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Emma Perodi
La matrigna di Lavella
Fiabe Fantastiche
La settimana successiva all’ultima novella era stata una di quelle settimane piene d’ansietà per molti di casa Marcucci, e anche per il padre di Vezzosa. Della matrigna non voglio parlarne, perché era una donna astiosa e bisbetica e se io la mettessi in scena, turberebbe la serenità del quadro nel quale ho posto la Regina ed i suoi. Bisogna sapere che la Vezzosa s’era data per malata, e nessuno le aveva più visto la punta del naso, né quelli di casa né quelli di fuori, dopo una certa scena, abbastanza tempestosa, in cui aveva detto chiaro e tondo alla matrigna, che il marito se lo voleva scegliere da sé, e quello che ella le proponeva non l’avrebbe preso neppure ricoperto d’oro. Il giorno ella stava sempre a letto con le coperte tirate fin sopra alla testa, e la notte, quando sentiva che in casa tutti dormivano, scendeva in cucina in punta di piedi a tagliarsi una fetta di pane, e poi tornava a letto, ma non dormiva. E nella veglia sentiva Cecco cantare per lei da lontano, e mandarle quel saluto che era solito ormai di darle ogni giorno. Ma la voce di Cecco, invece di calmarla, la indispettiva, e diceva fra sé: - Se mi volesse bene, mi leverebbe da quest’inferno! Son tutti buoni a parole, ma a fatti!... Anche mio padre dice che mi vuol bene, e intanto mi lascia martoriare da quella donna dispettosa che ha preso il posto della povera mamma! E dopo essersi sfogata così, invece di dormire, pensava al mezzo di andarsene di casa. Voleva recarsi a Firenze al servizio, almeno se un padrone la maltrattava, ella avrebbe potuto cercarsene un altro, mentre invece, di lì non sarebbe uscita mai. Cecco, che si sfogava a cantare la notte, non se n’era stato con le mani in mano. Il lunedì aveva parlato subito alla mamma di voler sposare Vezzosa, e la Regina lo aveva lasciato dire; e poi, aprendo la bocca sdentata a un sorriso, aveva risposto: - Lo sapevo, e quella monella può dire di avermi stregata; sarei più contenta di te di vedermela in casa. Cecco, incoraggiato da queste parole, era andato a cercar Maso, il quale non aveva risposto né sì, né no. - Tutte le nostre donne hanno portato una dote, - aveva risposto il contadino, e così abbiamo potuto comprare due vacche, i trapeli, i maiali, e metter qualche cosa da parte. Vezzosa non ha dote; ma se le cognate e i fratelli son contenti, per me non ho nulla in contrario. I fratelli, interrogati che furono, sollevarono anch’essi la difficoltà della dote, e così la settimana passò senza che nessuno andasse a chieder la Vezzosa. Giunta la domenica, Regina, ora con un pretesto, ora coll’altro, sperando di vederla giungere, non si risolveva a incominciare la novella, quando l’Annina, vedendo sbadigliare i fratelli, fece osservare alla nonna che era tardi, e quella prese a dire:
C’era una volta un signore di Caprese, qui in Casentino, della famiglia Catani, che avea nome Beltramo, al quale era morta la moglie, dando alla luce una bambina che fu chiamata Lavella. Beltramo fece dare alla sua donna onorata sepoltura, ma appena fu passato un po’ di tempo pensò di prendere un’altra moglie, e la scelse della casa Ubertini di Arezzo. Costei non era né bella, né graziosa, né buona di carattere, ma di questo il conte Beltramo se ne accòrse soltanto quando l’ebbe menata a casa sua, a Caprese, e allora non c’era più rimedio. Le prime parole che madonna Chiarenza disse a Lavella, furon queste: - Che brutta creatura! Per fortuna Lavella non capì, perché era ancora poppante; ma capì bene la sua balia, la quale pensò che quella non sarebbe stata mai altro che una tormentatrice per la piccina, e non permise che Chiarenza la vedesse mai. I primi