra parte all’ingiù, ambidue queste forze si bilanciano sul centro di gravità di tutto il galleggiante, e questo a poco a poco è costretto a ripigliare la sua diritta posizione. Una bilancia, cui è stato dato il tracollo, certamente si rimette, se spinto all’insù il braccio che piega, l’altro per la gravità si porta al basso. Si conobbe così la stabilità idrostatica, e furono per la prima volta palesi i principj da’ quali dipende.

    Allorchè la posizione del galleggiante è diritta, sono que’ tre centri disposti in unica verticale all’orizzonte, e se il galleggiante s’inclina, i tre centri si allontanano, e in tre diverse perpendicolari si collocano; ma se i due centri della parte immersa ed emersa bilanciandosi sul terzo centro operano in direzioni opposte, il galleggiante ritorna alla diritta sua posizione. Può solamente restare inclinato, senza ritornare o capovolgersi, quando la spinta del fluido incontra nella direzione della verticale il centro di gravità del corpo, che sta a galla, e distruggendo tutta la sua gravità lo mantiene in equilibrio. Sono queste le leggi, che regolano la stabilità de’ galleggianti, e le medesime sono state con gran sollecitudine richiamate in luce, e dichiarate da’ moderni, i quali al più l’hanno vestito di algebriche equazioni, o pure le han reso più facili colla dottrina del metacentro, come ha fatto il Bouguer; ma esprimendo sotto forme diverse i principj istessi, che furono per la prima volta pubblicati da Archimede, nulla vi hanno aggiunto, nè rimane loro per avventura di che gloriarsi sopra di lui. E se i moderni alla stabilità dei corpi, che stanno quieti a galla in un fluido quieto, hanno quella aggiunto de’ galleggianti nell’atto che sono sospinti da più potenze, come son le navi agitate dal vento in un mare gonfio e commosso, è da ricordare, che sì fatta stabilità idrodinamica sulla idrostatica di Archimede si fonda, e da questa prende interamente norma e ragione. Sempre, egli è vero, che dalla disposizione di que’ tre centri, e dalla maniera, con cui essi operano, dipende la stabilità dell’equilibrio delle navi, e il loro ritorno alla diritta posizione, o il loro rovesciare.

    Ma non potea Archimede star coll’animo in questi principj generali senza che ne avesse dimostrato la verità ne’ casi particolari. I galleggianti d’innanzi a’ suoi occhi, ch’eran matematici, non eran che figure geometriche, e di queste andò cercando coll’ajuto de’ suoi principj la stabilità idrostatica. La prima figura, ch’ei recò innanzi, come la più facile, fu la sezione di una sfera, che comunque inclinata si dispone sempre in tal modo, che la sua base sia orizzontale. Mostrò in questa figura, che costante era la posizione de’ tre centri, che ne rendono stabile l’equilibrio, e subito si rivolse a que’ solidi, che formati sono dalla rivoluzione della parabola. Ma come prima di entrare nelle sue ricerche, ch’eran sempre profonde, si apparecchiava la via riducendo a semplicità, così considerò la superficie de’ fluidi pesanti non più come sferica, ma come piana, affinchè da un piano, che la taglia, risultar ne potesse una linea retta. Le circostanze poi necessarie, ch’erano da considerarsi in sì fatte investigazioni, si riferivano prima d’ogni altro alle specifiche gravità del fluido e della paraboloide, e queste egli espresse in una forma semplice, elegante, e tutta geometrica. Poichè le gravità specifiche seguendo la ragione inversa de’ volumi, e questi la diretta de’ quadrati delle loro dimensioni omologhe, furono da lui rappresentate da’ quadrati de’ due assi, uno di tutta la paraboloide, e l’altro della sua parte immersa nel fluido. Anzi per non introdurre forme varie e diverse nelle quantità, rapportò l’asse della paraboloide al parametro della curva generatrice; espresse l’asse della parte immersa per la differenza tra l’asse della paraboloide e una funzione del parametro, e l’asse della parte emersa indicò per la differenza de’ primi due assi; di modo che per mezzo del parametro si conosceva il valore degli assi, de’ volumi, delle specifiche gravità. Incatenava così le condizioni del problema ad una rotta, che tanto signoreggia nella parabola, affinchè svolgere più facilmente potesse la stabilità d’un solido, che è stato generato da una curva parabolica.

    Fu questo l’andamento dello spirito di Archimede nello spianarsi la via a quella nuova ed astrusa ricerca, che dovea per la prima volta i principj fondare della stabilità dei galleggianti. Comincia egli di fatto ad allungare colla mente l’asse della paraboloide, ma le varie lunghezze di questo ad altro non riferisce che al parametro. E come, allungato l’asse viene a farsi meno la stabilità, perchè il centro di gravità di tutta la paraboloide s’innalza; così pensò di supplire a tale difetto per via del rapporto tra le specifiche gravità del fluido e del galleggiante. Poichè quanto più cresce questo rapporto, tanto più cresce la stabilità idrostatica, e all’inverso viene questa a menomare, quanto più quel rapporto decresce. Mancando in somma da una parte la stabilità per l’allungamento dell’asse, e crescendo dall’altra pel rapporto delle specifiche gravità, fermo si tenea l’equilibrio, e saldo e stabile il galleggiante. Per lo che piglia da principio l’asse non più di tre quarti del parametro, e poi dimostra, che la paraboloide, quale si fosse il rapporto della sua specifica gravità, sempre riprende la sua diritta posizione. Allunga più l’asse, e tra due funzioni lo racchiude del parametro medesimo, e pronto va quindi a definire in quali limiti si debba tenere quel rapporto affinchè il galleggiante rovesciare non possa; e così ne va successivamente allungando l’asse, e segnando in proporzione il rapporto delle specifiche gravità, che è necessario all’equilibrio stabile della paraboloide.

