Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Emma Perodi

    La storia del turbante

    Fiabe Fantastiche


    La sera dopo, sparecchiata la tavola che aveva servito al lauto pranzo di Natale, gli uomini di casa Marcucci non misero neppure il naso fuori dell’uscio per strologare il tempo, poiché non ce n’era bisogno. Il vento mugolava furiosamente nella cappa del camino, facendo ogni tanto turbinare la cenere e le faville, e la neve batteva tanto forte contro i vetri delle due finestrine della cucina, da spaccarli. Erano le cinque appena, ma già era buio pesto nella grande stanza affumicata, e, senza la fiamma del focolare e la lucerna a sei becchi posata sulla tavola, nessuno avrebbe veduto neppure chi gli sedeva accanto. Gli uomini avevano acceso la pipa e stavano a scaldarsi nel canto del fuoco; le donne erano sedute in qua e in là senza far nulla, e la vecchia Regina snocciolava i chicchi del rosario. Quando ebbe terminato di pregare, l’Annina le disse: - Nonna, o che non vi rammentate più quello che ci prometteste la notte passata? - La storia del turbante, la vogliamo, sapete! - esclamarono in coro gli altri bambini. - Aspettate, - rispose la nonna. - Quando i vostri babbi saranno usciti, ve la racconterò. - Avete paura di noi? - disse Maso. - E da quando in qua non ci credete degni di sentire le novelle? Raccontate pure, e così ci aiuterete ad ammazzare il tempo. - Raccontate, mamma, - proseguì Cecco mettendosele accanto. - Io sto a sentirvi a bocca aperta. - Come noi! - esclamarono i bimbi.

    - Dunque, - incominciò ella, - dovete sapere che nella notte di Natale, quando Turno fu uscito dalla caverna dopo aver commesso il furto, avvenne una scena tremenda nella bellissima sala sotterranea di Montecornioli. Gli angeli, tornando, trovarono il vecchio guardiano del tesoro addormentato, ma bastò che volgessero uno sguardo sulle cassette d’oro col coperchio di cristallo per accorgersi che mancavano dei gioielli. Svegliarono allora il vecchio dalla cappamagna e gli domandarono: - Chi hai introdotto qui? - Nessuno, - rispose egli. - Del resto, come avrei fatto ad aprire la porta se è chiusa a cento chiavi e ognuno di voi ne ha una? - Allora sei tu che hai ceduto alla tentazione e ti sei impossessato di una parte del tesoro che ti avevamo confidato? - Per l’anima mia, sono innocente! - esclamava il vecchio. - Se ho avuta una colpa, è quella di aver ceduto alla stanchezza; per questo punitemi, ma non per altro. Gli angeli non gli credevano, benché da secoli quel vecchio fosse preposto alla custodia del tesoro. Dovete sapere che per gli angioli era un grande scorno il non aver saputo vegliare su quel tesoro. Iddio glielo aveva affidato, ma nella Sua somma giustizia aveva detto che se non avessero saputo serbarlo per sollevare la miseria dei poveri, glielo avrebbe ritolto e sarebbe passato nelle mani dei diavoli. E gli angeli avevano sperato di far molto bene in quel paese e conquistare alla gloria del paradiso tante anime di madri, di padri e di bambini; anime intenerite dalla gratitudine per il bambino Gesù, che pensava agli afflitti e ai miseri. Il dolore di dover abbandonare il paese era così grande in loro, che li rendeva ingiusti verso il povero vecchio. - Mostraci dove hai nascosto le gioie, - disse uno degli angeli alzando sul capo del guardiano la grande spada di fuoco. L’infelice rispose con un singhiozzo, e gli angioli, credendo che quello gli fosse strappato dal rimorso della cattiva azione, lo condannarono a esser cacciato dalla caverna ed eseguirono subito la sentenza. Infatti andarono nella stalla a prendere la mula e trascinarono il povero vecchio fino alla porta della casetta; costì ognuno degli angioli cavò la propria chiave, e quando tutti e cento ebbero schiuso detta porta, cacciarono il vecchio nell’aperta campagna, in mezzo alla neve. Egli rimase sbalordito, come fulminato da quel fatto, senza volontà e senza forza. - Dunque anche gli angioli che siedono vicino