anni della vita di Lavella trascorsero tranquilli, perché la buona balia ebbe di lei ogni cura; ma quando ebbe toccati i sette anni, Chiarenza volle occuparsene, dicendo al marito che se la lasciava affidata alle mani della contadina, sarebbe cresciuta rozza e villana. Chiarenza non aveva dato al marito altro che una figlia, la quale aveva tre anni quando Lavella toccava già i sette; ma se la primogenita era bella e bianca come un giglio e rossa come un garofano, l’altra era gialla come una mela vizza e stentata da parere più una morticina che una creatura viva. Quando Chiarenza vide le due bambine, una accanto all’altra, fu presa da una tremenda invidia per la figliastra, e non cessava un momento di tormentarla. Per ottenere che dal volto di Lavella scomparisse l’incarnato, non la faceva mai uscire dalle sue stanze, e le imponeva di star tutto il giorno curva sul telaio a trapuntare tappeti o gonfaloni, o a pregare inginocchiata sulle lastre di pietra della scura cappella. Ma neppur questa vita di reclusione alterava la bellezza della bambina; ella si faceva un po’ più delicata, ma non più brutta. Anzi pareva che ogni giorno che passava si compiacesse di imprimerle sul volto nuove attrattive, e nel cuore maggior dose di bontà e di dolcezza. Dalla sua bocca non usciva mai un lamento, e i paggi e i valletti del castello di Caprese la chiamavano l’angioletta, tanto dal suo volto emanava un sorriso celestiale. Le donne della contessa Chiarenza, invece, per secondare la loro signora, non cessavano di parlare di lei con disprezzo, e se la potevano accusare di qualche cattiveria verso la sorella, se ne ingegnavano. Il conte Beltramo non udiva né le lodi dei valletti e dei paggi, né le denigrazioni delle donne. Egli passava la vita a caccia o in guerra, e quando tornava al castello, non permetteva che in presenza sua alcuno parlasse, ad eccezione del frate Uguccione, un monaco che in gioventù aveva vestito l’armatura di cavaliere e avea visto più battaglie che non avesse capelli in capo. Padre Uguccione allietava gli ozî del Conte narrando della corte di Urbino, dov’era stato, della corte di Rimini e di tanti prodi cavalieri incontrati nei suoi pellegrinaggi attraverso l’Italia, prima di vestir la tonaca. Durante quelle veglie, Chiarenza stava in un’altra parte della sala in mezzo alle sue donne, ascoltando con orecchio attento i racconti, senza osare di metter bocca. Ma quando Beltramo e la moglie si ritiravano nelle loro stanze, il Conte non si stancava mai di dirle che era afflitto di non avere un maschio, un erede bello e forte per addestrarlo nelle armi ed al quale trasmettere il suo nome ed i suoi feudi. - Neppur la tua prima moglie seppe darti un maschio, rispondeva la Contessa. - Ma almeno Lavella è bellissima, e la tua Selvaggia è un mostro di cui mi vergogno, - replicava Beltramo. Questo confronto faceva andare sulle furie madonna Chiarenza, ma in faccia al suo marito e signore riusciva a dominarsi; appena però le capitava Lavella davanti, faceva scontare alla disgraziata figliastra tutto il suo risentimento. Se Dio ne guardi la bambina sbagliava un punto nei ricami che le dava a fare, eran nerbate sulle dita; se piangeva, ordinava che fosse rinchiusa per ore ed ore in uno stanzino buio; ma Lavella taceva sempre e non si ribellava mai contro la matrigna, che le infliggeva tante punizioni. Però bisogna dire che ogni volta che aveva le nerbate sulle dita, sentiva farsi, da una mano invisibile e dolcissima, tante carezze che le facevano passare il bruciore, e quando Chiarenza la rinchiudeva nello stanzino buio, quel bugigattolo s’illuminava subito di una luce chiara, e varie voci armoniose cantavano cori sacri. Lavella univa la sua alle voci melodiose, e