    Alta e ingegnosa è tra queste considerazioni quella, che l’angolo determina, sotto cui il galleggiante ristà senza capovolgere o raddrizzarsi; poichè, sebbene sfornito del favore dell’algebra e della trigonometria, costruisce egli un triangolo rettangolo, in cui trovasi quello con tal magistero ed eleganza, che il problema sembra esser dichiarato co’ calcoli de’ moderni. Ma sia che determini quest’angolo, sia che allunghi l’asse e ricerchi il rapporto delle specifiche gravità, sempre procede con tale franchezza, che tutte le sue proposizioni suppongono e racchiudono de’ massimi e de’ minimi. I primi allungamenti dell’asse hanno per massimo tre quarti del parametro, ed i secondi vogliono questa funzione per minimo, e l’altra di quindici ottavi del parametro per massimo. Se poi degli angoli trattasi d’inclinazione, che fanno stabilità, determina egli tra questi i massimi ed i minimi di quei, che l’asse della paraboloide può coll’orizzonte formare: e così di mano in mano gli venne fatto di stabilire tutte le posizioni, che piglia la paraboloide secondo i diversi rapporti dell’asse al parametro, e quelli delle specifiche gravità del fluido, e di quel solido, che galleggia. Giunsero, egli è vero, questi libri a noi così monchi e sformati, che alcuni credettero opera degna di pregio di mutarne o supplirne in più luoghi le dimostrazioni; ma ciò non ostante sono sì profonde le ricerche di Archimede, e restano sì nette, e sì belle le sue dimostrazioni di alcuni teoremi, che questi libri si tengono come il resto più rado e prezioso dell’antica dottrina intorno alle miste discipline. Niuno dopo Archimede seppe e potè rivolger la mente a sì nobili speculazioni, ed Eulero fu il primo, che dopo tanti secoli estese coll’ajuto de’ calcoli le ricerche di Archimede ad ogni altra figura geometrica, ed a’ solidi, che molto s’avvicinano alla forma de’ vascelli. Ma altro è dar principio, altro dare accrescimento ad una scienza; ed è ben diverso l’inventarla colla geometria dall’avanzarla col calcolo. Ciò non dimeno Archimede ed Eulero si uniscono a mostrare i vantaggi, che cavar può la costruzione delle navi dalle loro teoriche e geometriche investigazioni; poichè quest’arte tanto necessaria al commercio si è ridotta negli ultimi tempi del secolo passato a grandezza, e a stato di scienza.

    Mentre Archimede impiegava le matematiche a vantaggio delle fisiche discipline, e fondava con gran senno la meccanica, si occupava ancora dell’astronomia, e lasciava l’impronta del suo ingegno, che era maraviglioso, sopra questa scienza, che per difetto e inesattezza di strumenti, e per mancanza di osservazioni era allora presso i Greci bambina. Annunziava egli apertamente il moto della terra, l’immensa distanza delle stelle da noi, tutta l’orbita della terra in riguardo a sì fatta distanza non doversi riputare che un punto; dichiarava in somma al figliuolo di Gerone il sistema del mondo alla maniera di Aristarco da Samo: e ciò facea tanto più franco, quanto in Siracusa non eran da temersi de’ Cleanti23. Pitagora e i Pitagorici avean da gran tempo pubblicato in Sicilia il vero sistema del mondo; Petrone d’Imera avea già recato innanzi l’opinione della pluralità de’ mondi; Empedocle avea celebrato ne’ suoi poemi il moto della terra; Iceta avea manifestato la rotazione del nostro pianeta intorno al proprio asse, il moto in somma della terra, e il vero sistema del mondo era una dottrina quasi popolare in Sicilia. Ma altri sono i titoli, che onorano la memoria del nostro Archimede, e al rango di astronomo con ragione l’inalzano.

    Sebbene si fosse perduto il trattato di lui sulla solidità della terra; pure ci vien riferito, che prese prima il nostro Archimede a misurare i gradi del meridiano, che era tra Syene compreso e Lisimachia, e poi ne cavò la circonferenza della terra24, che gli astronomi in que’ dì sopra ogni altro, e con gran fatica indagavano. E se ad alcuno parrà dubbia per avventura questa sua fatica sulla misura del nostro globo, egli è certo, che immaginò una maniera tutta nuova ed ingegnosa per misurare, come di fatto misurò, il diametro apparente del sole. Colse questo astro nel momento, che spunta sull’orizzonte, perchè allora men ricco di luce apparisce, e più facilmente si può da noi riguardare. Mise poi un lungo regolo in una posizione perfettamente piana ed orizzontale, e sopra questo regolo collocò un cilindro ben rotondato, che dolcemente sul medesimo regolo si potea avanzare, e ritirare. Diede così principio alle sue osservazioni, e guardando da una estremità del regolo allontanò a poco a poco in tal modo il cilindro, che gli nascondesse interamente il sole. A questa prima osservazione aggiunse la seconda. Allontanò di più dolcemente il cilindro, e lo fermò quando si cominciavano appena a vedere dall’una e dall’altra parte del cilindro medesimo i raggi che venivano dal lembo del sole. Dalla prima osservazione ne ricavò il più grande, e dalla seconda il più piccolo diametro, e dentro a questi due limiti ne strinse, e ritrovò la misura. Ma nel ridurre ad effetto tali osservazioni teneasi il diametro della pupilla come un punto, ove il vertice era collocato d’un triangolo isoscele, i cui lati erano tangenti al cilindro. Vide egli questo errore, e sagace come era, corse tosto a farne la debita correzione.

    Prese due cilindretti eguali di un diametro assai piccolo, e de’ quali uno era bianco, e l’altro colorato. Portò questo in contatto dell’occhio, e cominciò ad allontanare il bianco, che era posto dietro; se così guardando vedea o tutto o parte del cilindretto bianco, il diametro de’ cilindretti era minore di quello della pupilla, e quando giungea a nasconderlo quasi tutto, avea un segno, che i diametri della pupilla e de’ cilindretti erano eguali. Tentando in somma, e dopo varie prove ebbe il diametro della pupilla, potè stabilire sul regolo il vertice del triangolo, ne descrisse i lati conducendo le tangenti, e ne conobbe per base il diametro apparente del sole. Non vi ha dubbio, che questo metodo non era esattissimo, e stringea a far delle operazioni, che si chiamano grafiche; ma ciò nondimeno è da reputarsi ingegnoso, e suppliva, quanto più si poteva, al difetto degli strumenti in un tempo, in cui ancora nata non era la trigonometria. Non vi ha dubbio, che l’argomento da lui recato per misurare il diametro della pupilla non era esatto, perchè quel diametro cresce o manca secondo che la luce è più o meno densa, è più o meno viva; ma ciò non ostante col metodo, e cogli artifizj di Archimede ricavar si potè il diametro apparente del sole in una misura, che molto si avvicina a quella stabilita dalle osservazioni de’ moderni, racchiudendo l’angolo, sotto cui si vede quel diametro tra la 200ma e la 164ma parte d’un angolo retto.

