Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Emma Perodi

    Adamo il falsario

    Fiabe Fantastiche


    Quella domenica la Carola e le altre donne s’eran date da fare per preparare la cucina in modo che i giovani potessero ballarvi senza inciampar nelle panche e nelle tavole, perché l’Annina avea detto di voler fare quattro salti. Avevano allineate le tavole al muro coprendole di tovaglie di bucato. Avean preparato diversi fiaschi di vino, molti bicchieri e quattro schiacciate unte, che mettevan voglia di mangiarle al solo vederle. Sulla madia poi avevan messo tre seggiole, perché l’orchestra non si componeva più del solo organetto di Cecco, ma anche di un suonatore di chitarra e di uno di violino, i quali si erano offerti sapendo che dai Marcucci si ballava. L’illuminazione, fatta con lucerne a olio, non avrebbe diradato le tenebre della vasta cucina affumicata, senza il fuoco del camino. La Vezzosa quella sera arrivò tutta in fronzoli, e quando si levò lo scialle, l’Annina non poté trattenere un grido di meraviglia. S’era pettinata alta, s’era messa un giacchetto chiaro, il vezzo di corallo e una pezzuola di seta celeste incrociata sul petto, che faceva risaltare i colori vivi delle sue guance. Cecco finse di non accorgersi neppure che ella avesse cambiato vestito, e salutò appena lei e le altre ragazze, rincantucciandosi accanto alla Regina, dalla quale pareva che non si potesse spiccicar mai. Gli uomini che erano stati invitati, dovevano arrivare verso le otto, quando la novella fosse sulla fine. Quella sera l’Annina e le altre ragazzette, che erano impazienti di ballare, pregarono la nonna di narrar subito la novella e quella incominciò:

    - Al tempo dei tempi erano signori di Romena e di Lierna, di Montemignaio, di Partina e di tanti altri castelli, di cui ora si rammenta solo il nome, tre fratelli per nome Alessandro, Guido Pace e Aghinolfo. Questi tre signori, benché avessero molti palazzi e due ville, una a Pratovecchio e l’altra al Borgo alla Collina, pure stavano tutti a Romena, perché il tenere una casa aperta, costa meno che il tenerne tre. I tre fratelli erano così avari da fare schifo. Invece di divertirsi, di cacciare e di dar conviti, essi stavano sempre rintanati nel loro palazzo di Romena in vetta al monte, e se qualche povero andava a bussare alla loro porta per aver la carità, lo cacciavano come un cane e non davano mai un centesimo a nessuno, neppur a baciare. In casa loro v’eran pochi servi, pochissimi cavalli, punti cani né falchi, e i signori contavano i bocconi che si mettevano in bocca. Chi l’incontrava per via non avrebbe mai creduto che fossero nipoti di Guido Guerra, che teneva corte bandita come un re, ed era nominato per la sua generosità in tutto il Casentino e anche altrove. Parevano tre pitocchi, e non si vergognavano di portar abiti rattoppati e montar brenne, invece che focosi palafreni. Alessandro, Guido Pace e Aghinolfo non avevano altra passione che il danaro, specialmente i fiorini d’oro della Repubblica fiorentina, quelle belle monete col giglio da un lato e san Giovanbattista dall’altro, che si coniavano alla zecca della Repubblica ed eran conosciute in tutto il mondo. Più ne potevano avere, di quei fiorini, e più eran felici, e acciocché non glieli rubassero, li riponevano in una stanza senza porta, nella quale si scendeva per mezzo di una botola, che era nella camera dove dormivano tutti e tre; e, se due di loro uscivano, uno restava sempre in camera a far la guardia al tesoro. Per aumentare di un solo il numero di quei bei fiorini gigliati, i tre avaroni riducevano alla fame una povera famiglia senza provarne rimorso. Le domeniche essi scendevano tutti insieme nella stanza del tesoro e passavan delle ore a contare e a lustrare i loro fiorini.
    Una notte, mentre dormivano, Aghinolfo fece un sogno, e appena si destò, andò a svegliare Alessandro e Guido Pace e, tutto lieto, disse:

    - Sentite che sogno ho fatto. Mi pareva di essere sulla via della Consuma, in quel punto detto la Casaccia, e me ne venivo giù di notte, a cavallo, sotto un turbine di neve, quando odo un gemito che pareva venisse di sotterra. Scendo da cavallo, prendo l’animale per la briglia e mi avvicino a un precipizio, che sta a sinistra. I gemiti continuano. Io chiamo e domando chi è che si lamenta, e una voce mi risponde: «Sono un povero vecchio. Chi avrà pietà di me non conoscerà penuria di fiorini d’oro». In questo punto il sonno mio si è rotto, ed io ho voluto destarvi per narrarvelo.