così il tempo le passava presto. Appena però qualche passo si avvicinava, le voci tacevano, spariva la luce, ma sul bel volto di Lavella continuava quella espressione di beatitudine, che tanto indispettiva la matrigna. Così Lavella giunse ai quindici anni, e tutti coloro che la vedevano, restavano a bocca aperta a guardarla, tanto era bella e portava scritto in fronte la bontà del cuore. La matrigna, nonostante che le sue donne non si stancassero di dirle: «Lavella imbruttisce, Lavella si fa un mostro», pure vedeva che ogni giorno la fanciulla acquistava grazia e leggiadria; e, accorgendosi che Selvaggia, invece, restava gialla e grinzosa come quando era piccina, se avesse potuto, avrebbe sbranata la figliastra con le proprie mani. Lavella aveva quindici anni, e il conte Beltramo, era altero di lei e incominciava a volerla condurre a caccia seco. Molte volte, quando egli cavalcava ai castelli di Chitignano o di Bibbiena, oltre a farsi accompagnare dalla moglie, invitava anche Lavella a seguirlo. Lavella, per l’avarizia e la perfidia della matrigna, non aveva da vestirsi come si conveniva a damigella di nobile famiglia, e nonostante che non fosse punto vana della sua bellezza, adduceva pretesti per non accompagnare il padre. Ma su dieci volte le veniva fatto di potersene rimanere a Caprese appena due, e intanto la fama della sua bellezza si spargeva per tutto il Casentino, e già correvano di bocca in bocca le canzoni che i trovatori avevano inventate in onore di lei. Una volta Lavella fu condotta a una giostra a Bibbiena, e il più bello e prestante cavaliere di casa Ubertini vestì i colori di lei per iscendere nella lizza. Chiarenza si morse le mani dalla rabbia, vedendo che il cavaliere, dopo aver vinto i suoi avversarî, andò a inginocchiarsi dinanzi alla bella fanciulla e la proclamò Regina del torneo. - Me la pagherà! - diceva fra sé la matrigna tutta indispettita. Poco tempo dopo, Beltramo partiva per andare per certi suoi affari a Siena. - Quando torno faremo le nozze; - diceva alla moglie, - Guglielmo Ubertini è innamorato di Lavella, tutto il parentato è contento di questa unione, e io non potrei desiderare per successore un cavaliere più prode e bello del vincitore del torneo di Bibbiena. Chiarenza storceva la bocca e diceva che Lavella era troppo giovane per prender marito. - Ma che giovane! Eppoi io voglio concludere il matrimonio alla svelta perché le cose lunghe diventan serpi. Ti consiglio, anzi, di profittare di questa mia assenza per preparare il corredo, e da Siena, dove si tessono così bei drappi, io le porterò abiti ricchissimi. «Tu fai i conti senza di me, - pensò Chiarenza, - Lavella non si mariterà e soltanto lo sposo di Selvaggia erediterà il nostro castello.» Il conte Beltramo partì con i suoi valletti e con buona scorta di armati, e prima di salire in sella abbracciò la figlia maggiore, raccomandandole di starsene allegra durante il tempo della sua assenza, ché al ritorno le avrebbe data una notizia molto, ma molto lieta. Sorrise Lavella, e finché poté scorgere il padre scender giù per le balze di Caprese, lo salutò col fazzoletto, quindi tornò nella sala dove la matrigna soleva lavorare insieme con le sue donne. - Lavella, - le disse Chiarenza appena la vide, - ora sei affidata a me soltanto, e siccome so che tu hai molta avversione per me, voglio risparmiarti il tedio della mia compagnia. Va’ nella tua camera e non ne uscire altro che al ritorno di tuo padre. Lavella, senza dir nulla, chinò la testa e uscì; ma quando fu in camera sua, pianse tanto tanto tenendosi il bellissimo volto fra le mani. Mentre se ne stava così angosciata, sentì una carezza blanda sui capelli, e, alzando gli occhi, vide dinanzi a sé un angiolo, con le ali