Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Emma Perodi

    L’ombra del Sire di Narbona

    Fiabe Fantastiche


    La terza festa di Natale la neve era cessata e il vento erasi calmato come per incanto. Nonostante, anche in quel giorno, dopo desinare nessuno uscì dal podere dei Marcucci, perché gli uomini stessi rammentavano di aver provato grandissimo diletto a udir dalla bocca della Regina quelle novelle con cui ella aveva allietata la loro infanzia, e che avevano il vago presentimento di sentir raccontare per l’ultima volta. La vecchia massaia, dopo la morte del marito, col quale aveva diviso in pace gioie e dolori per quarant’anni, era ridotta uno spettro e aveva, come si suol dire, un piede nella fossa. I figli, che non l’avevano lasciata mai, non s’erano accorti del suo deperimento, avendola sempre sott’occhio; ma lo avevano notato dacché Cecco era tornato a casa, e non aveva fatto altro che domandare se la mamma era stata ammalata. Allora anch’essi avevano aperto gli occhi, e il timore di perderla presto s’era insinuato nell’animo di que’ figli affezionati. - Nonna, la novella; è festa anche stasera! - disse l’Annina, più impaziente degli altri di udire i racconti meravigliosi. - Che sia festa, è vero; ma appunto perché è festa lasciate riposar la nonna, - osservò la Carola, che aveva sempre per la suocera un mondo di riguardi. - Non mi stanco affatto; - replicò la buona vecchia, - e poi anche se il narrare mi costasse un po’ di fatica, che male ci sarebbe? Un giorno tutti questi piccini, ripensando alle nostre veglie di Natale, si ricorderanno di me e mi diranno un De profundis! - Che razza d’idee vi vengono, stasera, mamma! - esclamò Cecco. - Sapete che io non voglio sentir parlare di malinconie; s’ha da stare allegri! Quelle parole della vecchia avevano fatto correre un brivido nelle vene ai figliuoli e alle nuore, e nessuno avrebbe più fiatato per un pezzo, se i bimbi non avessero proseguito ad insistere col dire: - Nonna, dunque, ce la raccontate la novella? - Sì, piccini, stasera vi racconterò quella dell’ombra del Sire di Narbona, - e subito incominciò:

    - Tanti e tanti anni fa, quando il conte Guido Novello era signore di Poppi e di molte altre castella del Casentino, avvenne giù nel piano di Campaldino e Certamondo una grande battaglia fra i fiorentini e gli aretini, comandati dal vescovo Guglielmo degli Ubertini d’Arezzo, che teneva in mano più volentieri la spada che il pastorale, e i vassalli del conte Guido Novello. Tutto il Casentino era in armi, perché i nemici venuti da Firenze erano in tal numero, fra fanti e cavalieri, che duraron giorni e giorni a passar dalla Consuma. Comandava i cavalieri di Firenze, che avevano il giglio rosso negli stendardi, un francese che si chiamava Amerigo di Narbona, un signore biondo e bello come un cherubino. Fra i fiorentini c’era anche quel Dante, che fece il viaggio, Dio ci liberi, nell’inferno, e lo raccontò poi in poesia. Il giorno 11 di giugno (era un sabato e ricorreva la festa di san Barnaba), i due eserciti vennero a battaglia, e tanto di qua che di là morì un subisso di gente; ma la vittoria rimase ai fiorentini, e san Barnaba stesso volò a Firenze ad annunziarla ai Signori del Comune, che dopo aver vegliato tutta la notte, sentiron bussar all’uscio della camera dove dormivano, e udirono una voce che diceva: «Levatevi, che gli aretini sono sconfitti!». Infatti era vero, e la sera ne ebbero la conferma; fu in seguito a questo fatto che venne eretta la chiesa di San Barnaba. Ma torniamo a noi. Nella battaglia, dei nostri era morto il vescovo d’Arezzo, riconosciuto nella mischia per la sua chierica; fu ucciso poi Bonconte di Montefeltro, padre della contessa Manentessa, sposa del conte Selvatico di Pratovecchio, e tanti altri. Il conte Guido Novello riuscì a salvarsi, perché si die’ alla fuga con i suoi cavalieri. Dalla parte dei fiorentini era rimasto morto Amerigo di Narbona, capitano dei cavalieri, e molti altri. Non si sa come nessuno pensasse dopo la battaglia a ricercare il cadavere di un capitano di tanti soldati, ma il fatto si è che il suo corpo rimase senza sepoltura, e i fiorentini si dettero prima pensiero di portare a Firenze lo scudo, l’elmo e la spada del vescovo Ubertini, che di metter in terra santa il loro capitano.

