Library / Literary Works |
Emma Perodi
Il Diavolo che si fece frate
Fiabe Fantastiche
La vigilia dell’Epifania era capitata di giovedì, e i bimbi Marcucci, che capivano di avere la domenica successiva una novella della nonna, andarono a invitare i loro amici del vicinato. Si capisce bene che nessuno degli invitati mancò; anzi, essi avevano già tanto parlato in famiglia delle novelle precedenti, narrate dalla Regina, che la domenica l’uditorio fu numerosissimo, e ai bimbi si unirono le sorelle maggiori e anche qualche mamma. - Regina, non vi si dà incomodo? - domandarono entrando le donne. - Anzi, mi fate piacere, - rispondeva la vecchia. - Io racconto come so, e non mi piglio soggezione di nessuno. Però se la novella vi riesce uggiosa, andatevene pure, anche a metà, che io non me n’ho per male. Ma se la Regina non si pigliava soggezione della gente, non era così di Cecco, il quale parlava molto finché era in famiglia o in mezzo ai bambini, ma diventava muto e impacciato come uno scolaretto, appena si accorgeva che c’erano delle persone grandi che lo ascoltavano, e specialmente una certa Vezzosa, una bella ragazza di un podere poco distante. Cecco s’era messo in testa che Vezzosa lo canzonasse, e in presenza di lei non c’era caso che aprisse bocca. Così la Regina, sentendo che tutti tacevano, aspettando la novella, prese a dire: - Al tempo dei tempi, quando il nostro Signor Gesù Cristo scendeva ancora in terra per aiutare i bisognosi, avvenne che, tornando un giorno da una piaggia vicina alla Verna dov’era stato a piantar certe querce per una povera vecchia, affinché crescessero subito e facessero ghiande per i maiali di lei, che non avevano da mangiare, egli s’imbattesse, sopra una via costeggiata da siepi, in un uomo che cavalcava un asino e aveva un sacco davanti a sé. Quell’uomo aveva un fior di papavero in bocca e cantava una canzonaccia, come sogliono cantare quelli che non hanno timor di Dio. Gesù Cristo, credendo che costui non fosse altri che un contadino che portasse il grano a macinare al mulino sull’Archiano, si tirò da parte, perché egli evitava sempre d’imbattersi con i cattivi, e costui era un uomo cattivo di certo, altrimenti non avrebbe cantato quella canzonaccia; ma quando il finto contadino si avvicinò, il Signore riconobbe in lui il Diavolo in carne ed ossa. - Che fai in questo paese, spirito maledetto? - domandò il Signore sorpreso di vederlo nei dintorni del santo luogo, dove san Francesco aveva sparso i tesori della sua carità. - La strada maestra è di tutti, - rispose con sfacciataggine il Re dell’Inferno. - E di dove vieni? - gli domandò Gesù Cristo. - Vengo dalla Verna, dove ho compiuto un pellegrinaggio, - rispose il Diavolo in tono derisorio. - Ho scelto questa stagione per fare un po’ di raccolta di anime; ho tagliato le spighe, le ho battute e ora porto via il loglio, dopo aver lasciato il gran gentile. - Dunque il sacco che porti sull’asino è pieno di anime di dannati? - domandò il Signore. - Sì, - disse Satana - e non ci sono soltanto anime di osti, di giuocatori, di soldati e di contadini taccagni, ma anche quelle di monachelle e di fraticelli della regola di san Francesco. Gesù scrollò il capo mestamente: - È dunque inutile che io abbia bevuto il fiele e l’aceto sulla croce per riscattare il genere umano dal peccato! Vedrò gli uomini ricadere sempre nei tuoi tranelli. Che diritto hai tu sul popolo mio? - Quello che la volpe ha sul pollaio, - rispose Satana ridendo. - Ebbene, stammi a sentire, - riprese Gesù Cristo, - io voglio proporti un patto. Se tu rinunzi alle anime che tieni chiuse nel sacco, ti lascerò vivere un giorno intero sulla terra, senza che tu provi nessuna sofferenza. - Ma conserverò il mio potere? - domandò il Diavolo. - Sì, - replicò Gesù Cristo, - a patto però, che tu non potrai servirtene