    - Tu sai, fratello, - rispose Alessandro, - che spesso vedesi in sogno quello che si crede con piacere; e tu hai sognato i fiorini perché li desideri.

    - Io invece credo, - osservò Guido Pace, - che il sogno di Aghinolfo sia vero, perché se egli ha udito una voce di un vivo, è segno di chiamata, e alle chiamate occorre rispondere.

    - Dunque che cosa mi consigli? - domandò il minore dei fratelli.

    - Io ti consiglio di tornare a letto e dormire, - disse Alessandro.

    - Io ti consiglio di montare a cavallo e di percorrer la via che tu hai sognata, - disse Guido Pace.

    - Seguirò il tuo parere, perché mi pare il più saggio, - rispose Aghinolfo.

    E, vestitosi in fretta, si avvolse in un mantello, scese nella stalla, sellò il suo cavallo e se ne andò senz’armi e senza scorta verso il luogo dove aveva sognato di udir la chiamata. La neve turbinava, ma Aghinolfo non temeva le intemperie, e il desiderio che il sogno si avverasse gl’infiammava il cuore, che batteva di gioia al pensiero dell’oro, mentre non si commoveva alla vista di nessuna miseria.

    Cavalcò per più ore, l’avaro signore, in mezzo alle tenebre, e già si avvicinava trepidante alla Casaccia, quando il suo orecchio fu colpito da un gemito. Era la medesima voce udita in sogno e partiva dallo stesso luogo. Aghinolfo balzò da cavallo, si avvolse le redini al pugno, e si diresse verso l’orlo del precipizio. Di lassù si mise a gridare: - Chi sei, che cosa vuoi?

    La voce lamentevole, di un uomo sfinito, rispose:

    - Sono un povero vecchio; abbi pietà di me e non avrai penuria di fiorini.

    Aghinolfo gridò al vecchio:

    - Scendo a salvarti e, come ben capisci, arrischio per te la vita; ma tu saprai mantenere la tua promessa?

    - Per Adamo, di cui porto il nome, per Mosè, per tutti i patriarchi gloriosi del popolo d’Israele, te lo giuro!

    Il giovane signore capì che il vecchio era un ebreo; ma il pensiero di salvare un miscredente non lo trattenne dall’adempier la promessa. Legò il suo cavallo a un albero e, toltosi il mantello, scese giù sul terreno coperto di neve senza fermarsi mai, finché non fu giunto accanto al vecchio, il quale era tutto intirizzito e spossato.

    - Vieni, - gli disse.

    E dopo aver tolta la cintura che fermava attorno alla vita dell’ebreo il lungo gabbano foggiato all’orientale, ne dette a reggere un capo al vecchio, prese l’altro in mano e incominciò a salire il primo, trascinando dietro a sé, per la ripida salita, il vecchio ebreo. Questi scivolava, inciampava e sarebbe caduto di nuovo nel precipizio, se Aghinolfo fosse stato meno forte e meno assuefatto a salir per le montagne.

    Quando furono sulla via, il vecchio disse:

    - Ora hai salvato me, e ti sono grato; ma non hai compiuto che metà dell’impresa. Se non fai l’altra metà io non posso mantener la promessa.

    - Come sarebbe a dire? - domandò il Conte irato.

    - Non ti lasciar vincer dalla collera, - replicò il vecchio pacatamente. - Devi sapere che io montavo una mula per compiere il viaggio da Firenze a Romena, poiché mi dirigevo a quel palazzo. La mula è caduta insieme con me nel precipizio, ed essa porta nelle bisacce tutto ciò che ti ho promesso.

    Aghinolfo storse la bocca, perché gli pareva fatica, dopo aver tirato su il vecchio, di trascinarsi dietro la mula; ma la promessa di aver molti fiorini era sì lusinghiera, che affrontò senza fiatare anche quel disagio, e, come Iddio volle, scese.