    - Io a Firenze non ci son mai stata, - osservò la Regina, - e ormai non ci andrò più; ma se qualcuno ci va, guardi se in San Giovanni ci son più quelle cose prese in guerra... Basta, ora torniamo a noi.

    I fiorentini, dunque, se ne tornarono a casa loro, e sul pian di Campaldino, invece di covoni di grano falciati, vi rimasero monti di cadaveri, sui quali i corvi facevan baldoria, e la gente di qui aveva tanta paura ad accostarsi a quel campo di morti, che tutti quelli che dovevano andare a Firenze o ad Arezzo, facevano piuttosto un giro lungo che passar per la via maestra. Signore di Pratovecchio era un certo Guido Selvatico, il quale assicurava di non sapere di che colore fosse la paura. Di notte e di giorno se ne andava solo a cavallo per i boschi, passando per i luoghi più pericolosi, e ridendosi di tutte le cose che incutevano timore ad ognuno. Una sera, mentre Manentessa, sua consorte, stava in mezzo alle donne in un angolo della sala d’armi del castello, e il Conte vantava le sue prodezze in un crocchio di cavalieri, un di essi prese a dire: - Io scommetto, conte Selvatico, che non ti basta il cuore di cavalcare di notte sul pian di Campaldino! - Se non lo facessi, - rispose il Conte, - sarei un vile. Questa stessa notte io lo percorrerò ben dieci volte da un capo all’altro. - Ma qual garanzia ci darai tu di aver compiuto l’impresa? Io non so chi di noi verrebbe a vederti cavalcare, poiché tutti, dal più al meno, abbiamo orrore di quel campo. - Non occorre che nessuno si esponga a incontrar le ombre dei combattenti insepolti, - disse il conte Selvatico. - Salite sulla torre del mio castello e tenete l’occhio rivolto a Campaldino. Io stringerò nella sinistra una torcia accesa, e voi potrete contare le mie dieci corse a traverso il campo. Ma quale sarà il premio per questa prodezza? - Ognuno sa che io possiedo, - replicò il cavaliere che aveva parlato prima, - una forbitissima armatura tolta al francese Amerigo di Narbona. Quando ti avrò veduto percorrere dieci volte il campo, quell’armatura sarà tua. - Cavalieri, voi avete udito qual guiderdone mi aspetta; - esclamò il conte Selvatico, - fra un’ora, o io sarò in possesso della ricca armatura, o non mi vedrete mai più! Vòltosi allora a uno dei suoi famigli, ordinò che gli fosse sellato un cavallo molto veloce nella corsa. Manentessa, che teneva gli occhi sul ricamo e aveva gli orecchi tesi per ascoltare i discorsi del marito, udendo la terribile scommessa, si alzò, ed accostatasi al Conte, gli disse in tono supplichevole: - Signor mio, desisti dal tuo pensiero. Rammenta che quel campo è coperto ancora delle ossa di tanti cristiani che non ebbero pietosa sepoltura, e che forse fra quegli scheletri vi è ancora lo scheletro del padre mio, che niuno ha potuto rinvenire. - Torna ai tuoi lavori, madonna, - replicò il conte Selvatico, - e lascia a me la cura del mio onore, che è affidato in buone mani; ho promesso e debbo mantenere... Messeri, - aggiunse poi rivolto agli amici, - salite sulla torre e tenete gli occhi bene aperti. Vi convincerete fra poco che il conte Selvatico non ha paura né dei vivi né dei morti. Di lì a un momento si udì lo scalpiccìo di un cavallo nel cortile del palazzo, e nella sala, rimasta quasi vuota, Manentessa cadde in ginocchio e disse alle sue donne: - Preghiamo! Il conte Selvatico galoppò fino al piano di Campaldino; ivi giunto accese la torcia di resina, e spinse il cavallo nel campo bagnato dal sangue di tanti combattenti. Ma aveva fatto poco cammino quando udì un grido ripercosso da mille bocche, e da quei monti di ossami, che spiccavano nella notte buia, vide alzarsi a centinaia gli scheletri dei guerrieri insepolti, e tender tutti le mani per afferrare chi la coda, chi la criniera, chi le briglie del suo cavallo. Selvatico ficcò gli sproni nel corpo dell’animale e raddoppiò la corsa; ma per quanto facesse per evitare di essere abbrancato da quelle mani scheletrite, ogni tanto sentiva sfiorarsi il volto, la nuca