    Non solo intese alla misura del diametro del sole, ma si affaccendò assai per osservare e calcolare la durata dell’apparente rivoluzione di questo astro. Poichè ritraendo gli astronomi dal movimento del sole la lunghezza dell’anno, riferivano a questa, come unità, il tempo, che impiegano i pianeti a descrivere le loro orbite. Essendo adunque di molta importanza nello studio del Cielo il determinare la durata di tale rivoluzione, Ipparco, che fu il fondatore dell’antica astronomia, ne prese gran pensiero, e molto vi si affaticò. Or questo grande astronomo nel ricavare la lunghezza dell’anno da’ solstizj ricorda con lode il nome e le osservazioni di Archimede. In quanto a’ solstizj, dice egli presso Tolomeo, spero che Archimede ed io non ci siamo ingannati sino ad un quarto di giorno tanto nelle osservazioni, quanto nel calcolo25. Chi potrà dunque negare ad Archimede il rango e il titolo di astronomo, quando Ipparco reca le osservazioni di lui, e di egual pregio le stima che le sue? Chi sa quante altre osservazioni furono da Archimede dirizzate, che noi ignoriamo, perchè smarrite per l’ingiuria de’ tempi sono cadute interamente in oblío? Ma se poteronsi forse porre in dimenticanza le sue osservazioni, chiara è restata la memoria della sua bella e maravigliosa invenzione del planetario, che è stata in ogni tempo celebrata da’ poeti e ricordata dagli storici.

    Altercasi tra gli eruditi sulla materia, di cui era composta tale macchina, e sulla forza, che la mettea in movimento. Sono alcuni di parere, che fosse di vetro, ed altri di rame, e vi sono ancora di quei, che parte di rame, parte di vetro costrutta la suppongono. Molti del pari, e molto varj sono stati i pareri intorno all’artifìzio, che la movea. Chi vuole per forza di pesi, e chi di aria, secondo alcuni, condensata, e secondo altri, rarefatta: questi afferma per mezzo dell’acqua, quegli per mezzo di molla, nè mancan di quei, che l’attribuiscono a forza magnetica. Ma costoro tutti disputeranno sempre senza conchiudere; poichè non è venuta sino a noi la minuta descrizione, che lasciò Archimede di questa macchina, e i poeti, che ne hanno fatto qualche cenno, trasportati come sono dalla fantasia, e forzati talvolta dal metro, non sogliono esser tenaci della verità; e oltre a ciò nel descriverla non si accordan tra loro, e sono di svariati sentimenti. Due sono le cose, che si possono come certe raccogliere in mezzo alla varietà di tante opinioni: la prima ella è, che non fu Archimede l’inventor della sfera, perchè secondo piace a Plinio, e a molti tra gli antichi, furono altri che l’immaginarono prima di lui. Ma Archimede, ed è questa la seconda, imitò nella sfera i movimenti del sole, e della luna, e del cielo stellato, e giusta la testimonianza degli antichi26, le rivoluzioni de’ pianeti allora conosciuti. È poi da credere, che Archimede gli abbia posti in giro secondo i lor moti medj per quanto allora si erano osservati, e si poteano grossolanamente stabilire; giacchè Cicerone prende gran maraviglia del giro de’ pianeti in questa macchina, nè mancaron di quegli, i quali colpiti, più che d’altro, forse dall’equabile conversione che aveavi degli astri, osarono dire, che la natura era stata vinta con quell’artifizio dall’ingegno di Archimede27. Tutte queste maraviglie chiaro dimostrano, che con mirabile e straordinario lavorío era congegnata quella sfera, e adatta ad effigiare gli astri e i loro moti, forse non altrimenti che oggi si fa nei nostri planetarj. Nè pare che si possa ciò richiamare in dubbio ove dalla sublimità delle sue teoriche speculazioni si volga la mente all’altra virtù del suo ingegno, che era quella d’immaginare e comporre delle macchine.

