Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Emma Perodi

    Il Diavolo alla festa

    Fiabe Fantastiche


    La domenica successiva a quella in cui la Regina aveva raccontato la novella della Stella consolatrice, ricorreva la Pentolaccia, e in casa Marcucci avevano fatti grandi preparativi per festeggiarla. Nel centro della cucina era stata appesa al soffitto una pentola incrinata, piena di noci, di nocciole, di castagne secche e di confetti, che Cecco aveva riportati da Firenze, e dopo, uno alla volta, grandi e piccini dovevano bendarsi e con una pertica cercar di rompere la pentola, affinché quel che v’era dentro cadesse e tutti si gettassero per terra per acchiappare frutte e dolci. Questo divertimento doveva precedere la novella, per farlo godere anche alla Regina, che, dopo aver raccontato, era stanca e se ne andava a letto. Quella sera la Vezzosa non giunse sola a casa Marcucci. Era imbrancata fra molte ragazze e cercava di rimanere in mezzo a loro per non trovarsi a parlare da sola a solo con Cecco. Dopo che egli aveva cantato, partendo, quel rispetto, la Vezzosa lo evitava, e Cecco se ne accorgeva bene e voleva avere una spiegazione con lei; ma l’altra, più furba, riusciva a non dargli questa soddisfazione. Fu lei che si bendò per la prima e almanaccò un pezzo con la pertica in mano, senza giungere mai a toccar la pentola, e Cecco la metteva in canzonella per incitarla a continuare quel giuoco; ma per quanto ella si arrabattasse, non riusciva a nulla. Alla fine si levò la benda, dicendo: - M’è venuto a noia di stare a occhi chiusi; chi è più bravo di me si faccia avanti. La Carola si volle provare, ma neppur lei colpì nel segno; allora si fece avanti Maso, che era alto e forte, e con pochi colpi la pentola cadde in mille bricioli, e una pioggia di frutta secche e di confetti si riversò sul pavimento. - Bravo! Bravo! - urlarono da tutte le parti. Cecco era stato svelto a chinarsi e raccattare i confetti, e quando ne ebbe fatto una manciata, li presentò alla Vezzosa, dicendole: - Mangiateli e siate meno amara! - Come sarebbe a dire? - Nulla... vi dico che li mangiate, ché un po’ di dolce in bocca e nel cuore fa piuttosto bene. La Vezzosa era diventata pallida, ed ora era lei che voleva una spiegazione da Cecco, per quelle paroline velate che le aveva detto. - Lo so, - rispose l’artigliere, - che vi siete avuta a male perché domenica cantavo quel rispetto; ma, che volete, quando passo da casa vostra mi verrebbe sempre voglia di cantare. Qui tacque, perché gli parve di aver detto troppo; e si chinò di nuovo per disputare ai bambini i regali della Pentolaccia. Quando sul pavimento non rimase più neppure una castagna secca, i ragazzi, con le tasche piene, si fecero accanto alla vecchia, che prese a dire:

    - Al tempo de’ tempi, quando Gesù Cristo e la Vergine Maria scendevano di tanto in tanto a visitare il Casentino, e ci eran più cappelline e croci sulle strade maestre che ville e osterie, vivevano su nel castello di Papiano, due giovanetti di casa Guidi, così belli, che la madre loro non avrebbe potuto scambiarli con nessun cavaliere del mondo. Il maggiore di questi signori avea nome Tendegrimo e il secondo Tegrimo; il primo aveva sedici anni, e il secondo quattordici. La contessa Costanza aveva fatto loro insegnare tutto ciò che si conveniva a giovani di gentil sangue, e anche a scrivere ed a far versi, tanto in latino quanto in italiano. Tuttavia essi avevano approfittato diversamente di quegli insegnamenti, perché Tendegrimo era buono e pronto a soccorrere i bisognosi, e il denaro non gli rimaneva a lungo nella scarsella, come il risentimento nel cuore; mentre Tegrimo era avaro, e, se riceveva un’offesa, non aveva pace finché non si era vendicato. Il padre loro era morto quando erano ancor piccini, e la contessa Costanza li aveva tenuti presso di sé; ma quando furono grandi, pensò che era tempo di mandarli alla Corte del padre suo, che