o le spalle, e rabbrividiva tutto. Il Conte correva come un pazzo, e il cavallo, nel suo impeto, rovesciava gli scheletri, li calpestava, e le imprecazioni dei morti giungevano al suo orecchio. Egli non dieci, ma bensì venti volte percorse il pian di Campaldino, e avrebbe continuato ancora se, proprio sul limitare di esso, quando stava per voltare, non gli si fosse parata davanti un’ombra ravvolta in un bianco lenzuolo. Il cavallo, vedendola, fece uno scarto; il cavaliere rimase saldo in sella, ma se gli avessero aperto le vene, non ne sarebbe uscito il sangue. - Conte Selvatico, - disse l’ombra, - qual barbaro diletto ti prendi turbando i morti, che già hanno la sventura di non essere coperti da un palmo di terra benedetta? Avevi nome di buon cristiano, ma ti dimostri più inumano degli stessi pagani, che non lasciano i morti, amici o nemici che sieno, esposti alla voracità delle belve e degli uccelli di rapina. - Chi sei che mi parli con tanta alterigia? - domandò il Conte con voce tremante. - Io non sono più, - rispose l’ombra, - io fui Amerigo di Narbona, servo del re Carlo, e capitano dei cavalieri fiorentini, i quali, in ricompensa del sangue versato per loro, non mi hanno dato neppur sepoltura. - E che vuoi da me, signor di Narbona? - Poca cosa, conte Selvatico; un pezzetto di terra che celi le mie ossa. - E dove sono esse? - domandò il Conte. - Vedi quel fosso che traversa quasi a metà il piano fatale? Tu devi alzare un alto mucchio di cadaveri, e sotto a tutti vi è il mio. Le piogge autunnali lo han travolto colà; tu lo riconoscerai all’alta statura e più ancora a un anello d’argento con l’immagine della Santa Vergine, che mia madre mi aveva fatto ribadire al polso destro. - Io cercherò il tuo cadavere, messer Amerigo di Narbona, quanto è vero che son cavaliere, - disse il Conte. E, spronato il cavallo, fuggì atterrito da quella corsa sfrenata sul pian di Campaldino, e più di tutto dalla comparsa dell’ombra. Ora sapeva anch’egli che cos’era la paura, ma sarebbe morto prima di confessarlo! Nel cortile del castello lo attendevano gli ospiti e gli amici e vedendolo giungere lo accolsero con grida di gioia. - Messer il Conte, l’armatura del Sire di Narbona è tua, - disse il cavaliere che aveva fatto la scommessa, - io ho visto scintillare la tua face ben venti volte sul campo di battaglia. Tu sei un prode cavaliero! - E che vedesti? - chiese un altro. - Nulla, messeri, soltanto le ossa bianche, e... Il conte Selvatico parlava a stento e tremava come una vetta, ma non voleva che nessuno si accorgesse del suo turbamento. Lasciati gli amici, ascese nella vasta sala d’armi, dove la Contessa pregava ancora in mezzo alle sue dame. - Signor mio, qual sventura ti ha colpito? - domandò Manentessa al cui occhio non sfuggiva quello che il Conte si studiava di nascondere. - Nessuna, madonna; ho vinto la prova e il mio onore è salvo. La Contessa non osò chieder di più, ma si ridusse tutta pensosa nelle sue stanze; ella non aveva mai veduto il suo signore così pallido e stralunato. Il conte Selvatico penetrò nella sua camera preceduto dai servi, che recavano i doppieri; ma appena ebbe posto il piede sulla soglia, vi rimase inchiodato, perché aveva veduto un’armatura completa di acciaio sul cui elmo, dalla visiera calata, era lavorato a rilievo lo stemma di Amerigo di Narbona. Era l’armatura che aveva vinto e che l’amico aveva fatto portare nella sua camera. Il conte Selvatico avrebbe voluto dar ordine che quell’armatura fosse recata altrove, ma avendo timore che quel fatto venisse notato e potesse far nascere il sospetto che egli avesse paura, lasciò l’armatura dov’era. Essendo oltremodo stanco, non passò molto che egli si addormentò; ma appena ebbe chiusi gli occhi gli parve di vedere vicino al suo letto l’ombra avvolta nel bianco lenzuolo, e mandando un grido si destò. L’ombra era infatti ritta davanti a lui. - Che vuoi? Lasciami in pace e vai con Dio, - disse il Conte. - Mi sono accorto, - rispose il fantasma, - che