    Lo spirito umano nello studio e nella invenzione delle scienze con lentezza da principio procede, e poi vago di alti concetti in mul- tiplici investigazioni s’immerge, e in un mondo quasi intellettuale si spazia; ma come quelle a stato di perfezione ha condotto, par che si ricordi degli uomini, e scendendo dall’alto delle sue speculazioni, va queste recando a vantaggio della società. Le matematiche e le meccaniche, la fisica e la chimica, che già da gran tempo sono in onore tra le scienze, son quelle, che al presente diriggono le mani degli artefici, e prestano loro nuove macchine e nuovi strumenti, prendon cura della vita e sanità dell’uomo, promuovono la ricchezza delle nazioni. Ma lo spirito umano per correre tutta questa carriera ha bisogno di più secoli, di più uomini, d’ingegni diversi; perchè cominciare, progredire, speculare, rivolgere le cose speculate a bene della società, ogni passo in somma, che si suole nel corso delle scienze segnare, suppone diverse doti di spirito, gradi diversi di forza nell’intelletto, diversi gradi di vivacità nell’immaginazione. Chi ha la destrezza di cogliere in mezzo alla multiplicità e varietà de’ fenomeni un fatto, che fonda una scienza, non è dotato di quella assidua attenzione necessaria a cavare le illazioni, che ampliano la scienza medesima; chi s’inalza alle sublimi speculazioni non sa scendere a farne delle utili applicazioni, e talora avviene, che colui, il quale è destinato a spianare, o pure a volgere a pubblico bene i principj delle scienze, deve ozioso aspettare, che coloro, i quali vanno speculando, compiuta la carriera, ritornino da’ loro voli. Archimede è il primo de’ pochi così tra gli antichi come tra i moderni, che solo trascorse lo spazio, che dallo spirito umano suole fornirsi in più secoli da più uomini. Grande ed inventore fu sì nelle pure che nelle miste discipline, e grande ed inventore nel costruir delle macchine a benefizio della società. Dovea la sua immaginazione dipingere come in una tela e linee e figure geometriche, e metterle e ritenerle in un continuo movimento, affinchè si potessero con facilità tra lor comparare. Nel dipingere quelle linee era essa vivace, nel moverle instancabile, e nel presentarle al suo intendimento priva era di quello impeto e furore, con cui corre ne’ poeti e dipintori, i quali piuttosto di leggiadria vanno in traccia che di severità. L’intelletto intanto colla sua vista, ch’era acutissima, dovea leggere i varj rapporti tra quelle figure, cogliere le loro eguaglianze, queste incatenare, e fil filo connettere raziocinj a raziocinj, scoprire nuove verità, esprimerle sotto una forma generale, e creare de’ metodi, che sono quelli, i quali mutano lo stato della scienza, ne accelerano i progressi, e sono fecondi delle più utili scoverte. Nelle miste discipline dipoi erano da spogliarsi prima i corpi delle multiplici loro qualità, e, ritenutene alcune, eran quelli da trasformarsi in esseri matematici. Doveano considerarsi i corpi come dotati soltanto di gravità, e ridursi a puri e semplici punti, che operavano lungo la verticale. Era allora uffìzio della sua immaginazione di presentare i corpi sotto questa forma nuova ed astratta all’intelletto, e questo poi rimescolandoli e riferendoli agli oggetti matematici ne scopriva i rapporti, e ne determinava le leggi. La sua bilancia nelle meccaniche era un essere matematico, e alla medesima appendea con indifferenza e corpi e figure geometriche, e librava gli uni colle altre. Se quindi la mente umana voglia rivolgersi alla invenzion delle macchine, le linee e le figure matematiche debbono vestirsi delle qualità de’ corpi, e rendersi materiali, e la loro vista, che era da prima semplicissima, diventa complicata per gli ostacoli, che s’incontrano a cagione della varia tessitura, e diversa composizione de’ corpi, de’ quali debbono costruirsi le macchine; per lo che non di rado avviene, che teoreticamente vere ed attive diventano queste praticamente inoperose e immaginarie. Ora in Archimede l’intelletto creava de’ principj, e questi dava per guida alla sua fantasia, che spiegava forza novella nella costruzion delle macchine. Ella diligente, industre, ingegnosa componea allora, adattava, e mettea insieme con tale facilità ed artifizio, che parea non inventare, ma palesare, e mostrare delle cose già fatte ed inventate. Rimasero attoniti Gerone e i Siracusani allorchè Archimede, coll’ajuto dell’asse nella ruota da lui immaginato, e di più pulegge, traeva in mare comodamente delle navi, che a grande stento, e non senza gran confusione da gran numero d’uomini si poteano tirare. Nè minore fu la sorpresa degli Egizj allorchè egli inventò la chiocciola o per diseccare, come vuole Diodoro, terreni paludosi, o per inalzare in alcuni luoghi, come altri pretendono, l’acqua del Nilo, e con questa inaffiare e fecondare i campi28. L’acqua, che di sua natura tende al basso, in quella macchina discendea, e discendendo si avanzava in altezza. La sua immaginazione ne cavò il modello dalla geometria, perchè prese una linea retta inclinata all’orizzonte, cui un’altra era avvolta in varie spire. Questo concetto, che era tutto geometrico, fu da Archimede condotto a realtà e, dirò così, materializzato. La linea retta inclinata diventò un cilindro, che per via di un manubrio si potea facilmente mettere in giro, e venne la spirale trasformata in un canalino di rame o di altro metallo, per cui l’acqua entrava, e iva discorrendo. In questa guisa si gira il cilindro, e l’acqua, obbedendo alla gravità, cade nella spira più bassa, e di mano in mano cadendo passa di spira in spira, e s’inalza.

    Ma questa invenzione, che parve a Galileo maravigliosa, prese origine dalla sua profonda geometria, e fu recata a perfezione dalla sua felice attitudine alle cose meccaniche. Bisogna persuaderci una volta, che qualunque sia la disposizione, che hanno gli uomini alla costruzione delle macchine, se la loro mente non è rischiarata dalla scienza, e guidata dai principj, potran forse giungere a comprendere e ad imitar delle macchine, ma non già esserne mai fabri, e grandi inventori. Per la scienza de’ principj Ramsden migliorava ogni strumento, che pigliava a lavorare, e per questo Vaucanson ha levato chiarissimo il suo nome tra i meccanici.

    Se Archimede non avesse inventato che la sfera, l’asse nella ruota, la chiocciola, avrebbe potuto con giusta ragione riportar laude di celebre meccanico; ma altre, e in più copia, e di maggior momento furono le macchine ingegnose da lui immaginate in vantaggio della società. Io non parlo di quei macchinamenti, che alcuni attribuiscono ad Archimede, e forse di Archimede non sono; non parlo d’un organo idraulico a lui attribuito, che per mezzo dell’acqua mandava suoni armoniosi29, nè della scitala, che era uno strumento da scrivere in cifre, nè d’altri strumenti opportuni alla chirurgia, che da Galeno si danno per invenzione di Archimede. Mi guarderei certamente di attribuire a questo grande uomo una lode, che fosse dubbia, e non propria di lui. Quaranta, secondo riferisce Pappo, furono le invenzioni del nostro geometra negli strumenti meccanici, e l’ultima era diretta ad inalzare con una forza un peso qualunque. Quante macchine non dovette congegnare il genio fecondissimo di lui nel soddisfare e risolvere questo solo problema? Pappo che lo rapporta, ed Erone che lo comenta, ne dicono delle maraviglie, e l’uno e l’altro riguardano Archimede come il padre della meccanica, e come l’unico, che abbracciava i rami tutti di questa scienza, non solo per la teorica, che avea dichiarato, ma ancor per la pratica, a cagione di tanti e tanti belli macchinamenti, che avea egli insegnato a costruire.