    La neve aveva quasi ricoperto l’animale, così Aghinolfo dovette cercarlo a tastoni, e non gli ci volle poca fatica a farlo alzare, tanto più che era carico di roba e si moveva mal volentieri. Nonostante riuscì a ricondur la mula sulla via, ed albeggiava già quando, l’ebreo sulla mula, e Aghinolfo sul cavallo, si misero in cammino.

    Il vecchio, sbalordito dalla sua caduta, intirizzito dal freddo, non parlava.

    Aghinolfo aveva una paura matta che gli morisse per la strada, e ogni tanto si fermava alle case del contado e faceva ristorare Adamo con bevande e con cibi.

    Con molta fatica essi giunsero a Romena alcune ore dopo il mezzogiorno.

    Alessandro e Guido Pace, quando videro il fratello in compagnia del vecchio, si guardarono in faccia, e fu tanta l’allegrezza, che non poterono parlare.

    Maestro Adamo fece scaricare, in presenza sua, la mula, poi seguì il servo che si era caricato in spalla le bisacce; ma appena fu in camera cadde come un ciocco per terra e pareva morto.

    Non si può dire quante cure gli usassero i tre fratelli per fargli riprendere i sensi. Per lui fecero apprestare brodi sostanziosi, aprirono una botticella di vino prelibato, bruciarono grande quantità di legna, ma Adamo non dava segno di riaversi. Era pallido, smunto, e la lunga barba che gli scendeva sul petto pareva che circondasse il volto di un cadavere.

    Così rimase ad occhi chiusi per tre giorni interi, e durante quei giorni i tre fratelli sentivano svanire sempre più le speranze che avevano fondate sul vecchio. Aghinolfo però era il più desolato e rammaricavasi di essersi esposto a tanto disagio e a un così grande pericolo per tirar su da un precipizio un vecchio, che aveva già un piede nella fossa, se non tutti e due, e una mula zoppa. Egli guardava con cupidigia le pesanti bisacce che erano accanto al letto, ma poi lo assaliva il dubbio che invece di esser piene di fiorini, contenessero soltanto vile moneta di rame.

    La sera del terzo giorno Adamo aprì gli occhi, e i tre fratelli, nel vederlo ritornare alla vita, non poterono trattenere un grido di gioia.

    - Ho dormito, - disse il vecchio, - perché ne avevo bisogno. Quel maledetto Bargello fiorentino mi dava la caccia da più giorni, e m’impediva ogni riposo. Però gliel’ho fatta in barba, - aggiunse ridendo. - Il caso mi ha portato appunto in questo palazzo, al quale ero diretto quando precipitai nel burrone, e di qui, se voi mi porgete aiuto, o signori, io voglio farvi molto ricchi con grave danno di quella città di Firenze, che io odio.

    I tre fratelli s’erano stretti intorno al letto dell’ebreo e lo incitavano a parlare. Maestro Adamo narrò che, fuggendo da Brescia per sottrarsi alla persecuzione, si era rifugiato a Firenze con molte ricchezze e vi aveva esercitato il commercio delle pietre preziose. Un signore della famiglia degli Acciaiuoli, non potendo pagargli molte gemme acquistate da lui per donare alla sposa, lo aveva accusato di avergli venduto pietre false. Maestro Adamo era stato condannato a pagare una somma maggiore del suo avere, e così era stato rovinato. Allora, per vendicarsi della ingiustizia patita, erasi dato a coniar fiorini falsi, i quali avrebbero scemato il credito della moneta fiorentina nei paesi con i quali Firenze faceva i suoi traffichi, e a forza di pazienza era riuscito a fare dei conii perfetti. Di quei fiorini ne aveva già spacciati molti, e quando aveva saputo che i sospetti pesavan su di lui e che il Bargello era sul punto di arrestarlo, aveva fatto fagotto e si era diretto a Romena, dove i fiorentini, nemici dei Guidi, non lo avrebbero raggiunto.

    Quand’ebbe terminato di narrare, aprì le bisacce e fece cadere sul letto una pioggia di fiorini.

    - Belli! belli! - dicevano i tre fratelli mettendo le mani in quei mucchi di oro per avere il piacere di toccarli.

    - Molti sono di quelli coniati alla zecca, ma alcuni sono fabbricati da me, e in questi l’oro c’entra in piccolissima parte. Cercate di conoscere i buoni dai falsi, - disse l’ebreo.