bianche, la veste bianca, e i gigli in testa a guisa di corona. - Chi sei, angiolo bello, e chi ti manda da me? - domandò Lavella. - Sono il tuo angiolo custode. Tua madre, salendo al Cielo quando tu eri piccina piccina, mi pregò di vegliare su di te, di rallegrare la tua infanzia e proteggerti sempre. Ora la tua matrigna vuol farti morire, prima che torni il conte Beltramo. Non accettare, Lavella, nessun cibo dalle mani di lei, né da quelle delle sue donne; conterrebbe certo il veleno. Mangia solo ciò che ti porto io, e il cibo che ti viene da altri, sminuzzalo sul pavimento; verranno le formiche, verranno i sorci a portarlo via. Sono io che ho accarezzato le tue manine colpite dalle nerbate, io che ho chiamato gli altri angioli ad allietare col canto le lunghe ore di prigionia; abbi dunque fiducia in me. - In te solo, angiolo bello! - rispose Lavella sorridente. L’angiolo le posò in grembo un liuto e sparì. La ragazza, consolata da quelle buone parole, trasse dal liuto alcuni accordi, ed accompagnando il suono con la voce, si mise a cantare una dolce canzone provenzale. - Sentite, canta quella dispettosa! - diceva alle sue donne Chiarenza. - Le avverrà come alle cicale: dopo aver cantato un mese, creperà. Le donne, per adulare la signora, risero di quella stupida facezia, ripetendo: - Creperà! Creperà! - ma non sapevano il truce significato di quelle parole, perché non capivano il pensiero di madonna Chiarenza. Quella perfida donna, che conosceva le qualità di certe piante malefiche, col pretesto di far respirare l’aria fresca del mattino a Selvaggia, andava nei boschi con la figlia e non si faceva seguire altro che a distanza dalle sue donne. Ella cercava sul terreno quelle piante velenose, e quando le aveva trovate, le nascondeva fra i mazzi di fiori. Poi, quando giungeva a casa, pestava quell’erbe e le univa al cibo che mandava a Lavella. Ma la ragazza, appena il cibo le era presentato, lo deponeva per terra e lo sminuzzava alle formiche ed ai topi, i quali lo riportavano nei loro ripostigli, e si guardava bene dal mangiarne, aspettando l’angiolo che non la lasciava mai digiuna e ogni notte volava sulla finestra della camera in cui Lavella era prigioniera, recandole frutti dei boschi e miele odoroso. - Come sta Lavella? - domandava ogni mattina madonna Chiarenza alla servente che le recava il cibo. - È bianca come un giglio e rossa come un garofano, - rispondeva la donna. La Contessa, udendo quella risposta, si mangiava le mani. Come mai tutto il veleno che le metteva nel cibo non le produceva nessun effetto? Questo fatto ella non sapeva spiegarselo, se non che col tradimento della donna alla quale affidava il cibo destinato a Lavella, e per questo disse: - Da mangiare glielo porterò io! E glielo portò infatti quel dì stesso; ma la mattina dopo, quando aprì la camera, Lavella cantava come una capinera e stava meglio di lei. Chiarenza, furente, prese per un braccio la figliastra e la fece uscire da quella prigione nella quale sospettava che alcuno penetrasse a sua insaputa, e, fattale imboccare una scala, le ordinò di salire su su fino in cima. Lavella la ubbidì, e la Contessa saliva dietro a lei, e tanti erano gli scalini che, giunta in cima, aveva la lingua fuori. In vetta a quella scala c’era una specie di soffitta, senza finestre, chiusa da una porta di ferro con tre chiavistelli e tre chiavi, una differente dall’altra. - Qui, carina, non avrai visite, - le disse in tono canzonatorio. E, senza aggiunger altro, uscì, chiuse i tre chiavistelli, girò le tre chiavi, e quando fu giunta in fondo alla scala serrò pure la porta della torre e andò a preparare il cibo avvelenato per la figliastra. Verso sera, quando salì nella torre per portarglielo, sentì partire