altro che per avvantaggiare gli uomini, e non per tormentarli. - Prenditi allora questo sacco di anime, Nazzareno! - esclamò Satanasso. - Il patto è concluso, e tu vedrai che io saprò rispettarlo. Gesù prese le anime salvate dalla sua misericordia, e domandò al Diavolo sotto quale aspetto voleva comparire fra gli uomini. - C’è un fraticello, alla Verna, che scende alla cerca, e che tutti ascoltano nei palazzi, come nelle case di contadini, perché lo credono un santo. Oggi fra’ Leonardo è ammalato, e non scenderà; così la gente mi prenderà per lui. - Prendi pure le sembianze del Frate; ma bada bene di non far male a nessuno, e specialmente di rispettare tre famiglie di Bibbiena, che mi sono care. Queste famiglie son gli Sbrigoli, i Verri e i Dovizii. Ti tolgo dunque di sul tuo capo la maledizione per un giorno intiero, e per questo breve periodo di tempo la croce e l’acqua benedetta non avranno più il potere di metterti in fuga. Va’, povero reprobo, e concediti alcune ore di riposo, prima che torni a pesare su di te la maledizione eterna. Quando il Diavolo fu rimasto solo, cambiò subito aspetto e, indossata la tonaca di saio e rialzatosi il cappuccio sulla testa per nascondere le corna, prese il viso umile del buon Fraticello, e s’incamminò a piedi a Bibbiena, con le bisacce vuote in ispalla. Appena ebbe messo piede in paese, le donne che eran sulla porta di casa, gli si fecero incontro per baciargli la corda che gli cingeva la vita, e tutte gli portavano una qualche elemosina per il convento. Il Frate ringraziava e benediva a destra e a sinistra, come se fosse stato davvero fra’ Leonardo, e prima d’andare nelle tre famiglie designategli da Gesù Cristo, entrò alla Pieve e, inginocchiatosi sul marmo, finse di pregare. Ma la preghiera del Diavolo è una maledizione per la povera umanità, e mentre fingeva di parlare con Dio, egli meditava la rovina di molte persone. Terminata la lunga visita alla chiesa il falso Frate si alzò e rivolse il passo verso la casa degli Sbrigoli. Erano questi, due vecchi, marito e moglie, i quali non avevano mai avuto la consolazione di aver figliuoli. Erano invecchiati nella miseria e nelle privazioni, senza lagnarsi della loro sorte, sempre timorati di Dio, e avevano rispettato le leggi divine e quelle umane. Quando il Frate entrò in casa loro, stavano per mettersi a tavola. Era venerdì e non avevan davanti altro che un tegame di fagioli e un pan duro di saggina. Il Frate finse di essere mosso a compassione dalla loro miseria. - Mangiate sempre di magro, poveretti? - disse. - No, fra’ Leonardo, - rispose la vecchia. - Mangiamo la minestra col brodo per Natale, per Pasqua e per l’Assunta; e il pan bianco la domenica. - E non avete desiderato mai cibi più sostanziosi e delicati? - Magari! Desiderare si può tutti, e i poveri sono tentati dal desiderio cento volte al giorno. Specialmente quando vediamo i cuochi del Vicario, che vanno a far la spesa e comprano tanta grazia di Dio, ci vien fatto di desiderare un pranzo da signori, almeno una volta prima di morire. - Ebbene, il vostro desiderio sarà appagato, poveretti, - disse il Frate con voce compassionevole. - Ecco un tagliere di legno di cedro, che la madre del Signore dette una volta a un gran santo. Chi lo possiede, non deve far altro che dire di quali pietanze vuol vederlo coperto, perché il tagliere gliele procuri subito. Siccome è giusto che tutti i poveri che incontro per via, e i nostri monaci ne approfittino, così non posso prestarvelo altro che fino a stasera, ma è abbastanza perché assaggiate una volta quei pranzi dei ricchi, che fanno nascere in voi tanti desiderî. Il vecchio Sbrigoli e la moglie ringraziarono con grande effusione il Frate, il quale raccomandò loro prima di andarsene di trar profitto del tagliere, senza perder tempo. Appena che il