era signore di Ravenna, e dal quale potevano imparare tutto ciò che si addiceva agli uomini di nascita nobile. Un giorno, dunque, dopo aver donato a ciascuno dei due figli un abito nuovo ricamato con le sue mani e foderato di vaio, una borsa piena d’oro, un buon palafreno e una scorta numerosa, la madre li benedì e disse loro di mettersi in viaggio per la Romagna. I due fratelli partirono, tutti lieti di veder nuovi paesi. I loro cavalli camminavano lesto, e dopo due giorni avevano varcato l’Appennino e si trovarono in contrade di aspetto diverso e di diversa vegetazione. Una mattina, mentre traversavano un crocevia, scòrsero una povera donna, seduta a piè di una croce, che si nascondeva il viso col grembiule. Tendegrimo, che aveva il cuore buono, si fermò per domandarle che cosa aveva, e la poveretta gli rispose di aver perduto da poco un figlio, il quale era l’unico appoggio che le restasse al mondo, e che si trovava abbandonata alla carità dei cristiani. Il giovanetto s’intenerì, ma il fratello minore, che s’era fermato a pochi passi, gli disse con piglio di canzonatura: - Non prestar fede, Tendegrimo, a tutto quello che ti dice la prima venuta! Scommetto che quella donna ha scelto questo luogo dal quale passano molti viaggiatori, per fare miglior bottino. - Chètati, fratello mio, - rispose Tendegrimo, - chètati per carità! Le tue parole la fanno pianger di più. Non vedi che la misera ha l’età di nostra madre, che Iddio ci conservi, e che inoltre le somiglia! Poi si chinò verso la mendicante e, porgendole la borsa, aggiunse: Tenete, poveretta, io non posso far altro che soccorrervi, ma pregherò Iddio che vi consoli. La mendicante prese la borsa e disse: - Poiché voi, gentil signore, avete voluto arricchire una povera donna, spero non ricuserete questa noce che contiene una vespa col pungiglione di diamante. Tendegrimo prese la noce, e, dopo aver ringraziato la povera donna del suo dono, proseguì il cammino. I due fratelli giunsero ben presto al limitare di un bosco e videro un bimbo mezzo nudo che frugava nel tronco vuoto degli alberi, cantando una canzone così triste da far piangere. Ogni tanto cessava di frugare per battere insieme le manine gelate, e diceva: - Ho freddo! Ho freddo! Anche a distanza si sentiva che batteva i denti, e si vedeva che aveva il visino livido dal freddo. Tendegrimo s’intenerì alla vista del bimbo, e volgendosi al fratello disse: - Gesù buono, non vedi, Tegrimo, come quella creatura soffre dal freddo? - Dev’essere molto freddoloso, - rispose Tegrimo, - poiché a me non pare che sia freddo. - Perché tu hai un farsetto foderato di vaio, e sopra codesto mantello, mentre lui è quasi nudo. - È vero, ma è un contadino. - Dio mio! - esclamò Tendegrimo, - se penso che tu saresti potuto nascer povero come lui, sento spezzarmi il cuore e non posso vederlo soffrire! Così dicendo fermò il cavallo e domandò al bimbo che cosa faceva. - Raccatto le castagne che i contadini non hanno vedute, e quando ne avrò molte le andrò a vendere e potrò comprarmi un vestito di saio. - E ne hai trovate già molte? - gli domandò Tendegrimo. - Una sola, signor mio; - rispose il bambino aprendo la mano, - ma questa contiene una mosca con le ali d’oro. - Ebbene, te la prendo, - disse Tendegrimo gettandogli il suo mantello. - Ravvolgiti in questo e la sera recita un’avemmaria per Tendegrimo e una per colei che lo ha messo al mondo. I due fratelli ripresero la via, e il maggiore, che s’era spogliato del mantello, soffrì assai, in sulle prime, per il vento freddo, non avendo più come ripararsi; ma quando ebbero traversato il bosco, il vento si fece più dolce, e il sole, squarciando le nubi, rallegrò la campagna. Allora giunsero a un prato dove c’era una fontana, e sul margine di quella stava seduto un vecchio tutto coperto di stracci, con una bisaccia sulla spalla. Appena scòrse i cavalieri e il loro seguito, costui si diede a chiamare con voce supplichevole. Tendegrimo