    I giovani avari soppesavano le monete, se le mettevano sottocchio, le giravano e le rigiravano e poi dicevano:

    - Questa è buona, questa pure, questa ancora.

    E le porgevano al vecchio, che rideva di un riso maligno assicurando che fra quelle giudicate buone ce n’eran delle false.

    - Vedete, messeri, - disse a un tratto, - col mio segreto io posso farvi possessori d’immense ricchezze. In questo palazzo voi avrete certamente un sotterraneo. In quello costruirò un fornello per le leghe dei metalli; lì terrò i miei conii, lì lavorerò, e da Romena usciranno a centinaia e a migliaia i fiorini falsi che spenderò ad Arezzo, a Orvieto, nell’Umbria e in Romagna, e nelle vostre casse rientreranno soltanto fiorini buoni, perché io li distinguo a un piccolo segno speciale. Voi mi avete salvato dalla morte, ma io vi farò più ricchi di tutti quei ribaldi mercanti fiorentini messi insieme.

    La gioia dei tre signori era così grande che non potevano esprimerla a parole. Essi non si saziavano di rimuginare quelle monete, e il suono che producevano era più dolce al loro orecchio che quello del liuto toccato da mano appassionata.

    Il giorno dopo, maestro Adamo era sano ed arzillo come un giovanetto e, senza concedersi un momento di riposo, si diede subito a costruire il fornello ed a preparare la fabbricazione dei fiorini di similoro. Non era passato un mese dacché era giunto a Romena, che già spacciava ad Arezzo un sacchetto di quelle monete in cambio di tante gemme, che poi andava a rivendere a Perugia. E in grazia di questo scambio entrarono nel tesoro dei Guidi di Romena tanti fiorini di quelli buoni, che essi contavano con gioia, benedicendo l’ora e il momento in cui maestro Adamo era capitato al palazzo.
    Così andarono le cose per un certo tempo. Maestro Adamo fabbricava fiorini, li spacciava, ed intanto il tesoro dei suoi padroni aumentava ogni dì più. Ormai la stanza sottostante alla camera de’ signori non poteva più contenere tante ricchezze, e dovettero sfondare un muro e collocarle anche in un’altra stanza.

    Però il Diavolo, che aveva insegnato a maestro Adamo a far l’inganno, aiutò anche un altro a scoprirlo. Ecco come andaron le cose.

    Naturalmente, la presenza di quell’ebreo al castello di Romena era stata osservata. È vero che i signori del palazzo per spiegare la permanenza in casa loro di quel miscredente, avevan detto che era un abilissimo medico, e ogni volta che partiva per ispacciare i fiorini falsi, dicevano che andava sui monti in cerca di piante, oppur si recava a Arezzo, a Perugia e anche a Roma per curar personaggi di alto affare.
    Peraltro, se questi pretesti eran buoni per la gente che lo vedeva soltanto da lontano, non erano egualmente buoni per quelli di casa, i quali vedevan bene che maestro Adamo passava la giornata e talvolta le notti nel sotterraneo. Fra i pochi servi di casa, c’era un tale addetto alla stalla, che doveva governare la mula del giudeo e per questo aumento di lavoro non aveva avuto mai neppur un centesimo.

    Costui, che aveva nome Marco, un poco per l’antipatia che gli ispirava quell’ebreo, che doveva esser riverito e servito più dei padroni stessi, un po’ per non avere avuto mai da lui nessun regalo di danaro o di robe, incominciò a pedinarlo, e tutte le volte che maestro Adamo entrava o usciva dal sotterraneo, Marco trovava modo di vederlo e di sapere quel che portava in mano.

    Questo Marco, oltre al vedere che maestro Adamo portava talvolta nel sotterraneo delle verghe di piombo e ne usciva con sacchetti pieni di monete, aveva una volta sorpreso un discorso fra l’ebreo e il conte Aghinolfo, che gli aveva fatto nascere il sospetto che il medico non fosse altro che un falsario, perché Aghinolfo, rivolto al vecchio, gli aveva detto:

    - Quanto sarei curioso di conoscere il segno che vi fa distinguere quelli veri da quelli falsi!

    E l’ebreo aveva risposto:

    - È un segreto che voi conoscerete soltanto dopo la mia morte.