al trono di Dio possono essere ingiusti! - esclamò. - Chi mi farà giustizia? - Io, - rispose una voce aspra e roca. La notte era sì buia che l’uomo dalla cappamagna e dal turbante non potea scorgere da chi partiva la voce, ma appena quest’«io» fu proferito, la mula bianca, che era accanto al padrone, si diede a correre a precipizio giù per la scesa, e il rumore dei ferri sulla neve gelata si perdé soltanto nella valle. Il vecchio domandò: - Sei amico o nemico? - Amico, s’intende. Non c’è che un amico che possa consolare in un momento di dolore, - rispose l’altro. - Ma allontaniamoci di qui, perché il luogo non è adattato per parlare. - Ahimè! - disse il vecchio, - io sono così affranto che non posso fare un passo. Allora egli si sentì sollevare da due braccia poderose, e trasportare per un buon tratto nella notte buia, in direzione del monte che s’inalza dietro a Montecornioli. Giunti che furono nel fitto del bosco, il vecchio sentì di nuovo il terreno sotto i piedi, e di lì a poco scorse un lumicino a breve distanza, che si vedeva dall’uscio aperto di una capanna di carbonari. Allora solamente si avvide che chi lo aveva sollevato da terra e portato fin lì, era un uomo tutto villoso, con un viso arcigno da metter paura, e due corna che gli uscivano da un berretto di pelo. Il vecchio tremò tutto e disse fra sé: - Son perduto; costui è il Diavolo in persona! Ed era il Diavolo davvero, quello stesso che aveva tentato Turno, che aveva raccolto il guardiano del tesoro del re Salomone e della regina Saba, non certo per compassione del vecchio, ma per rubare un’anima al Paradiso, e che girava e rigirava intorno alla caverna, sapendo che quel tesoro sarebbe caduto nelle sue mani. - Vecchio venerando, - disse il Diavolo quando furono entrati nella capanna, salutando rispettosamente l’uomo dalla cappamagna e dal turbante, - tu mi hai reso un segnalato servigio addormentandoti mentre dovevi vegliare, ed io intendo ricompensarti. Vuoi esser ricco? - Non ho mai ambito alle ricchezze; ne ho vedute tante e tante che non mi tentano più. - Sei un saggio, - rispose il Diavolo, - e mi congratulo teco. - Vuoi vivere lunghissimamente, non anni, ma secoli? - Sono già tanto vecchio, ho veduti tanti paesi e tanti uomini che non desidero di rimanere molto a questo mondo. - Vuoi la gioventù, la bella gioventù, la forza, la letizia dell’animo? - Neppure. - Tu non vuoi nulla dunque? - disse il Diavolo stupito. - Da te non voglio nulla. - Bada, vecchio, ti pentirai di avere ricusato le mie offerte. - Non ti temo, - disse il vecchio in tono di sfida, e fece atto di alzar la mano destra alla fronte, per farsi il segno della croce. Ma per quanto provasse e riprovasse, non riusciva ad alzar la mano, che rimaneva cionca come il braccio e pareva inchiodata alla cappamagna. Il Diavolo fece un ghigno e, sedutosi davanti al fuoco, disse: - Vedi se ora sei in mio potere! Credevi di cacciarmi con quel segno dinanzi al quale io devo fuggire, come i soldati vinti fuggono dinanzi alla insegna spiegata dal vincitore; e io ti ho impedito la mano. Tu non vuoi esser mio alleato, e fra noi sarà guerra. Il vecchio dalla cappamagna e dal turbante non si degnò di pregare il Diavolo, ma rimase muto e accigliato nel mezzo della stanza, pregando il Signore di liberarlo dalle granfie del nemico. La morte non lo spaventava, lo sgomentava bensì l’eterna dannazione, e desiderava di morire santamente com’era vissuto. Il Diavolo pareva che non si curasse più del vecchio. Batté col piede di capro sul pavimento, e comparve una gatta nera, che si diede a preparare da mangiare, trafficando in cucina come avrebbe fatto una massaia. Però quando udì cantare il gallo, mentre incominciava ad albeggiare, la gatta piantò baracca e burattini e sparì, senza metter neppure in tavola le pietanze che aveva cotte. Il Diavolo le prese da sé sul focolare e mangiò con grande appetito; ma quando il cielo si fece biancastro, sparì anche lui. Il vecchio respirò dalla