si accostò a lui e gli domandò, salutandolo rispettosamente: - Che cosa volete, buon vecchio? - Ohimè, signorini, - replicò egli, - vedete come ho bianchi i capelli e rugose le guance? Invecchiando mi sono indebolito, e le gambe non mi reggono più. Dovrò dunque morire a questo posto, se uno di voi non mi vende il suo cavallo! - Venderti uno dei nostri cavalli? pezzente! - esclamò Tegrimo con aria di disprezzo. - E con che lo pagheresti? - Vedete questa ghianda bucata? - riprese il mendicante. - Ebbene, essa racchiude un ragno che sa fabbricar tele più forti che se fossero fatte di fili d’acciaio; lasciatemi uno dei vostri palafreni e io vi darò in cambio la ghianda col ragno. Il minore dei due fratelli si mise a ridere. - Lo senti, Tendegrimo; bisogna che egli non abbia sale in zucca per farci una siffatta proposta. Ma il maggiore dei conti di Papiano rispose dolcemente: - Il povero non può offrire altro che quello che ha. Poi, scendendo di sella e avanzandosi verso il vecchio, aggiunse: - Vi do il mio cavallo, buon uomo, non per il prezzo che me ne offrite, ma per amor di Gesù, il quale ha detto che i poveri sono i suoi eletti. Prendetelo, e io ringrazierò Iddio che si è servito di me per beneficarvi. Il vecchio mormorò tante e poi tante benedizioni, e, salito a cavallo con l’aiuto di Tendegrimo, s’allontanò nel prato. Tegrimo non poté perdonare al fratello quest’ultima elemosina, e si mise a rimproverarlo, dicendogli: - Stupido, dovresti vergognarti di esserti spogliato di tutto per la tua pazzia! Se hai pensato che quando tu fossi stato sprovvisto di tutto ti avrei permesso di prender metà del mio denaro, del mio mantello e del mio cavallo, hai fatto i conti senza di me. Voglio che la lezione ti sia d’esempio e che, sentendo le conseguenze della tua prodigalità, tu sia più economo per l’avvenire. Gli uomini che la contessa Costanza aveva dato come scorta ai figli, offrirono il loro cavallo al conte Tendegrimo, ma questi rifiutò e, rispondendo al fratello, disse: - È infatti una buona lezione, e non mi rifiuto ad averla. Non ho mai pensato a toglierti metà del danaro, del mantello e del cavallo. Segui anzi la tua via e fatti scortare come si conviene a gentiluomo, senza occuparti di me. Che la Signora del Cielo ti protegga! Tegrimo non rispose, ma fece cenno alla scorta di seguirlo e partì di trotto, mentre il fratello maggiore continuava il viaggio a piedi senza movergli neanche in cuor suo nessun rimprovero. Il minore dei conti di Papiano giunse così a un angusto passaggio fiancheggiato da due montagne altissime. Quel passaggio era chiamato il Sentiero Maledetto, perché un Orco abitava sulla vetta di uno dei due monti, e stava in agguato attendendo i viaggiatori, come farebbe una fiera nel bosco. Quest’Orco era un omone cieco, senza piedi, ma aveva l’udito così fino, che sentiva perfino una talpa se si scavava un buco sottoterra. Teneva al suo servizio due aquile che aveva addomesticate e che mandava ad afferrar la preda, quando la sentiva vicina. Le persone del paese, per passar da quel sentiero, si levavano le scarpe e non osavano respirare dalla paura d’esser sentite dall’Orco. Tegrimo, che non lo sapeva, entrò a cavallo nel sentiero con tutta la scorta. Il Gigante, udendo rumore di ferri sui sassi, si destò e disse: - Su, miei bracchi, dove siete? L’aquila bianca e l’aquila rossa accorsero alla chiamata. - Andatemi a ghermire chi passa, e così avrò la cena! - esclamò l’Orco. I due uccelli smisurati fenderono l’aria come due dardi, piombarono sul sentiero scavato nella terra e, afferrato che ebbero Tegrimo, lo portarono alla casa dell’Orco. La scorta, spaventata, voltò briglia e si diede alla fuga. In quel momento Tendegrimo giungeva all’imboccatura del sentiero, e vedendo il fratello trasportato in aria dalle aquile, gettò un grido e corse dietro a lui; ma Tegrimo e i suoi due assalitori sparirono in un battibaleno nelle nuvole, che avvolgevano