    Ma io non so nè voglio più dilungarmi sopra un argomento, che Archimede non istimava degno della sua gloria. Riputava egli un non niente le sue invenzioni meccaniche, indegne le credea del suo intendimento, e niun pensiero si prese di descriverle. Però alcune non senza pregiudizio delle arti affatto non si conoscono, e di altre, essendone passato a noi il solo nome, s’ignora l’ingegno ed il costrutto. Era comune opinione in que’ tempi presso i filosofi, che la mente umana si contaminava pigliando a considerare, e a trattare cose terrestri e materiali. Archimede oltre a ciò versato come era nelle cose geometriche, e puramente intellettuali, e preso dalla loro grandezza e sodezza sdegnava, al dir di Plutarco, di pigliar vanto nel comporre macchine, come di cosa bassa, vile, e mercenaria, e ch’egli tenea per giuochi della sua geometria, cui di quando in quando si rivolgea o per suo particolar sollazzo o per condiscendere alle istanze di Gerone. Ma se egli ebbe a vile di lasciar descritte alla posterità le sue invenzioni meccaniche, perchè indegne le riputava della sua gloria e del suo nome, non era poi così severo e ritroso d’animo, che i suoi talenti impiegar non volesse in vantaggio della società, e più d’ogni altro della patria, come chiaro si può rilevare dalla difesa, che sostenne per mezzo de’ suoi ingegni contro la potenza Romana, che venne ad assaltare la bella Siracusa. Calamitose, difficili erano in quella stagione le circostanze politiche di Siracusa. Due grandi potenze Roma e Cartagine si disputavano il primato dell’impero, e la Sicilia era il campo delle loro battaglie, e il premio insieme della loro vittoria; per lo che tutta l’isola dovea cadere in preda del vincitore; e se erasi salvato dal pericolo insino allora il piccolo reame di Siracusa, era ciò avvenuto per la saviezza di Gerone, che era stato generoso, e fedelissimo alleato de’ Romani. Ma dopo le vittorie di Annibale in Italia, e la morte di Gerone, turbate essendo le cose pubbliche in Siracusa, si allontanò questa città dall’amicizia de’ Romani, e Marco Marcello da Console, e Appio Claudio da Pretore vennero ad assaltarla per terra e per mare. Archimede non avea preso parte ai tumulti di Siracusa, nè a’ consigli ambiziosi de’ parenti del morto Gerone, non avea favorito il partito de’ Cartaginesi, e solo e nelle sue meditazioni solamente occupato si era tenuto in mezzo alle pubbliche turbazioni. Ciò nondimeno non parve a lui tempo di starsi in silenzio e neghittoso, quando la patria era già in pericolo. Ebro dell’antichità, grandezza, e splendore di Siracusa, pieno avea il petto di quel santo orgoglio, che eleva l’animo, ed è la radice d’ogni civile virtù. Ricordava, che Siracusa avea e ajutato e battuto la Grecia, e ajutato e sconfitto i Cartaginesi, e soccorso più volte, e non avea guari ristorato dalle loro disgrazie quegli stessi Romani, che in quel punto le venivano incontro ad osteggiare. Ma sopra d’ogni altro non sapea, nè potea tollerare un animo Siracusano, un animo allevato e nutrito dal sentimento nobilissimo della gloria, che la sua patria caduta fosse mancipio di un popolo straniero, ancorchè questo fosse il popolo Romano. Però Archimede, sospinto dall’amor della patria, abbandona il suo ritiro, e sebben pieno di anni si mette alla testa de’ suoi concittadini, dirige le loro operazioni militari, e ricco come era di senno difende ostinatamente Siracusa.

    Era tanta la fiducia, che ponea Marcello nel numero e valore de’ suoi soldati, nella copia degli ordigni militari, e nell’abilità degl’ingegneri Romani, che espugnar Siracusa il travaglio pareagli di pochi giorni. Non ricordava egli, che la catapulta era stata inventata in Siracusa, e di quante e quali armi l’aveano munita e Dionisio il vecchio, e il prode Agatocle. Non sapea che nel regno dell’ultimo Gerone molte e molte macchine militari erano state fabbricate, migliorate, e rese più formidabili dal nostro geometra, ignorava in somma, che Siracusa possedeva ancora Archimede, e il suo divino ingegno, che solo bastava a far vani tutti gli sforzi di Roma. Però venne Marcello con impeto all’assalto così dalla parte di terra che di mare, e sebbene più e più volte il tentasse, e con soldati che pieni erano di coraggio, e voleano lavare la macchia della giornata di Canne; pure fu sempre vittoriosamente respinto dai Siracusani. Le baliste lanciavano nembi di dardi contro i Romani quando erano distanti dalle mura, e se questi coperti de’ loro scudi si sforzavano d’accostarsi, le catapulte moveano una pioggia di pietre contro di loro; che se non ostante i dardi e le pietre, ostinati si avanzavano verso le mura, trovavano aperte delle spesse feritoje, da cui con piccole baliste eran feriti e tormentati. Nè i colpi evitavano delle catapulte; perciocchè queste delle pietre lanciavano, che quasi a perpendicolo cadevano dall’alto sulle loro teste. Non meno infelice era l’assalto di mare. Allorchè i Romani tentavano d’inalzare le loro sambuche per iscalare le torri e le muraglie di Acradina, si scagliavano da’ Siracusani con gran violenza delle masse enormi di pietra o di piombo, che quelle scale rompevano e rovesciavano; e quel, che più danno e pregiudizio arrecava alle navi romane, erano le mani di ferro, che dalle mura erano diritte alle prore di quelle per aggrapparle, e ghermitele, in alto in sì fatto modo le tiravano, che le navi, alzata la prora, poggiavano sulla poppa; e come erano in tale termine, rilasciavano i Siracusani a un tratto le catene, e le navi con furia piombando si fracassavan tra loro, o contro li scogli, o pure affondavano in mare, e si perdeano. So bene, che queste mani di ferro, e le catapulte, e le baliste vi erano prima di Archimede; ma fu costui, che co’ suoi ingegni atte le fece ad operare da lontano, e da vicino, ad essere maneggiate con gran facilità, a movere ogni maniera di pesi. E sopra d’ogni altro fu Archimede, che in quell’assedio le dirigea, le adattava, le facea servire con gran danno de’ nemici, con gran vantaggio de’ Siracusani. Però i Romani restavano attoniti dalle maraviglie, che operavano gli ordigni militari di Siracusa, e perciò Marcello deridea i suoi ingegneri, che nulla sapeano opporre alle invenzioni di quel geometra, che egli chiamava Briareo. Tanta era la quantità prodigiosa de’ dardi,che si lanciavano in un sol tratto da’ Siracusani. Ma qual maraviglia non ebbe a prender Marcello, s’egli è vero, che le navi romane furono allora bruciate dagli specchi del nostro Archimede?