    Bisogna sapere che questo Marco era povero come Giobbe e per sua disgrazia s’era innamorato di una bella ragazza di una famiglia agiata. I parenti di Telda, quando gliela aveva chiesta in moglie, avevan detto un «no» tondo tondo, senza nascondergli che a uno spiantato come lui non avrebbero mai dato una ragazza che poteva accasarsi bene.

    Marco non si sgomentò per quella risposta; ma si persuase che bisognava mettere assieme un po’ di soldi, cosa che non poteva fare finché serviva i signori di Romena, che eran larghi come una pina verde.
    Appena Marco ebbe sorpreso quel discorso fra il conte Aghinolfo e maestro Adamo, disse:

    - Se ho giudizio, arricchisco e sposo Telda.

    Pensa e ripensa, stabilì di prendere consiglio da un suo compare, più vecchio di lui, che godeva fama di astuto.

    Marco raccontò a questo tale dall’a alla zeta quel che aveva veduto a Romena dopo che vi era giunto maestro Adamo, e il compare disse:

    - È certo che quegli spilorci dei conti Guidi non terrebbero in casa a ufo un giudeo, se questo maestro Adamo non procurasse loro molto utile. Senza dubbio l’ebreo fabbrica le monete nel sotterraneo e poi le spaccia.

    - Fin qui c’ero arrivato anch’io; ma volevo sapere da te, - aggiunse Marco, - quale utile si può ricavare dalla scoperta di questo segreto.

    - Un utile grande, poiché la Signoria fiorentina ha sommo interesse di conoscerlo.

    - Ma io non posso andare a Firenze a rivelarlo. I miei padroni s’insospettirebbero se io fuggissi, e farebbero sparire maestro Adamo; io poi non potrei più tornare a Romena, e la Telda sposerebbe un altro.

    - Hai ragione, - replicò il compare. - A Firenze potrei andar io, ma la Signoria non si contenterà di sapere che a Romena si fabbricano i fiorini falsi: essa vorrà bensì aver nelle mani maestro Adamo, e qui non può venirlo a prendere senza fare una guerra.

    - Ma potrebbe farlo arrestare sul territorio della Repubblica! - esclamò Marco.

    - E dove?

    - Alla Consuma, per esempio, dove maestro Adamo va spesso non so a che fare, - disse Marco.

    - La cosa mi par difficile, ma intanto io andrò a Firenze.

    E il compar di Marco una mattina si avviò su per la Consuma con un pane in tasca e pochi soldi nella scarsella, e dopo tre giorni era a Firenze e informava la Signoria che a Romena si facevano monete false. Prima, peraltro, di rivelare il segreto, l’astuto villano s’era fatto dare una buona somma, e gliene fu promessa un’altra, dieci volte maggiore, se riusciva a dare il falsario nelle mani della giustizia.
    Il compare rifece tutto allegro la via e recò a Marco la buona notizia spartendo con lui, da buoni amici, il denaro avuto.

    - Ora il più difficile è di avvertire in tempo la Signoria quando l’ebreo va alla Consuma, - disse il compare a Marco. - Tu che sei in casa, se apri bene gli orecchi e gli occhi, ci riuscirai.

    Marco, per non perder l’occasione, si mostrò da quel momento premuroso e servizievole con maestro Adamo per meglio osservare quello che faceva.

    L’ebreo partiva spesso, ma prendeva sempre la via d’Arezzo, e Marco si mordeva le mani dalla rabbia, perché aveva timore di sentir dire che la sua Telda era andata sposa a un altro.

    Un giorno, però, che era nella stalla, capitò maestro Adamo a veder la sua mula, e, imbattutosi in Marco, gli domandò se per fare una ventina di miglia occorreva farla ferrare, perché dopo l’ultimo viaggio non era stata ferrata. - Secondo che miglia sono, - disse Marco che voleva saper dove andava. - Se deve camminare in piano non ce n’è bisogno, ma in monte sì.

    - In monte, - rispose l’ebreo.

    - Allora è meglio farla ferrare.

    - Conducila dunque dal manescalco domani, perché doman l’altro voglio partire, - disse l’ebreo.

    Appena questi fu uscito, Marco corse dal compare e gli disse che prendesse un cavallo, lo ammazzasse magari per via, ma che giungesse la mattina dopo a Firenze affinché in capo a due giorni i soldati della Signoria fossero alla Consuma per arrestare maestro Adamo.