le due montagne. Il giovinetto rimase per un momento fermo, guardando il cielo e le montagne che sorgevano a picco, e poi cadde in ginocchio e congiungendo le mani, esclamò: - Iddio onnipotente, che avete creato il mondo, salvate Tegrimo, il fratel mio! - Non scomodare Iddio per tanto poco, - dissero tre vocine a poca distanza da lui. Tendegrimo si volse meravigliato. - Chi ha parlato? Dove siete? - domandò. - Nella tasca del tuo farsetto, - risposero le tre voci. Il giovinetto tolse di tasca la noce, la castagna e la ghianda, dov’erano rinchiusi i tre piccoli insetti. - Siete dunque voi che volete salvare Tegrimo? - Noi, noi, noi, - risposero in coro le tre vocine. - E come farete, poveri animalucci? - Apri le nostre prigioni e vedrai. Tendegrimo fece come volevano le tre bestioline, e allora il ragno si accostò ad un albero e su quello cominciò a tessere una tela lucente e solida come se fosse stata d’acciaio; poi montò in groppa alla mosca dorata, che lo sollevò pian piano nello spazio, mentre il ragno continuava la trama i cui fili erano radi per modo da formare una scala che si allungava sempre più. Tendegrimo seguiva i due insetti salendo per quella scala miracolosa finché non ebbe raggiunto la cima della montagna. Allora la vespa si mise a volargli intorno al capo, ed egli, seguendola, giunse alla casa dell’Orco. Questa casa era una grotta scavata nel masso e alta come la navata di una chiesa. L’Orco, cieco e senza gambe, stava seduto nel centro della caverna e cantava una canzonaccia mentre tagliava le fette di lardo per fare arrostir Tegrimo, che era sdraiato per terra con le gambe legate e le braccia dietro la schiena. Le due aquile stavano a poca distanza; una attizzava il fuoco e l’altra caricava il girarrosto. Il rumore che faceva il Gigante cantando, e l’attenzione che prestava a preparar le fette di lardo, gl’impedirono di sentire che Tendegrimo si avvicinava con i suoi tre insetti; ma l’aquila rossa vide il giovinetto e stava già per afferrarlo, quando la vespa le bucò gli occhi col pungiglione di diamante. L’aquila bianca accorse in aiuto della compagna, ma fu accecata subito anche lei. Allora la vespa volò intorno al capo dell’Orco, che s’era alzato udendo il grido dei suoi servi, e si die’ a pungerlo furiosamente nella faccia. Il Gigante muggiva come un toro ferito e agitava le braccia a guisa delle ali di un mulino a vento, ma non poteva acchiappar la vespa, perché non la vedeva, e neppur poteva fuggirla perché non aveva piedi. Alla fine si lasciò cadere col viso in terra per sottrarsi al pungiglione del rabbioso animale; in quel momento però giunse il ragno e tessé sopra a lui una rete, nella quale rimase come un topo nella trappola. L’Orco urlava chiamando le aquile; ma queste, che erano imbestialite dal dolore e s’accorgevano che egli era vinto, avevano cessato di temerlo; anzi, volendo vendicarsi su di lui della lunga schiavitù in cui le aveva tenute, gli si gettarono addosso e, attraverso la rete, gli lacerarono le carni col becco. A ogni colpo esse strappavano un lembo di carne sanguinante, e non cessarono, se non quando furono giunte all’osso. Allora si coricarono sulla carcassa dell’Orco, e siccome la carne del Diavolo non si digerisce, creparono d’indigestione. Intanto Tendegrimo aveva sciolto il fratello, e dopo averlo abbracciato piangendo dalla gioia, lo aveva menato fuori della casa dell’Orco, sul picco della montagna. Costì giunsero la vespa e la mosca coll’ali d’oro, attaccate a un carro, e pregarono i due fratelli di salirvi. Il ragno si mise davanti sul timone, e i due insetti volarono via rapidamente. Tendegrimo e Tegrimo attraversarono così i prati, i boschi e le montagne, e giunsero a Ravenna, dinanzi al palazzo del loro nonno. Il carro passò sul ponte levatoio e i due fratelli videro nel cortile i loro cavalli, che li aspettavano, e la loro scorta. Ma sull’arcione di Tendegrimo erano appesi la borsa e il mantello che