Diavolo fu uscito, i due vecchi, che non avevano mai mangiato a sazietà, posarono il tagliere sulla tavola e pensarono a quello che dovevano chiedere. - Voglio un pasticcio di maccheroni, - disse la vecchia guardando il tagliere con occhio di cupidigia. Subito comparve un pasticcio di maccheroni, coperto di una bella pasta color d’oro, e che mandava un odore che pareva dicesse: «Mangiami!». I due vecchi gettarono un grido di meraviglia e allungarono nello stesso tempo il coltello per partirlo. Ma dopo i primi bocconi, il marito disse: - Mi pare una sciocchezza di cominciare con una cosa dolce; perché non abbiamo chiesto invece una buona minestra di taglierini nel brodo di cappone! Domandiamola? - Chiedi invece un bel prosciutto di maiale, cotto in forno, - disse la moglie. - O un arrosto di tordi, - aggiunse il marito. - Con un pan di lepre, - ribatté la donna. - E un fritto di cervello, - continuò il vecchio. - Non bisogna dimenticare il pan fine. - Né il vin di Pomino. Tutto quello che avevan nominato copriva non solo il tagliere, ma anche la tavola, e i due poveretti guardavano tutta quella grazia di Dio con certi occhi e stavano per mettersi a mangiare, quando la moglie esclamò a un tratto: - Gesù mio! non avevamo pensato che oggi sono le quattro tempora. Lo Sbrigoli rimase a testa bassa. - Le quattro tempora! - ripeté, - giorno di magro e di astinenza. - Non si può mangiar la carne senza far peccato, - osservò la donna. - Eppure, - disse il marito - se non mangiamo oggi, domani non avremo più il tagliere miracoloso! - È vero! la festa andrà a monte. - E non tornerà più. - Dio mio, lasciare il pan di lepre! - E non assaggiare il prosciutto, cotto in forno! - E non saper se i tordi sono cotti a puntino! - E neppure il pasticcio di maccheroni! Il vecchio e la vecchia guardavano tutte quelle pietanze, da cui si sprigionava un fumo grasso e appetitoso che, entrando loro per le narici faceva da stimolo all’appetito. - Sarebbe però un peccato anche quello di non mangiare tanta roba buona, - osservò il vecchio. - Senza contare, - aggiunse la vecchia, - che il frate ci ha permesso di mangiarne. - Davvero?... - Oh bella! Se no; che ci avrebbe egli dato a fare il miracoloso tagliere? - Hai ragione; eppoi il tagliere non fu regalato dalla Madonna a un santo? - In questo caso non può indurci a peccare; è una cosa sacra. - Come tutto quello che viene dalla gran madre di Dio, Maria. - E si può mangiare tutto quello che il tagliere ci fornisce senza scrupolo. - Mangiamo allora. - Mangiamo. Tutti e due incominciarono dalla minestra, quindi attaccarono il prosciutto di maiale, poscia il pan di lepre, i tordi arrosto e il pasticcio di maccheroni, senza pensar più alle quattro tempora; la gola li aveva rovinati. Il Diavolo, che era stato a guardarli dal buco della chiave, si fregò le granfie convertite in mani di frate, e tutto contento si diresse verso l’abitazione della famiglia Verri. In quella casa vi era una vedova insieme con la figlia sua e un cugino di questa, il quale aveva coltivato la vigna e il campo delle due donne e ora stava per condurre in moglie la ragazza. In cucina due sarte erano occupate a cucire il corredo della sposa, e nel resto della casa un falegname accomodava i mobili della camera nuziale. Il giovane conte Marco Saccone, signore del paese, stava giù in un piccolo orticello e parlava con il futuro sposo della compra di un cavallo. La vedova e la figlia accolsero affabilmente il Frate cercatore, e dopo aver parlato del tempo cattivo, della malattia che colpiva i polli e che aveva distrutte tutte le loro galline, nonché della festa della Verna, la madre uscì per andare in dispensa a prender le elemosine che era solita di fare a fra’ Leonardo. Il Frate rimase a parlare con la ragazza del suo prossimo matrimonio. - Ragazza mia, voi