    Il compare non si fece pregare, e, senza ammazzare il cavallo, in dodici ore giunse a Firenze e ne ripartì poco dopo con una schiera di uomini armati sotto gli ordini del Bargello in persona.

    Marco intanto era a Romena a struggersi dall’impazienza. Da una parte avrebbe voluto che maestro Adamo fosse partito subito, dall’altra che avesse aspettato per timore di perdere la somma che sperava di guadagnare. La mattina del terzo giorno maestro Adamo scese nella stalla per vedere se la mula era ferrata, la fece sellare, e poi la caricò di due pesanti bisacce e prese la via della Consuma.
    Marco, nel vederlo partire, era mezzo matto e non capiva più nulla. A momenti gli pareva di esser più felice dei santi del Paradiso, a momenti più angustiato dei dannati dell’Inferno; e più le ore passavano e più lui smaniava per saper qualche cosa.

    Ma lasciamolo smaniare a Romena e torniamo al compare con i soldati e il Bargello. Essi giunsero alla Consuma dopo venti ore di viaggio, perché non viaggiavano all’impazzata come il compare, e quando vedevano un’osteria si fermavano, e non ripartivano se non avevano mangiato, bevuto e ciarlato.
    Come Dio volle giunsero al valico, e allora il Bargello, che non voleva entrare sul territorio del Casentino, rimpiattò i suoi uomini in un bosco a poca distanza dalla via, e mandò il compare a scoprire se l’ebreo si vedeva.

    Passarono diverse ore e finalmente il villano tornò dicendo che quattro miglia più giù, in un luogo detto lo Spino dei Pomponi, aveva veduto in una macchia maestro Adamo rimpiattato. Il villano aggiunse che l’ebreo doveva aspettare qualcuno.

    Infatti poco dopo, sulla via che da Firenze mena in Casentino, comparve un giovine a cavallo, che, all’aspetto, pareva un artiere. Il Bargello lo fece arrestare e lo minacciò di morte se non diceva dove andava. Egli rispose che si recava dal conte di Poppi a portare certi drappi commessigli per la Contessa. Infatti egli recava drappi di seta preziosi. Ma nonostante questa risposta, il Bargello non gli concesse di continuare il viaggio, e, lasciati due uomini a guardia del giovine, si fece accompagnare dal villano al luogo ove si trovava maestro Adamo. Questi, appena lo scòrse, si trasse di tasca una boccetta di veleno e la trangugiò. Il Bargello fece frugar le bisacce, e, trovatele piene di fiorini falsi, che egli seppe distinguere dai buoni, ordinò che fosse preparato un rogo e vi fece porre sopra maestro Adamo agonizzante. In poco tempo le fiamme avvolsero il corpo dell’ebreo, e le sue ceneri andaron disperse ai quattro venti.

    Il Bargello, il compare, il giovine artiere e i soldati tornarono a Firenze, e la Signoria pagò al villano il prezzo pattuito per la consegna dell’ebreo; ma Marco non ebbe nulla, poiché il villano, tentato dalla somma ottenuta, pensò bene di non farsi più vedere a Romena e di comprare un poderetto verso Signa. Così Marco ebbe il dolore di veder andar la Telda all’altare con un altro, e provò il rimorso di essere stato cagione della morte di un uomo. Egli si accusava pubblicamente, e spese nel far dire delle messe, in suffragio dell’anima dell’ebreo, tutto quel poco che aveva.

    Siccome quelli che andavano alla Consuma dicevano di veder sempre allo Spino de’ Pomponi l’ombra di maestro Adamo, così un vescovo, andato a Roma, ottenne un’indulgenza per tutte le persone che, passando da quel luogo, gettassero pietre ove fu eretto il rogo; e ancora si vede colà un monte di sassi, che si chiama: la Macìa dell’uomo morto.

    - Io so appena leggere, - aggiunse la Regina, - ma mi rammento di aver sentito dire che anche il poeta Dante, nell’Inferno, parla di questo maestro Adamo da Brescia, il quale era condannato a bramare un goccia d’acqua, e si vedeva scorrer davanti

    Li ruscelletti che da’ verdi colli
    Del Casentin discendon giuso in Arno.

    E al poeta il falsario dice:

    Ivi è Romena, là dov’io falsai
    La lega suggellata del Battista,
    Perch’io il corpo suso arso lasciai.
    Ma s’io vedessi qui l’anima trista
    Di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
    Per Fonte Branda non darei la vista.