aveva donati per via; soltanto la borsa era più grande e più piena, e il mantello era ornato di ricchi fermagli di diamanti. Il giovinetto avrebbe voluto rivolgersi ai tre insetti che lo avevano aiutato a salvare il fratello, per saper qualche cosa, ma il carro era sparito e, invece di tre insetti, vide dinanzi a sé tre angioli splendenti di luce. Tendegrimo cadde in ginocchio. Allora uno dei tre angioli gli disse: - Non temere, mio buon giovanetto, perché la donna, il bambino e il vecchio, che tu hai soccorsi, erano Maria, Gesù e san Giuseppe. Ci hanno dati a te perché tu potessi fare il viaggio senza pericolo e, ora che sei giunto, noi torniamo al Paradiso. Dette queste parole gli angioli avevano allargate le ali ed erano volati su in Cielo, cantando la gloria del Signore. Ciò che il fratello aveva operato per la sua salvezza avrebbe dovuto raddolcire l’animo duro di Tegrimo; invece lo inasprì maggiormente contro il fratello, tanto più che il nonno, che era il conte da Polenta, faceva più festa a Tendegrimo che a lui, e, come si conveniva al primogenito della famiglia, lo poneva alla sua destra a tavola e a cavallo, e lo chiamava messer il Conte, mentre a lui non dava nessun titolo. Il Diavolo forse, che si attacca ai malvagi, sul cui animo ha maggior presa, come la crittogama attacca le viti più deboli, incominciò a insinuare a Tegrimo che non era giusto che egli non fosse onorato come Tendegrimo e che a questi spettasse tutta l’eredità paterna. Questi pensieracci infiammarono il giovine alla ribellione; ma seppe nasconderla e covarla per poterla meglio effettuare al momento opportuno. Intanto era trascorso il tempo che i due fratelli dovevano passare alla Corte del nonno, e la contessa Costanza li richiamava con insistenza presso di sé, tanto più che aveva chiesto all’Imperatore l’investitura della contea e dei feudi per il figlio maggiore, e attendeva il ritorno del mèsso. Il vecchio conte da Polenta fece ricchi donativi ai nipoti prima che partissero; egli raccomandò al maggiore di osservare sempre le regole di buona cavalleria, e al minore di ubbidire in tutto e per tutto al fratello come suo signore e padrone. Queste parole fecero fremere Tegrimo; ma il Diavolo, che s’era impossessato dell’animo suo, gli dette la forza di non mostrarsi turbato, anzi, di promettere al nonno d’uniformarsi in tutto e per tutto ai voleri del fratello. Molta turba di cavalieri accompagnò i due giovani oltre le porte della città, e Tendegrimo e Tegrimo continuarono il viaggio con la loro scorta. Essi dovevano ripassare dall’angusto sentiero fra le due montagne, nel quale il secondo era stato involato dalle aquile. Giunti in quel punto, Tendegrimo scese da cavallo e ringraziò Gesù, la Madonna e san Giuseppe per la liberazione del fratello. Quindi rimontò a cavallo e proseguì il viaggio scambiando poche parole col fratello. Tendegrimo era triste come se lo minacciasse una sventura, e Tegrimo ruminava nella mente pensieri malvagi ed evitava di guardare in faccia il suo primogenito. Quando il loro arrivo fu segnalato alla contessa Costanza dal soldato che stava sempre in vedetta sulla più alta torre merlata del castello, ella mosse incontro ai figli, lieta e sorridente, e s’imbatté in essi mentre varcavano il ponte levatoio. I due giovani balzarono da cavallo per baciarle la mano, ed ella, stendendo la sinistra a Tegrimo e la destra a Tendegrimo, disse a questi: - Vi saluto, conte di Papiano. Per volontà dell’Imperatore voi siete investito de’ feudi del padre vostro. Che possiate, messere, difenderli ed aumentarli! Tegrimo divenne cupo a quella notizia e sentì ribollirsi nel cuore tutto l’astio che aveva per il fratello, mentre questi, con fare umile, rispose alla madre: - Madonna, con l’aiuto di Dio cercherò d’esser buon figlio, buon signore e buon cristiano. La Contessa ordinò subito grandi feste per solennizzare l’investitura di Tendegrimo nei feudi paterni, e spedì messi a