un canto dolcissimo dalla prigione, e supponendo qualche tradimento, fece gli scalini a due a due per scoprirlo; ma quando giunse in cima tutta trafelata, il canto cessò a un tratto e nella prigione non trovò che Lavella. Allora le venne in mente che la figliastra fosse una strega, ma non per questo rinunziò a offrirle il cibo avvelenato, anzi la costrinse a mangiarlo in sua presenza. Ma Lavella, che rammentava bene la raccomandazione dell’angiolo, lasciavasi cader di mano pane e companatico nel portarlo alla bocca, e i topi correvano a frotte e pulivano il pavimento senza che la Contessa si accorgesse di nulla. Ella uscì dalla prigione pensando che quella volta Lavella era bell’e spacciata, perché non era possibile che tutto il veleno che ella aveva messo nel cibo, non producesse l’effetto voluto; ma mentre usciva dalla porta, l’angiolo entrava da una fessura che si apriva nel muro, e faceva vedere alla ragazza che i topi più ingordi, quelli che avevano mangiato il cibo recato dalla Contessa invece di portarlo nei nascondigli, si contorcevano sul pavimento dagli spasimi. - Ma che ho fatto alla Contessa perché mi voglia veder morta? - diceva la povera ragazza piangendo. - Nulla, Lavella, non piangere. In breve tu sarai consolata ed ella pagherà il fio di tanta perfidia, - le rispondeva l’angiolo. - Preparati a una grande gioia. Senti, - aggiungeva stando un momento in orecchio, - il corno echeggia su queste balze; uno dei valletti di tuo padre viene ad annunziare il suo prossimo ritorno . Sii forte, Lavella, non ti rimane altro che una prova da sormontare. L’angiolo, dopo averla così confortata, sparì, e Lavella si rasciugò le lacrime e tese l’orecchio per afferrare il suono del corno, che le annunziava la prossima liberazione. La torre ove la Contessa teneva rinchiusa la figliastra era l’ultima del castello e guardava il valico del monte; perciò, essendo dalla parte opposta della via, i suoni del corno vi giungevano debolmente; ma Lavella sentì bene che a un tratto cessarono, segno quello che il ponte levatoio era stato calato e il valletto si trovava già fra le mura del palazzo. Poco dopo che ella aveva cessato di udire i suoni del corno, sentì un rumor di chiavi e di chiavistelli e vide entrare la matrigna con gli occhi fuori della testa. Lavella si alzò, la matrigna fece un passo addietro spaventata e fuggì via senza neppure voltarsi. Tuttavia non mancò di chiudere la porta e di lasciare la ragazza a marcire in quella torre. - Non è crepata! È una strega di certo; - borbottava la perfida donna scendendo le scale, - ma se non crepa stanotte, non so più liberarmi di lei. Quella sera Lavella fu al solito visitata dall’angelo che le portò gran copia di fragole odorose e di profumati lamponi, e prima di lasciarla le diede un vasetto, raccomandandole di sciogliersi i capelli, e di ungerli bene avvolgendosi in essi a guisa di manto. Dopo la consueta preghiera, Lavella si ristorò con quei frutti freschi e quindi si distese sulla nuda terra, avendo cura di avvolgersi nei capelli unti prima col balsamo. Non s’era ancora addormentata, che sentì un forte rumore alla porta. Le pareva che qualcuno vi accatastasse fascine sopra fascine. Ma non per questo si spaventò, poiché le parole dell’angiolo le risuonavano ancora all’orecchio e sperava nel ritorno del padre per essere liberata. Ella si addormentò dunque fiduciosa, ma dopo poco fu destata da un crepitare fortissimo di legname. Aprì gli occhi e vide che la porta era in fiamme e queste si spingevano con furia dentro la prigione. Lavella non si perdé d’animo. Balzò in piedi, si avvolse nei capelli e con un lancio varcò quel rogo acceso accanto alla porta della prigione; quindi si diede a scender le scale per fuggire. Ma