state per abbracciare uno stato molto aspro, e, per sopportarlo, occorre una grande forza, - disse il Diavolo facendo la voce di predicatore. - Le spose dei gentiluomini, una volta maritate non debbon pensare ad altro che a indossare ricchi vestiti di seta o di vaio, andare in chiesa, seguir le cacce ed assistere a conviti; ma la moglie di uno che lavora la terra deve dire addio a ogni piacere e a ogni riposo; deve coricarsi tardi, perché è durante la veglia che ella fila, cuce e fa il pane; deve svegliarsi ad ogni momento per allattare i figli ed esser la prima alzata ad accendere il fuoco. - È vero, fra’ Leonardo, la vita delle maritate povere è molto aspra, - disse Nicolina sospirando. - E poi, - continuò il falso Frate, - la meschina rendita dei poveri non è al coperto dalle sventure, come quella dei ricchi. La grandine rovina la vigna, e la famiglia non ha di che sfamarsi. Allora è la moglie soprattutto che soffre, perché intanto che il marito lavora fuori, è lei che sente le offese dei creditori e le grida dei bambini. - È vero, fra’ Leonardo, quel che dite è verissimo! - ripeté la ragazza spaventata. - Senza contare che gli uomini, i quali si affaticano nei lavori manuali, sono spesso di pessimo umore, - continuò il Diavolo, - e invece di esser cortesi con le mogli come i signori lo sono con le loro, le trattano come bestie da soma. - Gesù mio! - esclamò Nicolina, - e Piero che bastona tanto le bestie! - Vedete dunque che Iddio vi sottopone a una dura prova, - continuò il Diavolo con fare umile. - Ma voi benedite la croce che vi dà a portare, figlia mia, e gioite in cuor vostro di non essere una dama nobile, la quale non conoscerebbe altro che i piaceri e le vanità della esistenza. - Sì, sì, fra’ Leonardo, - disse Nicolina singhiozzando, - gioisco; ma, Dio mio, a questo che mi dite non ci avevo pensato! Nicolina prese la cocca del grembiule per asciugarsi le lacrime che le scendevano sulle gote bianche e rosse. Il Frate parve che s’intenerisse. - Statemi a sentire, povera innocente, - disse. - Io voglio aiutarvi in questa afflizione e assicurarvi l’affetto del vostro futuro sposo. Prendete quest’anello di ferro, nero come i vostri capelli. Esso apparteneva a un santo vescovo e possiede la virtù miracolosa di costringere l’uomo cui lo metterete in dito, di fare la vostra volontà. Anche se l’uomo fosse un conte o un duca, appena porterà quest’anello lo vedrete divenire vostro schiavo fedele. La ragazza prese l’anello e ringraziò caldamente il Frate, il quale, dopo aver posto nella bisaccia l’elemosina della vedova, se ne andò accompagnato fino all’uscio da Nicolina. Questa andò nell’orto per cercarvi di Piero, ma esso era uscito dalla porta di dietro, ed invece incontrò il Conte, che stava per portar via il cavallo comprato poco prima. Il conte Marco Saccone era un giovine alto e robusto, col viso acceso, e in tutto il Casentino passava per il più bel gentiluomo che vi fosse. Nicolina, vedendolo, si mise a pensare a quel che le aveva detto fra’ Leonardo, e l’anello di ferro che le aveva dato. Ella paragonava la vita di una donna nobile a quella di una contadina e poi guardava quell’anello, che, al dir del Frate, aveva la virtù di farla amare da un conte o da un duca. «Se provassi su di lui, soltanto per vedere se il Frate ha detto il vero!» pensava Nicolina, mentre traversava l’orticello per rientrare in casa. Il Conte la vide e le disse: - Nicolina bella, dunque si fanno le nozze, e presto avrai un padrone? - L’ho già, - rispose la ragazza abbassando la testa, volendo dire che lei come tutti gli abitanti di Bibbiena, erano sottoposti all’ubbidienza della famiglia Saccone, che era entrata nei diritti dell’arcivescovo Tarlati di Arezzo. - Se io dunque sono il tuo padrone, Nicolina, a me spetta il primo bacio. E il Conte l’abbracciò; ma