Poppi, a Romena, a Porciano, a Montemignaio, per tutto dove avevano dominio i Guidi, e anche ad Arezzo e a Firenze. Tegrimo, dominato il turbamento momentaneo, si mostrò lieto delle imminenti feste; ma sotto sotto si diede a cospirare contro il fratello. Prima di tutto fece intendere ai terrazzani che Tendegrimo, inclinato alla devozione più che alle armi, non avrebbe permesso scorrerie sulle terre vicine e si sarebbe mostrato severissimo con i predoni. Ora, siccome era dalle scorrerie in Romagna o sul territorio della Repubblica fiorentina che i terrazzani traevano il maggior guadagno, essi s’impensierirono di dover ubbidire al nuovo signore e incominciarono a dire che i devoti dovevano rinchiudersi nei conventi, e che non era giusto che gli uomini forti e valorosi avessero a poltrire nell’ozio. Quando Tegrimo fu sicuro di aver suscitato nei terrazzani il malcontento contro il fratello, parlò dei suoi sentimenti, disse che non sognava altro che guerre e conquiste, e che se il dominio gli fosse spettato, egli avrebbe meritato il nome del più ardito e intraprendente cavaliere d’Italia. Naturalmente, dopo questi discorsi, ci fu chi gli disse: - Peccato che voi non siate signore di Papiano! E siccome una parola detta abilmente tira un’offerta, così ci fu anche chi gli propose di far sparire Tendegrimo. Il giovane finse di raccapricciare a quella proposta, ma poi si lasciò convincere, e fra Tegrimo e i congiurati fu stabilito il come e il quando metterla ad effetto. Intanto il castello di Papiano era pieno di ospiti, e fra questi si trovavano molte dame e fanciulle, parenti della contessa Costanza. Una sera tutta la comitiva era adunata nella grande sala, intenta ad ascoltare due trovatori provenzali, che sonavano il liuto accompagnando il canto, quando sulla porta si presentò uno dei congiurati, cui era affidata la guardia del castello, e dopo aver rivolto uno sguardo d’intesa a Tegrimo, si accostò a Tendegrimo e gli disse: - Messer il Conte, è giunto ora un cavaliere seguito da due valletti, che chiede l’ospitalità. - Il suo nome? - domandò Tendegrimo. - Ha detto che non può rivelarlo in segretezza altro che al signore di Papiano. - Fatelo entrare nella sala terrena, - ordinò Tendegrimo; e poco dopo, scusandosi con la radunanza, usciva per recarsi presso lo sconosciuto. Tegrimo lo seguì con lo sguardo, e siccome i trovatori avevano interrotto il suono e il canto, egli disse: - Gentili dame, diamo principio alle danze intanto che il Conte confabula col misterioso cavaliere. Al suo invito i trovatori ripresero a suonare, le dame si alzarono dagli scanni stemmati, i giovani le pregarono del favore di poterle accompagnare, e ben presto la sala vastissima echeggiò dello stropiccio dei passi di tante e tante coppie allegre. La contessa Costanza e alcune matrone soltanto erano rimaste sedute, e guardavano le coppie svelte di bei cavalieri e di belle dame, ammirando Tegrimo, che si distingueva fra i giovani per la bella persona e per la foga nella danza. A un tratto, mentre i paggi entravano recando i preziosi vasi d’argento per mescer rinfreschi alla nobile comitiva, si sentì un rumore secco, come di fulmine caduto sul castello. Le danze cessarono, il liuto cadde dalle mani dei trovatori, i paggi lasciarono scivolare in terra i vasi d’argento, e le torce che illuminavano la sala si spensero a un tratto. Ma subito dopo si vide un gran chiarore, come d’incendio, e dalle finestre, che si erano spalancate, penetrò in sala il Diavolo; piombò su Tegrimo e, afferratolo per un braccio, lo portò via. Sparì il chiarore, e nella sala buia nessuno osava fiatare. La contessa Costanza era caduta in terra, le altre dame avevano perduto i sensi; e gli uomini si facevano in silenzio il segno della croce. Nel castello però echeggiavano i gridi di trionfo dei congiurati. - Evviva il conte Tegrimo! - urlavano avvicinandosi alla sala per annunziare al nuovo signore che la sua volontà era