    Leggendo i pezzi, che ci restano di Anthemio di Tralles, e i racconti dello Tzetze, e dello Zonara, egli è certo, che lo specchio di Archimede era un segmento di una conoide parabolica composto di più specchi piani a sei lati, che si poteano movere in ogni senso, ed era situato perpendicolare al piano dell’equatore, affinchè potesse destare la fiamma in tutto il tempo che il sole ristava sopra l’orizzonte, siccome è stato già dimostrato30, e brugiare un oggetto qualunque così da lontano come da vicino. Non vi ha quindi alcun dubbio, che lo specchio inventato da Archimede era così bene congegnato, che potea con facilità mettere in fiamme le navi romane. Che poi abbia in realtà cagionato a Marcello un sì fatto guasto, si può innanzi recare la testimonianza di molti storici, che lo affermano. Tzetze, e Zonara, che ebbero la fortuna di poter leggere non poche opere degli antichi autori, che a noi mancano, ci assicurano, che Dione e Diodoro, Erone e Pappo, e tutti quei che scrissero tra gli antichi di meccanica, convengono nel rapportare, che Archimede nell’assedio di Siracusa brugiò le navi romane. Luciano poi, e Galeno apertamente lo attestano, e Anthemio dice essere stata questa una comune opinione nel sesto secolo. Ma a tutte queste autorità, che non sono di lieve momento, si suole contro opporre il silenzio di Polibio, Livio, e Plutarco: costoro scrissero di proposito dell’assedio di Siracusa, e nulla omisero di ciò, che potea tornare o ad ornamento de’ loro discorsi, o pure a laude di Archimede. Nondimeno niun motto essi fecero di quello specchio, e dell’incendio di quelle navi. L’artifizio sarebbe stato, e così nuovo, e così maraviglioso, che non par cosa credibile, ch’essendo quell’incendio accaduto, l’avessero passato sotto silenzio, e un fatto trascurato, che doveano magnificar colle parole. Ma tolto ogni altro argomento, egli è certo, che se il silenzio di questi tre storici rende dubbio l’incendio delle navi romane, l’autorità di tanti altri stabilisce per certa l’invenzione, che fatto avea Archimede di uno specchio ustorio composto di più specchi piani, che sarebbe stato attissimo a brugiarle. E se il nostro geometra avea già prima immaginato questo specchio, siccome è verosimile avendo riguardo all’età di Archimede quando Siracusa fu assediata per mare da’ Romani, non si può capire come non l’avesse adoprato a pro della sua patria contro le navi nemiche. Forse Polibio non riputando quello specchio un ordigno militare lo tacque; forse i Romani presi di timore nel vedere la luce raccolta da quello specchio sulle loro navi, pronti furono ad allontanarsi per campare il pericolo, e così fu solamente tentato, e non ebbe luogo l’incendio. Chechè ne sia, tale e sì grande fu il terrore, che eccitò Archimede negli animi de’ Romani co’ nuovi ingegni, che Marcello, tolto l’assedio, si mise a bloccare semplicemente Siracusa, e fu dopo tre anni che la prese, non già a viva forza, ma per tradimento.

    Giunto il nostro discorso a questo termine, si turba l’animo e la mente nel pensare, che uno de’ più grandi uomini della terra, l’onore delle scienze, Archimede cadde trafitto in mezzo alle sue pacifiche occupazioni dal ferro d’un soldato romano: ci conforta solamente, che se fosse sopravvissuto alle calamità della sua patria, avrebbe potuto Marcello a Roma condurre lui già vecchio31 come ornamento della sua ovazione, insieme colle macchine militari, le statue, i quadri e tutte le altre spoglie della nobile e ricca Siracusa. Che se quel Console non avesse tanto osato, non vi è dubbio, che Archimede sarebbe stato in tal modo trafitto dal dolore alla vista de’ tempj, delle case, del tesoro spogliati e manomessi; alla vista sopra di ogni altro della servitù propria e della patria, che avrebbe preferito per certo la morte. Nè credasi, che un tal dolore sarebbe stato in lui esagerato. Ci ricordi, che i Siracusani piangenti e scarmigliati presentarono le loro doglianze al Senato Romano contro Marcello per lo spoglio e la servitù di Siracusa32; ci ricordi, che da quel punto cadendo la Sicilia dalla sua grandezza e dal suo splendore divenne un magazzino della Repubblica, e la scala de’ Romani per passare nell’Africa; ci ricordi in fine, che da quel tempo la storia per lunghissimo tratto non parlò più della Sicilia, o ne parlò soltanto per gli furti ad essa fatti da’ Pretori di Roma33, o per le guerre non già d’uomini liberi, ma di schiavi34. Tanti mali produce lo stato di provincia, la soggezione a un popolo straniero!