giù trovò la porta della torre chiusa e le convenne di fermarsi. Ogni tanto sentiva crollare un pezzo di muro e incominciava a dubitare che fosse giunta la sua ultima ora. Ma a un tratto la porta fu aperta e una turba di uomini si precipitò sulla scala per salire in vetta alla torre e abbatterla affinché il fuoco non si comunicasse al restante del castello. Però, appena la videro, rimasero come inchiodati, credendola un’apparizione, ed ella approfittò di quel momento di timore, per farsi largo ed uscire. Appena fu fuori si diede alla fuga, e trovando abbassato il ponte levatoio, perché era stato sonato a stormo e i terrazzani giungevano già per dar mano a spengere l’incendio, ella corse per la campagna e andò ad appostarsi in un bosco, poco lungi dalla strada per la quale il conte Beltramo doveva giungere. A un certo momento della notte la torre cadde con grandissimo fracasso e la contessa Chiarenza, che stava dalla sua finestra a guardare l’incendio, esclamò: - Questa volta la perfida è ben sotterrata fra i rottami, e il conte Beltramo non saprà rinvenirvela. Dirò che è fuggita, e nessuno potrà contraddirmi! La perfida Contessa, che aveva vegliato tutta la notte attendendo che la torre crollasse, si coricò; ma il rimorso le impedì di dormire, e all’alba era già alzata e si faceva acconciare dalle sue donne, alle quali raccontava che Lavella aveva appiccato il fuoco alla torre ed era fuggita. Esse fingevano di credere al racconto, e, per adulare la signora, dicevano che Lavella così doveva finire, perché era insubordinata, altera e sprezzante. I suoni del corno, che salivano dalla valle, fecero impallidire Chiarenza. Nonostante ella si fece animo e, terminatasi di acconciare, mosse incontro al suo signore, dando la mano a Selvaggia. Madonna Chiarenza attese il Conte nella grande sala d’armi e quando lo vide comparire fece per abbracciarlo; ma egli la respinse, e con piglio severo le chiese: - Dov’è mia figlia? - Eccola! - rispose la perfida donna spingendogli nelle braccia Selvaggia. - Io non intendo parlare di questa, - disse il Conte, - ma di Lavella, così dolce, buona e leggiadra. - Ahimè, signor mio! Quella insubordinata mi ha dato molta pena nella vostra assenza. Ed io, per restituirvela come me l’avevate consegnata, avevo stimato bene di tenerla chiusa nella torre; ma neppur là dentro ho potuto custodirla, poiché ella vi ha appiccato il fuoco ed è fuggita. - Madonna, voi siete una perfida, - disse il Conte. - Che cosa avete fatto a Lavella? Se l’infelice è perita per mano vostra, voi pure perirete. - Più che rinchiuderla io non potevo fare, e chiamo il Cielo a testimonio delle mie intenzioni. - Non bestemmiate! - urlò il Conte, e fattosi sulla porta fece un cenno. Pallida, con i capelli disciolti, le vesti bruciate, comparve Lavella. La Contessa mandò un grido vedendola, ma ricompostasi subito disse: - Vedete che è vero quello che vi dicevo; prima ha dato fuoco alla torre, e poi è fuggita. - No, non sono io che ho appiccato l’incendio, ma colei che mi voleva morta, - rispose Lavella pacatamente. - Il Signore, la Vergine Santissima e il mio angelo custode, mi hanno salvata dal veleno che ponevate nei miei cibi, e dall’incendio. Che cosa vi ho fatto, madonna, per meritare il vostro odio? - Sentite, signor mio, come mi accusa quella sfrontata; fatela tacere! - disse Chiarenza. Lavella, colpita da quelle parole, abbassò gli occhi e tacque, e il conte Beltramo non sapeva se credere al racconto delle sevizie patite, fattogli da Lavella, o alle accuse che la moglie aveva formulate contro di lei, quando Selvaggia, che era uscita per un momento, entrò con una fetta di torta in mano, nella quale poneva avidamente i denti. Chiarenza fece un lancio, le strappò la