tu mi avevi fatto quella promessa sotto il dominio della paura... - Paura io! - esclamò il conte Selvatico alzandosi a sedere sul letto e cercando la spada, che teneva appesa a portata di mano. - Sì, mi sono accorto che in quel momento avresti promesso tutto quello che ti chiedevo, ma, in quanto a mantenere, non ci pensavi neppure, e ho creduto bene di mettermi accanto a te per rammentarti la promessa. Dipende da te liberarti presto della mia presenza. Il Conte chiuse gli occhi per non veder l’ombra, ma sentiva che quella non si moveva dal suo letto ed egli non poteva dormire. Si levò col sole, ma già l’ombra era sparita; quella armatura, peraltro, gli rammentava di continuo la promessa fatta. Era una vera persecuzione. Il dì seguente il conte Selvatico montò a cavallo e solo si diresse al pian di Campaldino. Ivi giunto, legò l’animale a un albero, rivolse il passo al fossato indicatogli dal Sire di Narbona e si diede a rimuovere tutti i cadaveri, che formavano un mucchio di ossami, per liberare quello che cercava. Sudava freddo, il povero signore, e i contadini che lo vedevano, dalle colline vicine, occupato in quel raccapricciante lavoro, posavano il piede sulla vanga e dicevano a bassa voce: - Il Conte cerca i tesori sotto i cadaveri!... Guarda, guarda! Dopo molto lavorare il Conte mise allo scoperto uno scheletro intatto, si chinò ad esaminarlo e, vedendo che aveva un cerchio d’argento al polso, come gli aveva indicato l’ombra, fece per alzarlo e deporlo sulla proda del fosso. Ma in quel momento le membra si disgregarono e lo scheletro andò in più pezzi, i quali si mescolarono alle ossa ammucchiate a poca distanza. Il Conte rabbrividì, ma continuò nonostante a ricercare fra quegli ossami le membra del Sire di Narbona, e quando credé di averle riunite, le ammucchiò da un lato e, scavata una fossa, ve le depose. Quindi, con due rami d’albero formò una croce rozza e la piantò sulla terra smossa, da poco. «Domani condurrò un prete a benedirlo; intanto il lavoro più penoso è fatto», pensava il signor di Pratovecchio. Ma la sera, appena fu a letto ed ebbe chiusi gli occhi, si accòrse che l’ombra gli era accanto. - Che vuoi da me? - disse il Conte seccato. - Conte Selvatico, il mio corpo è in parte esposto ancora all’intemperie; tu non lo hai sepolto tutto e mi hai imposto la compagnia di una gamba e di un braccio di ghibellini. - Che posso farci! Il tuo corpo, Sire di Narbona, s’è disgregato, ed io non saprei riconoscere quello che ti spetta da quel che non è tuo. - È impossibile che io tolleri la compagnia che mi hai imposto, e fino a tanto che tu non avrai riunito le mie sparse membra, io passerò tutte le notti in quell’armatura che mi vestì in guerra, e ad ogni ora ti rammenterò la tua promessa. Infatti, ogni volta che l’orologio della torre del castello faceva udire i tocchi delle ore, dall’armatura partiva una voce cavernosa, che diceva: - Conte Selvatico, se è vero che sei cavaliere, devi cercare le mie ossa! Quell’avvertimento, ripetuto a brevi intervalli, impediva al signor di Pratovecchio di prender sonno. Stanco di quella seconda notte passata a occhi aperti, all’alba egli era già in sella, e i contadini, che lo vedevano da lontano razzolare nel pian di Campaldino fra i mucchi d’ossa biancastre, ripetevano con maggior insistenza: - Il conte Selvatico è ammattito! Egli, infatti, aveva quasi perduto il senno, nel brancicare tutte quelle rovine umane e misurare gambe e braccia con quelle che già aveva sepolte nella fossa, di sulla quale era stato costretto a toglier la terra per poi ricoprirla. Stanco, spossato, il conte Selvatico cavalcò fino a Pratovecchio, e la Contessa, nel vederlo così abbattuto e coperto di sudore, ebbe paura che fosse stato colpito da qualche malore e fece avvertire messer Cosimo, il medico sapiente che soleva curarlo. Il vecchio, dopo aver tastato il polso al Conte, gli ordinò di porsi a letto, di sudare e di prendere certi decotti di erbe da lui preparati, che soleva