compiuta. A quelle grida i signori di Poppi, di Romena, di Porciano e di Montemignaio, tutti i Guidi, per farla breve, capirono che un delitto doveva essere stato commesso, e sguainarono tutti la spada. Così, quando i congiurati entrarono con le torce in mano per acclamare Tegrimo, furono assaliti e disarmati e rinchiusi in una torre. I prodi signori, dopo aver compiuto quest’atto di giustizia, scesero al pianterreno, e, chiamando in loro aiuto i valletti che li avevano accompagnati, s’impadronirono degli altri congiurati. Poscia, entrati nella sala dove era stato attratto Tendegrimo, lo trovarono steso in terra con una ferita di pugnale al petto, da cui sgorgava abbondantissimo il sangue. Alcuni dei congiurati, impauriti, rivelarono che il Conte era stato tratto in quell’agguato, col pretesto del cavaliere misterioso, per ucciderlo più facilmente in quella sera che egli non vestiva la maglia, e che Tegrimo era stato l’istigatore del delitto. - Tegrimo lo ha preso il Diavolo, - disse il conte di Romena. Udendo questo, i congiurati furono assaliti da grande paura, e colui che aveva vibrato il colpo, si gettò in terra supplicando che lo lasciassero in vita, affinché potesse pentirsi e far penitenza. In quel mentre il ferito, che tutti avevano creduto morto, aprì gli occhi, si sollevò a sedere, e disse: - Perdono a tutti, anche a mio fratello. - Troppo tardi! - esclamò il conte di Romena. - Come, lo avete ucciso? - domandò Tendegrimo spalancando gli occhi. - No, il Diavolo l’ha portato seco. - Gesù, Giuseppe e Maria! - esclamò il ferito, e ricadde con la testa per terra. Fu adagiato sopra una barella e portato in camera sua, dove frate Egidio gli curò la ferita con certi suoi farmachi, e la madre, ritornata in sé, gli preparò le bende. La ferita si rimarginò in pochi giorni e il Conte non soffriva nulla, anzi diceva di sentirsi bene e di veder sempre tre angeli che non si staccavano mai dal suo letto. Il poveretto non lamentava altro che la dannazione dell’anima del fratello. Quando fu guarito, cedé il suo feudo a un figlio del suo cugino di Romena, ed egli si ritirò nell’Eremo di Camaldoli, dove si raccolse in ardenti preghiere per riscattare i peccati del fratello e dove morì in concetto di santità. Se qualcuno va a Papiano, sentirà raccontare ancora della visita del Diavolo che andò a rapire in piena festa il conte Tegrimo.

    - E qui la novella è terminata, - disse la Regina. Tutti quelli che avevano ascoltato la narrazione, rabbrividivano e dicevano: - Ma sarà vero? Maso, per levar la paura da dosso ai bimbi, cominciò a dire: - Non lo sapete che le son fole! Uno comincia a dire che un uomo brutto capitò in mezzo alla festa; un secondo aggiunge che era brutto da far paura; un terzo afferma che era il Diavolo in persona, e così la notizia, aumentata dalle fantasie, passando di bocca in bocca, fa come un torrente che raccolga l’acqua di tanti fossi prima di giungere al piano. Quando arriva a noi, quella tale notizia ha perduto tutta l’apparenza della verità, e serve soltanto a rallegrare le nostre veglie. Ma né Diavolo né Santi bazzicano nel mondo, e i morti non risuscitano. La parola autorevole del capoccia rassicurò i bimbi, che si fecero intorno alla Vezzosa per chiederle i confetti che aveva cavato di tasca e che offriva. - Quando si mangeranno i vostri? - domandò Maso. Ella fece spallucce e abbassò gli occhi; Cecco si voltò da un’altra parte, e le cognate sorrisero guardandosi fra loro di sottecchi. Quella sera Cecco uscì a fumare prima che si sciogliesse la veglia, e poco dopo passò la Vezzosa, imbrancata con le altre ragazze, che cantava a squarciagola:

    Giovanottin che semini fra’ sassi,
    Non lo sperar d’aver buona raccolta:
    Tu cerchi di venir dietro a’ mi’ passi,
    Ma sai che ci se’ stato un’altra volta.

    - Vorrei sapere se canta così per me! - disse Cecco mordendosi un dito.




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