mentre la ragazza tentava di svincolarsi da lui, il signore vide l’anello di ferro che portava nell’indice, e le domandò da chi l’aveva avuto. Nicolina rispose che l’aveva trovato sulla proda di un fosso nel far l’erba. - Se è così l’anello mi spetta, perché sono il padrone della terra. E ridendo lo tolse di dito alla ragazza e se lo mise nel mignolo. Ma subito sentì accendersi il sangue e il cuore da un violento amore per Nicolina, e guardandola fisso con gli occhi scintillanti, le disse a bassa voce: - Bisogna che questo anello sia quello della nostra unione, Nicolina. Sali meco su questo cavallo e ti condurrò in una villa dove c’è tutto quello che puoi desiderare; avrai vesti di seta, gioielli e paggi. Nicolina fu così stupefatta da queste parole che non seppe rispondere; allora il Conte la sollevò da terra, la pose a sedere sulla sella e il cavallo partì di trotto facendo le faville sui ciottoli della strada. Il Diavolo, che era nascosto dietro un muricciolo, fece una capriola dalla contentezza e poi, riprendendo l’aspetto umile del Frate cercatore, si diresse verso la casa dei Dovizii. Questi erano tre fratelli, possidenti di terreni. Ognuno aveva la sua parte di terra, che coltivava a modo suo; ma il patrimonio paterno restava indiviso, e i fratelli vivevano fra loro d’amore e d’accordo. Il Frate li trovò riuniti in una stanza terrena occupati a tagliare col coltello i dentali per l’aratro. Nel veder fra’ Leonardo si alzarono e vollero offrirgli da bere, ma il Diavolo li ringraziò. - No, brava gente, son venuto soltanto a prendere l’elemosina per il convento. - Scusateci, fra’ Leonardo, ora siamo da voi. Si preparano i dentali per l’aratro, ché quelli che abbiamo son consumati, - disse il maggiore de’ tre fratelli. - Eppure, - continuò il secondo, - furon fatti da poco col legno di querciolo; ma la nostra terra è dura come il sasso, e si suda molto a lavorarla. - Figuratevi, - aggiunse il terzo fratello Dovizii, - che in una giornata si stancano due paia di manzi; a mantenere tante bestie c’è da andare in rovina. - Capisco che vi lamentiate, figli miei, - rispose il Diavolo, - e voglio aiutarvi. Questo dentale fu fabbricato da san Giuseppe. Quando vi s’innesta il vomero, esso lavora tutto il giorno da sé e fa tanti solchi quanti non ne farebbero quattro aratri tirati dai manzi. Disgraziatamente questo dentale non può avere altro che un padrone e bisogna che appartenga a uno solo di voialtri. - Tiriamo a sorte per vedere a chi tocca! - esclamarono i fratelli. Il Frate acconsentì, e quando i Dovizii ebbero tirato, il dentale toccò al minore, che aveva nome Ciapo. Fra’ Leonardo glielo diede e andò via avendo ricevuto una larga elemosina, dopo di aver raccomandato ai due fratelli maggiori di non esser gelosi del minore. Questi andò a prender l’aratro, lo portò in un campo, che non era stato lavorato da tre anni, e inserì il vomero nel nuovo dentale. Subito il vomero si mise in moto, volando sulla terra come un uccello cacciato dalla tempesta e facendo un solco più profondo per due volte di quello che suol fare il vomero. I due fratelli maggiori, che erano andati per vedere, rimasero immobili dalla sorpresa, ma in quel momento sparì dall’animo loro l’affetto per il fratello e provarono per lui un’invidia indicibile. Ciapo, invece, si gonfiava d’orgoglio. - È stato fortunato davvero di vincere il dentale! - sussurrarono essi a bassa voce, - noi avevamo tanti diritti quanto lui, ma il caso lo ha favorito. Ciapo udì questi discorsi e si volse irato. - Non fate come i reprobi, - disse, - che chiamano caso la volontà di Dio. Se ho ottenuto questo dono prezioso, vuol dire che ero stimato più degno di voi di riceverlo. I due fratelli gli risposero per le rime e lo chiamarono vanaglorioso. Quest’epiteto fece andare in bestia