amministrare contro le febbri maligne. Manentessa non si staccò più dal letto del suo signore, assistendolo amorevolmente; ma appena giunse la notte, ella udì la voce cavernosa che partiva dall’armatura, ripetere, allo scoccar di ogni ora: - Conte Selvatico, il mio corpo è ancora in parte insepolto e tu mi hai imposto l’incresciosa compagnia della testa e della mano di un ghibellino ribaldo! Il suono di quella voce faceva dare in ismanie l’infermo, il quale, piangendo, descriveva le angosce patite sul piano di Campaldino e si raccomandava al Sire di Narbona perché lo liberasse da quella persecuzione. - Abbi pietà dello stato mio ed io m’impietosirò delle tue sofferenze, - rispondeva l’ombra implacabile. La malattia del signor di Pratovecchio durò due settimane, e in quel tempo la Contessa apprese dalla bocca di lui, assalito dal delirio, tutto ciò che gli era accaduto. La gentil dama non sapeva a chi ricorrere per aver consiglio. C’era peraltro, su a Camaldoli, un frate che non poteva alzarsi mai dal suo strapunto, e perfino in chiesa lo portavano a braccia su quello. Egli non apriva mai gli occhi, ma in compenso parlava senza chetarsi un minuto solo. Si diceva che fra’ Celestino avesse continue visioni, e comunicasse direttamente coi santi, onde a lui ricorreva tutto il contado e anche persone di alto lignaggio. A lui pensò di andar Manentessa, e fattasi preparare una mula e buona scorta, cavalcò un dì fino all’Eremo. La contessa di Pratovecchio fece come i monaci le avevan detto di fare, e, appoggiate le palme su quelle del frate, gli domandò: - Sapresti tu suggerirmi un rimedio per liberare il signor mio dalla persecuzione del Sire di Narbona? Egli fu ucciso a Campaldino e il suo cadavere rimase insepolto; il conte Selvatico lo ha cercato e gli ha dato sepoltura; ma siccome le membra erano disgregate fra di loro, egli ha fatto una confusione, e nella fossa di Amerigo di Narbona vi sono membra che al suo corpo non appartennero. L’ombra si è posta accanto al marito mio e non gli concede tregua né dì né notte se non rinviene tutte le ossa sue, che ancora rimangono esposte alla pioggia e al sereno. E il Conte, per questa persecuzione dell’ombra, si è ammalato e non ha requie. - Se vuoi salvare il tuo signore, - rispose di lì a poco il fraticello, - devi prendere il cero pasquale che è nella cappella del tuo castello, e recarti con quello, a mezzanotte, sul pian di Campaldino, nel luogo ov’è la tomba di Amerigo. Quella tomba tu la riscaverai con le tue mani e colerai, sulle ossa che vi son dentro, della cera. Se la cera si raffredda, puoi esser certa che le ossa appartengono al pio cavaliere, devoto della Santa Vergine; se invece si liquefà, è segno che sono le ossa di qualche dannato. Lo stesso farai con le ossa che giacciono insepolte là intorno; e quando avrai ricomposto tutto lo scheletro, il Conte riacquisterà salute. Amen. Manentessa lasciò larghi donativi all’Eremo e cavalcò fino a Pratovecchio, ove trovò il marito in uno stato tale da farne supporre prossima la fine. La coraggiosa donna cercò di calmarlo, e quando fu vicina la mezzanotte, vincendo la ripugnanza e la paura, uscì sola da una porticina del suo castello, col cero in mano, pregando, e si diresse verso il campo di battaglia. Dalla croce rozza piantatavi da Selvatico ella riconobbe la fossa del Sire francese, e con le sue dita delicate si die’ a scavarla. Appena le ossa furono allo scoperto, fece la prova della cera e si accòrse infatti che la testa e la mano sinistra non appartenevano allo scheletro di Amerigo. Allora ella, tremante e smarrita, si diede a versar la cera sulle ossa sparse, e, dopo lungo cercare e dopo lunghe prove, ricompose lo scheletro; poi, fatta una croce delle braccia del morto, disse: - Ombra vagante, riposa in pace e non turbare più il sonno del signor mio! Durante le ricerche e le prove, la contessa di Pratovecchio aveva consumato tutto il cero pasquale, ed ella doveva tornare al suo palazzo al buio. Era una