    Marcello, intesa la morte di Archimede, n’ebbe dolore, e cercando de’ parenti prese cura, che il di lui corpo fosse onorevolmente sepolto. Si ergea sopra il sepolcro una colonnetta, in cui scolpita vedeasi la sfera iscritta al cilindro, e verso la base leggevasi un epigramma, in cui il rapporto notavasi, che passa tra quelle figure. Era stato ciò fatto dagli amici, e dai parenti, perchè Archimede negli ultimi anni della sua vita aveva raccomandato a costoro, che da quelle due figure, e dal loro rapporto fosse stato il suo sepolcro contrassegnato. Per lo che pare, che tra le sue invenzioni quella, che riguarda la sfera e il cilindro, avesse egli riputata di pregio più degna; ma non comprendesi a prima vista, come avesse egli potuto venire in tale opinione. Nuova ed ingegnosa fu la maniera, colla quale avea quadrato la parabola, e questa egli pubblicò, come si legge in una sua lettera a Dositeo, prima che le cose avesse in luce recato sulla sfera e sul cilindro. Profonde e sagacissime furono le sue ricerche sulla spirale; perchè dunque a quella ed a queste, ed alle altre sue invenzioni, che tanto onore gli hanno recato presso i moderni, preferì la sfera iscritta al cilindro? Le ragioni di questa preferenza non sono da indagarsi, per quanto a me pare, nella qualità o nel pregio dei suoi ritrovamenti, che sono tutti bellissimi, ma nella condizione de’ tempi, che sogliono regolare il più delle volte i nostri giudizj. Erano in quei dì intenti sopra ogni altro i geometri alla misura de’ corpi regolari da loro conosciuti, e questo argomento facea la parte più ardua insieme ed eminente della loro geometria. Aveano essi trovato la ragione tra la piramide e il prisma, tra il cono e il cilindro, e nulla sapeasi della sfera, che tra i solidi riputavasi allora il più grande e perfetto. Quando adunque Archimede misurò la sfera ed ogni sua sezione, quando stabilì il rapporto, con cui si lega e riferisce al cilindro, accrebbe non solo gli elementi di Euclide, che erano allora in sommo onore; ma aggrandì la geometria di quella parte, che si credea la più difficile, e più si desiderava, che fosse aggrandita. In ammirazione si ebbe quindi a levare la scuola di Alessandria per questa scoverta, che a perfezione recava la teorica dei corpi regolari, ed ebbe in alto a venire il nome e la fama di Archimede; giacchè gli uomini sogliono più grandi concedere gli onori per quegli argomenti, che di maggior pregio si tengono. Però Archimede tenero come era della sua gloria volle il suo sepolcro adornare di quella invenzione, che era più comunemente conosciuta, parlava agli occhi di tutti, a più fama l’aveva inalzato, e più facilmente potea perpetuare presso la posterità il suo nome e l’altezza del suo sapere geometrico. Aggiungevasi a ciò, che avea egli fatto questa scoverta collo iscrivere e circoscrivere, o sia collo stesso metodo, col quale era alle altre pervenuto, e che nel misurare le conoidi e le sferoidi avea riferito questi solidi al pari della sfera al cilindro. Sicchè nella sfera iscritta al cilindro il filo si accennava, che lo avea condotto a tutte le sue invenzioni, e la misura in particolare si ricordava, che egli avea investigato delle conoidi e sferoidi. Gli era poi grandemente a cuore, e pago assai mostravasi, come egli dovea, del bel rapporto, che lega sfera e cilindro, perciocchè quella è a questo tanto in superficie, quanto in solidità nella ragione di due a tre, che è semplicissima, e che unisce i due rapporti della solidità e superficie della sfera, solido che allora il più perfetto si riputava. È infine da ricordare che Archimede avea inviato a Conone tutti i teoremi e problemi sulla sfera e sul cilindro privi delle dimostrazioni, e senza altro chiarimento. Questo catalogo, che, morto Conone, restò presso Dositeo, era noto a tutti in Alessandria, ed era una specie d’invito a’ geometri ad occuparsi di sì fatte ricerche. Ma tra questi problemi ve ne erano alcuni falsi, o impossibili; per lo che coloro, che si rivolgeano ad interpetrarli, si doveano accorgere della loro falsità. Scorsero intanto molti anni dopo la morte di Conone senza che Archimede avesse pubblicato le dimostrazioni di que’ teoremi, e la soluzione di quelli problemi, per dare tempo a coloro, che versati erano nelle matematiche, a ritrovarli; ma siccome niuno ne mandava fuori il chiarimento, anzi molti si davano il vanto di averli tutti scoverto, senza dimostrarli; così Archimede affermò, che mentivano, perchè ostentavano di aver trovato cogli altri le soluzioni di quei problemi, che erano falsi o impossibili a risolversi, e mandò per mezzo di Eraclide all’amico Dositeo le sue dimostrazioni sulla sfera e sul cilindro35. Con questi ritrovati adunque avea conculcato l’orgoglio di alcuni, mostrato l’insufficienza di tutti i geometri della sua età, ed assicurato la sua superiorità ed eccellenza nelle cose geometriche. Riconoscea quindi in quelle due figure il simbolo del suo trionfo, e colle medesime appendea, per dir così, le spoglie de’ vinti al suo sepolcro.

    Queste ragioni poterono, a mio credere, determinare il nostro Archimede a volere sulla sua tomba scolpita la sfera col cilindro. Ma non avea egli bisogno di tanta sollecitudine per assicurare al suo nome gloria e immortalità. Dotato essendo in sì larga copia d’intelligenza, avendo con questa inventato scienze novelle, e di molto avanzato quelle, che già erano, dovea il suo nome colle scienze venire alla posterità, e insieme colle scienze, che il cielo non voglia, potrà solamente perire. Fu egli, che lo stato riguardando, in cui era la geometria, vide il punto, verso cui era dirizzata, gli sforzi, che avea ella fatto per arrivarlo, gli ostacoli, che ne l’aveano impedito, e all’iscrivere aggiungendo il circoscrivere immaginò un metodo novello, colla cui guida la condusse dove bramava di giungere senza guastare la sua sodezza, usando de’ suoi stessi principj, e conservandole i naturali suoi pregi, evidenza, e severità. Grande in fatto, ma inutile fatica aveano sino allora durato i geometri per misurare la superficie del cerchio e dell’ellisse, ed Archimede iscrivendo e circoscrivendo l’una e l’altra, quanto meglio si potea, riduce per la prima volta a conosciute misure. Anzi di ciò non pago si avanza a quadrar la parabola, e spingendosi ancora più in là va gli spazj apprezzando, che dalla spirale si chiudono, le proprietà di questa curva, che ancora non era stata contemplata da’ geometri, innanzi recando. Si affaticava del pari la geometria intorno a’ corpi regolari, e pochi rapporti conoscea tra la piramide e il prisma, tra il cono e il cilindro. Di ciò si accorge Archimede, e pronto misura la superficie e la solidità della sfera tutta, e di ogni sua sezione, i più belli rapporti ci manifesta tra la sfera, il cilindro, ed il cono. Queste sue invenzioni, che bastavano sole a render chiarissimo presso la posterità qualunque geometra, non appagarono del tutto Archimede, il quale va altri solidi immaginando, che dalla rivoluzione si nascono delle curve coniche, e sulle conoidi e sferoidi nuove e inaspettate verità c’insegna, e nuovi addita e mirabili rapporti tra quelle conoidi, e i coni, e i cilindri. Ma in tutte queste speculazioni, che onorano l’umano intendimento, il metodo riluce e l’andamento del suo spirito, che coll’ajuto de’ soli e semplici elementi della scienza, e questi in mille guise combinando scopre nuovi campi di geometriche ricerche, e tanto lungi procede, che di una mente ci sembra a quella degli uomini superiore. Non possono fare a meno gli stessi moderni, che tanto rumore levano colle loro formole, di guardarlo con ammirazione allorchè tra le linee e le figure geometriche avviluppate ci mostra le progressioni ed i numeri. L’aritmetica notazione de’ Greci, ch’era povera e limitata, amplia ne’ libri a Zeusippo, e meglio distende nell’Arenario, le progressioni quando aritmetiche, quando geometriche, ora de’ quadrati di queste, e ora di terzo ordine il primo in somma mirabilmente riduce.