    Fonte Branda, avete a sapere, era una fonte non lungi dalla terra di Romena dove l’ebreo aveva falsificato i fiorini per soddisfare la cupidigia dei tre fratelli. E ora la novella è finita, e tu, Cecco, suona l’organetto, e voi ragazzi, ballate:

    La vecchia Regina, dopo aver fatto questo gaio invito alla gioventù, si era alzata per andarsene a letto, ma la Carola era stata pronta a tagliare una fetta di schiacciata, e Vezzosa a offrirle un bicchier di vino, ringraziandola della novella.

    - Vengo a sentirvi per impararle, - aveva detto, - così quando sarò nonna anch’io, i nipotini mi staranno ad ascoltare a bocca aperta.

    - Ne devon passar degli anni prima di quel tempo, - aveva risposto la Regina, e s’era fermata a guardare la bella ragazza da vicino, pensando che non avrebbe sfigurato fra le sue nuore.

    Cecco prese la mamma dolcemente per un braccio e l’accompagnò in camera.

    - Non ti piacerebbe la Vezzosa? - gli domandò la madre sorridendo.

    - Mamma, - rispose Cecco scherzando. - Nessuna ragazza, per bella che sia, mi piace quanto voi.

    - Mattarellone! - disse la vecchia battendogli sulla spalla.

    Cecco scese e andò a collocarsi fra i suonatori sulla madia, e per quanto la Vezzosa e le altre ragazze lo invitassero a ballare, egli rifiutò dicendo che non voleva fare una brutta figura dal momento che non sapeva muovere le gambe a tempo.

    Quando scese per prendere un bicchier di vino, la Vezzosa gli si accostò e gli disse:

    - Sapete, Cecco, che cosa v’invidio? La vostra mamma. Beato voi che l’avete ancora; se sapeste qual disgrazia è di vedere al posto di quella che ci ha fatto tante carezze e ci ha voluto tanto bene, un’altra donna che non ci può soffrire!

    Cecco, che non aveva ascoltato la Vezzosa quando la domenica prima faceva il chiasso, né quando quella sera lo aveva ripetutamente invitato a ballare, ora non perdeva una parola di quello che ella gli diceva sulla afflizione costante di vedersi in casa una matrigna; e quella ragazza, che gli era parsa leggerina e un poco vanesia, gl’ispirava compassione, e l’avrebbe ascoltata ancora, se le ballerine e i ballerini non lo avessero costretto a riprendere il suo posto sulla madia e a sonare tutte le polche e i valzer del suo repertorio.

    Erano goffi a vederli ballare quelle danze esotiche, e tale apparivano a Cecco, il quale fatto un cenno ai suonatori, attaccò un trescone. Allora, smessa la scimmiottatura cittadina, quei bravi contadini presero a ballare con garbo e con grazia quel ballo paesano. La Vezzosa poi era così aggraziata nei movimenti, che Cecco, posato l’organino, fece un salto e, toltala al suo ballerino, ballò anche lui il trescone.

    Quando ebbero terminato, tutti gli dettero la baia, dicendo:

    - Guarda, guarda quello che non sapeva ballare!

    - Non so ballare infatti né polche né valzer perché quei balli vanno lasciati a chi ha imparato dai maestri e alla gente meno zotica di noi; ma il trescone lo facciamo fino da piccini, come giuochiamo alla ruzzola e a palla. Che volete, io son fatto così, e mi pare che ognuno debba fare il proprio mestiere, e che i contadini, anche nei balli, debbano far da contadini. Forse sbaglierò, ma anche negli abiti bisogna mantenere le antiche usanze, e le donne nostre mi paion più belle vestite di bordatino, con un bel grembiale davanti e lo sciallino incrociato sul petto, che con tanti fronzoli da cittadine, che non sanno portare.

    Mentre Cecco parlava, la Vezzosa teneva gli occhi bassi e arrossiva sentendo che quel rimprovero era diretto specialmente a lei.

    Verso le dieci il ballonzolo in casa Marcucci era terminato, e nonostante vi fossero molti uomini, pure Cecco, senza farsi tanto pregare, accompagnò a casa la Vezzosa e l’ascoltò mentre essa gli parlava dolcemente del dolore di non aver più la madre.




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