notte burrascosa, e fitte nuvole correvano da mezzogiorno a tramontana; il vento scrosciava fra il fogliame dei pioppi, che contornavano il campo cosparso di ossami. Manentessa si raccomandava l’anima a Dio e raddoppiava il passo per giungere presto al capezzale dell’infermo marito; ma prima che ella ponesse il piede sulla via maestra, si vide circondata da uno stuolo di ombre, tutte avvolte nei bianchi lenzuoli, le quali alzando verso di lei le palme, spoglie di carne, supplicavano: - Donna pietosa, com’hai dato sepoltura alle ossa di Amerigo, dalla pure a noi e salvaci da questo errare continuo in terra! Manentessa, salvaci! Ella si fece più volte il segno della croce, ma quelle non essendo ombre di dannati, non sparivano, e lo stuolo si faceva sempre più numeroso. Pareva che uscissero dalle viscere della terra, dal fondo dei fossi, dall’erba, dalle siepi, e la donna si sentiva afferrare per le braccia, di modo che il passo le era quasi impedito. - Lasciatemi, anime sante, - diceva ella, - il mio signore mi attende e io debbo andare a consolarlo! - Una promessa, facci una promessa! - gridavano le ombre con le voci fioche. - Ebbene, vi prometto di dar sepoltura a quanti scheletri io troverò. - Bada, Manentessa, di rammentarti di queste parole, - dissero le ombre. E lasciato libero il passo alla dama, tornarono a vagare nell’ampia pianura. Più morta che viva ella tornò al suo castello, ma appena fu penetrata nella camera dell’infermo marito, si sentì il cuore sollevato. Il conte Selvatico riposava col capo abbandonato sui guanciali, e nessuna visione incresciosa ne turbava il sonno. Allorché egli aperse gli occhi, la mattina seguente, domandò alla moglie: - Come mai, madonna, l’ombra del Sire francese mi ha dato tregua? - Gli è, signor mio, - replicò Manentessa, - che il suo corpo riposa in pace, ed io per amor tuo feci atto di cui non mi credevo capace. E costì ella raccontò al conte Selvatico come aveva fatto a rinvenire le ossa del Sire di Narbona. Peraltro ella non palesò al marito l’incontro con le altre ombre, e la promessa che le avevano strappata ma che non poteva mantenere, perché non c’erano più ceri pasquali nella cappella del castello. Furono fatte grandi feste per la guarigione del signore di Pratovecchio, ma intanto che Selvatico riacquistava la forza e la baldanza, la Contessa si faceva bianca come un giglio e si struggeva ogni giorno più. Questo dipendeva dalle angosce che pativa ogni notte, quant’era lunga, poiché appena ella si riduceva nella sua camera, lo stuolo delle ombre incontrate sul limitare del pian di Campaldino, le si faceva d’attorno, e con minacce e con preghiere le rammentava la promessa. - Non vi sono più ceri pasquali e non posso tentare la prova, - rispondeva. - Non importa, sotterraci, sotterraci! - gridavano le ombre. E la trascinavano a forza fuori della sua camera e del suo castello fino al pian di Campaldino, dove la costringevano a prender la terra e a coprirne i monti d’ossami. Quel lavoro durava più ore di seguito, e all’alba la povera perseguitata si riduceva mezza morta nel suo palazzo, dove celava a tutti le angosce della notte. Una febbre continua la limava, ma le ombre implacabili ogni notte la costringevano al duro lavoro, e in breve i mucchi d’ossami non furono più esposti al sole e al sereno, ed ella ebbe un po’ di tregua. Ma allora ricominciarono le tribolazioni del signore di Pratovecchio. Una notte, mentre egli dormiva placidamente, sentì la voce del Sire di Narbona, la voce tremenda che lo aveva così a lungo turbato, che diceva: - Le mie ossa sono di nuovo sopra la terra; io non ti lascerò requie finché non le avrai riunite tutte in un sepolcreto. I predoni scavarono la fossa e rubarono il cerchio d’argento che portavo al polso destro; ricuperalo. Il conte Selvatico aprì gli occhi e vide a fianco del letto la solita ombra. Allora, rivoltosi a lei, così disse: - All’alba monterò a cavallo con i miei uomini e batterò i boschi per iscoprire i predoni e