    Ma che più? Si avanza in altre nuove regioni di matematico sapere cercando i centri di gravità, e da queste regioni discende per un sentiero tutto geometrico alle cose fisiche. I principj svolge e palesa, su cui fondasi l’equilibrio de’ solidi e quello de’ fluidi, o pure dei corpi, che in questi galleggiano. Dichiara così la teorica della leva, e delle macchine allora in uso; dà a vedere perchè i corpi, i quali si tengono a galla quando sono inclinati, ristanno o rovesciano, o pure la diritta loro posizione ripigliano: specula in somma scienze novelle, e crea le meccaniche. Nè perciò lascia di coltivare la scienza del cielo. Misura il raggio della terra, e il diametro apparente del sole, osserva i punti de’ solstizj, e i moti de’ corpi celesti in piccola sfera riduce e presenta. Quante fatiche! Quante scoverte da un sol uomo! Come potrà per vecchiezza la gloria marcire del suo nome! Da’ suoi libri sono stati educati i moderni, ne’ suoi metodi i germi si trovano de’ novelli calcoli, dietro la sua guida avanzati e spaziati si sono i nostri matematici ne’ campi da lui per la prima volta additati al saper geometrico. Lui ricorda la leva e ogni altra potenza meccanica, lui i corpi, che a’ fluidi soprastanno, e da’ suoi dettami prende ragione la costruzione de’ vascelli, e la loro stabilità sul mare. La stessa astronomia lui ricorda nel calcolo delle comete, e nel problema di Keplero, perchè in quello della quadratura si giova della parabola, e in questo del rapporto, che corre tra la superficie dell’ellisse, e quella del cerchio circoscritto, che sono ambidue invenzioni di Archimede. E se la sua gloria è venuta tanto più in fiore, quanto più sono le scienze a grandezza salite, andrà di mano in mano più chiara la sua fama sonando, quanto più lo spirito umano si recherà a perfezione, e le scienze fatte più comuni e volgari in maggior pregio saranno ne’ tempi avvenire.

    Non si potrebbe dire di più se d’altri che di Archimede si dovesse tener parola, e pure ci resta ancora a mostrarlo pronto, come egli fu, nell’inventar macchine ed ordigni in favor delle arti, e del viver civile; immaginò egli la chiocciola, la puleggia mobile, l’asse nella ruota, e tanti altri begli ed utilissimi macchinamenti, che furono con istupore riguardati dalla sua età, e da lui come cose materiali tenuti tanto a vile, che ebbe a sdegno il descriverli. Pare che la natura abbia riunito in un sol uomo varie ragioni d’ingegni, e quelle in particolare, che quà e là di quando in quando ci mostra e produce. Non ci recherà quindi maraviglia, se il solo Archimede difende Siracusa, se colle sue invenzioni respinge Marcello e le truppe di costui, se per terra e per mare arresta il volo delle aquile romane. Tanto egli è vero, che la scienza e l’ingegno vale talora più delle armi e degli armati. Ma questo uomo, Siciliani, fu nostro, nacque sul nostro suolo, visse sotto questo cielo. La prima volta che mi avvicinai a Siracusa, mi balzava il cuore nel petto ricordando che questa terra famosa per tante vetuste memorie era stata calcata da Archimede, guardando il mare ed il porto, in cui erano state atterrite e respinte le navi romane, e sulle sponde dell’Anapo mirando il papiro, pianta che avea le foglie apprestato, sulle quali aveva scritto Archimede. Saranno dunque vane per noi tante gloriose ricordanze? Sarà dunque vana per noi la memoria di un uomo, che è stato ornamento e decoro non che di Sicilia, ma della terra? Imitiamone le virtù, gli studj, occupandoci con assiduità delle severe scienze, onore e delizia dell’umano intelletto, mostriamo, che gl’ingegni siciliani non sono ancora spenti, e che nella bella Trinacria, la quale è stata sempre ferace di valenti uomini, possono anche ora nascere degli Archimedi.


    1823

    Note

    1. Cic. Tusc. 1. 5.

    2. Plut. vita di Dione.

    3. Anni 287 avanti G. C.

    4. Plut. Marcello.

    5. Gli dedicò l’arenario.

    6. Lib. 10. Teor. 1.

    7. Lettera a Dositeo sulla quadratura della parabola.

    8. Archimede lettera citata.

    9. Archimede nel luogo citato.

    10. Assiomi e defin. al lib. sulla sfera e il cilindro.

    11. Lib. 10.

    12. Data una progressione, che comincia dall’unità, il prodotto di due termini qualunque m e n è un termine della progressione medesima, e ’l suo numero è espresso da (m + n - 1). Nell’Arenario.

    13. y2 = b2/a2 (2 ax + x2). Donde si cava il rettangolo x (2a + x), e la serie, il cui termine generale è (2 an + n2).

    14. y2 = b2/a2 (a2 - x2) e come le ascisse crescono facendo una progressione aritmetica; così dovette pigliare prima la somma dei quadrati di una progressione aritmetica; e questa poi sottrarre dalla somma dei quadrati a2.

    15. Archim. di Barrow pag. 41 ed. Londra.

    16. Giuseppe Scaligero, Hobbes, e qualche altro.

    17. Lib. 2 prop. 9.

    18. Principio della lettera sulle sferoidi.

    19. Nella pref. delle linee spirali.

    20. De sph. et cilin. l. 2 p. 33 ed. di Londra.

    21. Nella vita di Marcello.

    22. Presa sulla lunghezza intera 2a la porzione 2h, si potranno, senza rompere l’equilibrio, riunire nel mezzo di 2h i pesi distribuiti sopra questa porzione, e far lo stesso sulla porzione restante 2a - 2h. In tal caso saranno le braccia della leva a - h e h, e i pesi proporzionali a h, e a - h o sia nella ragione inversa.

    23. Plutarco riferisce de fac. in orbe lunae, che Cleante accusò Aristarco, perchè costui ammettendo il moto della terra turbava il riposo di Vesta.

    24. Freret nel tomo 24 pag. 509 delle Mem. delle iscrizioni, e belle lettere.

    25. Almag. l. 3 cap. 2.

    26. Cic., Lattanz., Claud., ed altri.

    27. Cic. de Natur. Deor. lib. 2.

    28. Per mezzo della chiocciola si votava da un uomo solo la sentina profondissima, come riferisce Ateneo, della nave famosa di Gerone, che si dice essere stata ideata da Archimede, e poi regalata da quel Principe di Siracusa al Re di Egitto; per lo che fu prima chiamata Siracusana, e poi Alessandrina.

    29. Tertulliano cap. 14 de anima.

    30. Peyrard Mem. sullo specchio ustorio.

    31. Di anni 76 secondo la comune opinione.

    32. Livio l. 26 cap. 30 32.

    33. Cic. in Verrem.

    34. Diod. frag. lib. 34 e 36.

    35. Lett. a Dos. premessa alle spirali.




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