Ciapo. - Andatevene! Andatevene! - esclamò, - non mi fate uscir dai gangheri, perché con il mio aratro posso ammassare in breve molte ricchezze, e quando sarò un signore, se mi salta il ticchio, vi riduco alla miseria. Questa minaccia fece salire ai due fratelli maggiori tutto il sangue alla testa. Essi erano ciechi di rabbia e dissero: - Abbi giudizio, borioso maledetto, perché se tu ci minacci, ti spoglieremo di ciò che costituisce la tua superbia! - Se avete il coraggio, fatelo pure, - rispose Ciapo alzando il roncolo che portava alla cintura e ponendosi a difesa del suo tesoro. I fratelli, pazzi di furore, vedendogli in mano quel ferro, estrassero i coltelli e lo crivellarono di ferite, cessando soltanto quando Ciapo cadde morto davanti a loro. Una risata maligna echeggiò in quel momento dietro a una siepe. Era il Diavolo che rideva dalla contentezza e se ne andava felice dell’opera sua. Prima di giungere in Bibbiena, lasciò le vesti di Frate cercatore, e prendendo l’aspetto di un mercante di buoi, entrò in una osteria e chiese da cena. La serva gli portò in tavola un par di rocchi di salsicce, una frittata e un fiasco di vino. Mentre il Diavolo mangiava, entrò un uomo tutto commosso, narrando che i vecchi Sbrigoli erano crepati a tavola dal troppo mangiare e dal troppo bere. Il Diavolo si strofinò le mani e ordinò alla serva un altro fiasco di vino, ma di quello vecchio, stravecchio. Mentre sorseggiava il primo bicchiere entrò nell’osteria un altro uomo, annunziando che il conte Marco, mentre cavalcava per recarsi a una sua villa, dopo aver rubato la bella Nicolina Verri, era stato sorpreso dalla piena, guadando l’Archiano, ed era morto. - Anche la ragazza? - domandò il Diavolo. - S’intende, e il cavallo pure, - rispose l’uomo. - Il cadavere del conte Marco è stato ripescato, ma nessuno ha avuto ancora tanto coraggio da portare la notizia del disastro al padre suo. Il Diavolo, dalla contentezza, scese nell’orto e ballò come un burattino. Quando si fu rimesso a tavola, altri giunsero nell’osteria raccontando che i due fratelli Dovizii avevano ucciso Ciapo, e poi, dallo spavento del delitto commesso, si erano dati alla fuga. Il Diavolo mandò un grido di gioia e chiese che gli portassero un fiasco di vin santo. Intanto la gente era sgomenta da quel succedersi di disgrazie e di delitti in poche ore, e si faceva il segno della croce temendo che fosse prossimo il giorno del giudizio. Il Diavolo centellinava l’ultimo bicchierino di vin santo quando Gesù Cristo si presentò sull’uscio. - Satana, - disse, - la giornata è trascorsa e tu devi tornare alle fiamme dell’Inferno. - Son pronto, Nazzareno, - rispose Satanasso asciugandosi la bocca, - ma ti assicuro che non farò il viaggio solo. Porto meco tutti quelli che ti eran cari in questo paese. - Quali arti diaboliche hai tu impiegato per condurre a te quelle anime timorate di Dio? - domandò Gesù Cristo. - Un mezzo semplicissimo: li ho beneficati. Tu mi avevi proibito di tormentare gli Sbrigoli, i Verri e i Dovizii, e io non ho trasgredito la tua volontà; invece di molestarli, li ho arricchiti. Questo fatto ti servirà d’esempio, Nazzareno. Tu saprai un’altra volta che per perdere gli uomini vi è un mezzo ben sicuro; quello di beneficarli. Addio! E il Diavolo fece un lancio e sparì nell’oscurità della notte. Mentre Gesù Cristo, afflitto dalla dannazione di quelle anime, riprendeva il pellegrinaggio, alla luce delle torce vide recare sopra una barella il cadavere del conte Marco, che riportavano al palazzo. Poi, ammanettati in mezzo ai soldati, scòrse i due fratelli Dovizii. Il Signore si coprì la faccia e pianse esclamando: - Il Diavolo è più potente di me!