ricuperare il tuo anello. Ma facciamo un patto; lasciami otto giorni di tregua. - Accetto, - disse l’ombra, - fra otto giorni soltanto mi rivedrai, - e sparì. Il Conte si armò di tutto punto e partì infatti all’alba per i boschi di Prataglia, dove sapeva si annidavano i predoni, che facevano scorrerìe nel contado. Era seguìto da un forte drappello di gente, parte a piedi parte a cavallo. La Contessa lo accompagnava con le sue preghiere, ma era afflitta, molto afflitta di vederlo partire per una spedizione così pericolosa. Dopo lungo cavalcare per monti e per boschi, giunse il signor di Pratovecchio a un casolare basso e affumicato. In sulla porta vi erano alcuni uomini che, al vederlo, si barricarono nella capanna, e dalle finestrine incominciarono a scoccar dardi contro di lui e contro i suoi. - Arrendetevi! - gridò il Conte, che intanto aveva fatto circondar la capanna da ogni lato. Gli altri risposero con una pioggia di sassi. - Appiccate il fuoco! - ordinò il Conte. In un momento furono radunate molte fascine ai quattro angoli del casolare, e le fiamme in breve ne lambivano le mura. I predoni, vedendo che non restava loro più scampo, salirono dal camino sul tetto, e continuarono a lanciare dardi e tegole. Il conte di Pratovecchio abbatté la porta con l’asta, e quindi, precipitatosi in mezzo alle fiamme, si diede a cercare. Vi erano ammassate in quella stamberga spade, misericordie, elmetti, contesti d’oro, cinture di prezioso metallo, ma il Conte non si curava di tutti quei tesori. Cercava il cerchio d’argento del Sire di Narbona, che trovò ancora infilato all’osso attorno al quale era stato ribadito, e appena l’ebbe intascato uscì da quella voragine. Di lì a poco il tetto crollò con gran rumore, e i predoni caddero nelle fiamme trovandovi la morte. Allorché l’incendio fu spento, gli uomini del conte Selvatico rinvennero fra le ceneri gran copia di argento e di oro fusi, e molte pietre preziose. Essi caricarono tutto sopra una mula e cavalcarono verso Pratovecchio. Due giorni dopo il Conte e la Contessa si recarono in processione al pian di Campaldino, e quivi riuniti in una cassa di quercia i resti mortali del Sire di Narbona li deposero nella cappella della chiesa di San Giovanni Evangelista. Con l’oro e l’argento tolto ai predoni essi fecero scolpire a Firenze, da Giotto istesso, un mausoleo di marmo con l’effigie del Sire di Narbona, vestito della armatura e posto a giacere sulla cassa. Da quel tempo l’ombra del cavaliere non funestò più i sonni del conte di Pratovecchio, ma è certo che la pia Manentessa non riuscì con le sue mani a coprir di terra le ossa di tutti i morti di Campaldino, perché ancora si dice che chi viene a passar di notte in prossimità del campo, vede delle ombre avvolte in lenzuoli bianchi. Per anni e anni l’aratro non è mai passato su quei campi, che bevvero il sangue de’ guelfi di Firenze e de’ ghibellini di Casentino, ma ora che il piano è di nuovo coltivato, ogni tanto si trovano mucchi d’ossa bianche, sulle quali la contessa di Pratovecchio aveva sparso la terra. E qui la novella è finita.

    - Voi, babbo, - domandò l’Annina, rivolta a Maso, - voi che passate dal pian di Campaldino anche di notte, per andare alla fiera di Pratovecchio o di Stia, l’avete viste le ombre? - Io no; ho visto bensì qualche volta delle ombre nere sul terreno, ma eran le ombre dei pioppi. L’Annina tempestò di domande tutti gli zii a uno a uno, ma da tutti ebbe la medesima risposta. Ombre non ne avevan vedute. Cecco poi l’assicurò che i morti non tornano. - Ma io non ci passerei davvero, di notte, da Campaldino, - disse l’Annina, dopo che Cecco si fu sgolato a dimostrarle che le ombre non si vedevano. - Domani sera, - disse la Regina, - vi racconterò una novella più allegra. - Come si chiama? - domandarono i bimbi. - La Novella del frate zoppo; - rispose ella, - ora andate a letto e dormite in pace, come in pace riposa il Sire di Narbona.




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