torta di mano e poi aprendole la bocca, smarrita dal terrore, le gridava: - Sputa! Sputa! È veleno! - Ecco il cibo che voi preparavate per Lavella; osereste negare il vostro delitto? - disse il Conte. Chiarenza non l’udì. Inginocchiata accanto alla figlia, la guardava ansiosamente e le poneva le dita in gola per farle rigettare la torta avvelenata. Ma Selvaggia, da gialla che era si era fatta livida. - Aiuto! Salvatela! - urlava la Contessa. Accorse padre Uguccione, le dette subito alcuni farmachi, ma Selvaggia, invece di riaversi, si contorceva come i topi nella prigione di Lavella, e strillava come se la uccidessero. La figliastra se ne stava in disparte, guardando atterrita quella scena in cui riconosceva la giustizia di Dio. Selvaggia spirò fra atroci dolori e la madre se la strinse fra le braccia cercando di rianimarla col suo fiato. Il Conte fece atto di trascinare via la moglie, ma Lavella, guardandolo pietosamente, gli disse: - Non vi pare che ella sia abbastanza punita della sua perfidia? - Hai ragione, - rispose il Conte. - Lasciamola al suo dolore e al suo rimorso; e tu, figlia mia, va’ a farti bella, perché fra poco giungerà il bel cavaliere Guglielmo degli Ubertini, colui che vestì i tuoi colori alla giostra di Bibbiena, per domandarti in isposa. Lavella uscì, e quelle stesse donne che avevano dimostrato per lei tanto odio quando Chiarenza la torturava, le furono d’attorno facendo a gara ad acconciarla e a proclamarla bella. Gli sponsali si fecero quel giorno stesso con molta pompa, e Lavella sentiva dintorno a sé un coro di voci celestiali, che gli altri non udivano. La contessa Chiarenza compose la figlia nella bara, e mentre la sala echeggiava di suoni e di liete conversazioni, lei sola assisteva ai funerali della figlia. Il giorno dopo, madonna Chiarenza partiva per ordine del marito e andava a rinchiudersi in un convento di Arezzo, mentre Lavella, figlia e sposa felice, restava signora del castello. La novella non dice come finisse Chiarenza, ma si sa che Lavella si mantenne sempre buona e leggiadra, e visse lungamente a fianco dello sposo, al quale die’ numerosa figliuolanza.
- Ma quanto patì quella poverina! - osservò l’Annina, quando la nonna ebbe terminato di narrare. - Bambina mia, - replicò la vecchia, - ogni creatura che resta senza madre è da compiangere, e Dio non vi faccia mai provare una matrigna. Appena ebbe pronunziato quel nome, Cecco diventò rosso, e, facendosi forza, domandò alla cognata e ai fratelli: - Dunque, la volete o no in casa la Vezzosa? - Come sarebbe a dire? - rispose Maso. - Io, ormai, ho fatto proposito di sposarla, - riprese l’artigliere. - Se l’accettate in casa e la mamma nostra è contenta, la sposo subito; se no mi cerco un poderetto, prendo meco la nostra vecchina, e la sposo lo stesso. Lavoreremo come cani da principio, ma non avrò più il martirio di saper quella povera ragazza nelle mani della matrigna. - La nostra vecchia non uscirà di casa! - dissero tutti in coro. - E allora? - domandò Cecco che aveva fatto una provvista di coraggio. - Senti, - disse Maso dopo aver riflettuto. - Noi si ha bisogno almeno di un po’ di roba, e non possiamo caricare il podere di una nuova famiglia. Capisco che a te vada giù male di veder patire Vezzosa, ma finché si piange soli, le lacrime non sono amare come quando si piange in compagnia. - Ma quella ragazza soffre, - osò dire la Regina. - Allora che devo dire? Sposala, e facciamola finita, - replicò Maso. - Lo sai che tocca a te a chiederla? - osservò la vecchia. - L’avrei da sapere; non ho già chiesto tutte le cognate? - Chiedila, dunque, e fai contento Cecco. - Ebbene, la chiederò. Cecco non poté dire una parola, e, per nascondere i lucciconi, abbracciò la sua vecchia.