- Come raccontate bene, Regina! - esclamò Vezzosa. Vi si starebbe a sentir degli anni. Me l’avevano detto che non ci era nessuno che narrasse le novelle come voi, ma non ci credevo. Ora non posso più dire così, ed è un piacere davvero l’ascoltarvi. - La mamma, - rispose la Carola, - ci fa parer corte le veglie d’inverno, e se tu ci fai bene attenzione, ogni novella contiene uno o più ammaestramenti. Io lo dico sempre, ai miei figliuoli, che son ben felici di avere una nonna come lei. Cecco aveva una voglia matta di unire le sue lodi a quelle altrui, ma la presenza delle donne di fuori lo tratteneva e avrebbe taciuto se la Vezzosa non l’avesse stuzzicato dicendo: - Scommetto che di quanti siamo qui, il solo che non piglia gusto alle novelle della Regina, è Cecco. Lui, assuefatto in città, deve ridere delle nostre fandonie. - Io? - rispose Cecco arrossendo. - Sì, proprio voi; al reggimento disimparate tutte le usanze del paese, e invece di sentir raccontare volentieri i fatti veri o immaginarî che riguardano il Casentino, leggete i fattacci che stampano i giornali. Ne ho visti tanti che sono ritornati da fare il soldato, e tutti avevan cambiato pensiero e disprezzavano ciò che prima piaceva loro. - Vi sbagliate, Vezzosa, - rispose Cecco vincendo il ritegno. - Io sono stato volentieri sotto le armi, perché ho imparato a montare a cavallo, a puntare un cannone, a sopportare le fatiche delle marce, e, all’occorrenza, sarei buono anch’io a difendere il nostro paese, che non è il Casentino solo, ma bensì tutta l’Italia. Ma anche quando ero nelle grandi città, il mio pensiero si volgeva sempre qui, e non vedevo il momento di tornare a casa per abbracciare la mia vecchietta e aiutare i fratelli. Io non credo che si possa essere buoni soldati, se non si comincia dal fissare le proprie affezioni a una casa, a un pezzetto di terra, e da queste non si estendano a una regione e poi alla grande patria, che il soldato deve essere pronto a difendere. - Cecco, voi parlate come un libro e non l’avrei mai creduto; ma già siete figliuolo della Regina. Godo davvero di sentire che voi siete rimasto un buon casentinese anche sotto le armi; vuol dire che alla vostra casa e alla vostra mamma siete affezionato davvero. Cecco non rispose, ma scambiò con la Regina uno sguardo pieno d’affetto. - Quand’è mamma che ci racconterete un’altra novella? - domandò la Carola. - Domenica, se non c’è nulla in contrario. - Allora, Vezzosa, non mancare domenica prossima; e siccome sarà entrato il carnevale, dopo la novella farete due salti. Avverti le compagne, e Cecco suonerà l’organino. - Cecco ballerà, - disse Vezzosa. - In paese non ce n’è tanti dei ballerini come lui, ed è meglio che suoni chi non può dimenar le gambe. Il bell’artigliere non poteva soffrire che quella ragazza si occupasse sempre di lui, e per levarle ogni speranza disse: - Su di me non ci contate, io non so ballare. - Si vedrà! - rispose Vezzosa che non voleva darsi per vinta. Per dare un’altra piega al discorso, Cecco disse: - Si può sapere, mamma, quello che ci racconterete domenica? - Se posso rammentarmene bene, vi racconterò la novella di Adamo il falsario; me la raccontava sempre la mia nonna; ma sono tanti e tanti anni che può essermi uscita di mente. - Oh, ve la rammenterete, nonna! - esclamò l’Annina, - voi non dimenticate mai nulla, e domenica saprete farvi onore davanti a molta gente! Poi balleremo e voi ci starete a vedere. - Io andrò a letto, bimba; alla mia età si ha bisogno di riposo. - Ora ne avete bisogno davvero, andate a letto, mamma. La vecchia, aiutata da Cecco, si alzò e andò in camera. Quando il bell’artigliere fu tornato in cucina, Vezzosa gli si piantò davanti, dicendogli: - Siamo tutte donne sole; vi dispiace, Cecco, di accompagnarci? Egli non poté rifiutarsi e uscì fischiando; ma invece di mettersi accanto alla Vezzosa, com’ella avrebbe voluto, s’imbrancò con i bambini, e con lei non scambiò altro che la felice notte sull’uscio di casa.