contentezza, e appena vide giorno chiaro, cercò di uscire da quella casa di Satana; ma le gambe non lo reggevano e ricadde a sedere sopra lo sgabello sul quale stava prima. - Ecco un altro tiro di quel grande nemico! - esclamò, - prima mi ha storpiato il braccio destro, e poi la gamba; ma san Luca, mio protettore, e Voi, mio Angelo custode, volete proprio abbandonare la mia anima al Diavolo? Appena ebbe invocato quei due nomi, sentì che il turbante, che gli cingeva il capo ed era formato di finissima tela bianca, si alzava in aria. Dopo averlo veduto volteggiare per la stanza, come farebbe una rondine che sbadatamente penetra in una casa e vola di qua e di là per cercar di uscire, il turbante prese la direzione della cappa del camino, e il vento lo spinse in modo da farlo uscire dal fumaiolo, e quindi lo sollevò a grande altezza, facendolo volare in aria. Era quella una mattinata serena, e la neve, caduta in abbondanza, faceva sperare ai cacciatori buona preda. Per questo il conte Guido, preceduto dai falconieri e seguito dai paggi, era sceso dal suo castello di Poppi, e lo stesso aveva fatto il conte di Lierna. Fra questi due signori, benché fossero della stessa famiglia, era nato da molti anni un odio tremendo per una ingiustizia che il conte Odeporico di Lierna credeva gli fosse stata fatta dal suo potente cugino di Poppi. Le due comitive s’incontrarono sul ponte a Poppi, mentre traversavano l’Arno, e i due nemici, che si avanzavano uno contro all’altro, si riconobbero da lontano, perché il conte Odeporico, dopo l’affronto sofferto, vestiva tutto di nero, e il conte Guido portava il giustacuore celeste, ricamatogli dalla sua donna. Ma né l’uno né l’altro si fissarono per molto tempo, perché nello stesso punto videro volare al disopra del ponte un uccello sconosciuto in quelle parti, un uccello tutto bianco e del quale non si scorgeva né testa né ali. I due conti scappucciarono il falco, che tenevano in pugno, e i due uccelli rapaci si volsero entrambi verso lo strano volatile, che campeggiava nell’aria. Ma appena lo ebbero raggiunto e stavano per ghermirlo, caddero fulminati ai piedi dei loro padroni. Allora, tanto il conte Guido quanto il conte Odeporico armarono l’arco e scoccarono i dardi contro l’uccello bianco. I due strali lo colpirono nel momento istesso, poiché i Conti erano abili tiratori, e il volatile cadde nel mezzo del ponte. Entrambi i feritori si slanciarono per ghermirlo. - Io l’ho ferito il primo! - gridò da lungi il conte di Poppi, - e la preda spetta a me. - Fu il mio strale che lo colpì avanti, - disse il signor di Lierna, - ed io lo esigo. Queste parole erano scambiate dai due contendenti a una certa distanza, e nessuno di loro si era peranco accorto che razza di selvaggina avessero ucciso. - Ti proibisco di toccarlo, - diceva il conte Guido. - Qui sono sulle mie terre ed è predone chiunque osa cacciare senza il mio permesso. Il conte Odeporico, che nutriva già tanto risentimento contro il cugino, offeso maggiormente da queste parole, senza più badare all’oggetto della contesa, spronò il cavallo e giunto in faccia al signore di Poppi, sguainò la spada e gli disse: - Mettiti in guardia e rispondimi ora di tutte le villanie che mi hai fatte, - e appena ebbe pronunziate queste parole si gettò come un fulmine sul signore di Poppi. L’altro pure aveva cavato la spada, e le due armi s’incrociarono e mandarono fiamme; ma per quanto i due Conti menassero colpi da orbi, nessuno riusciva a ferire l’avversario, anzi, ogni volta che si toccavano, rompevasi un pezzetto di spada, così che essi si trovarono alla fine con la sola impugnatura in mano. - Qui c’è un incantesimo! - esclamò il conte Guido, - e io vi propongo di cessare il duello e di vedere prima che razza di preda abbiamo uccisa. Il signor di Lierna a sentir parlar di incantesimo si fece pallido in viso e voltato il cavallo corse a spron battuto a rinchiudersi nel suo forte castello sul monte, e per maggior precauzione ordinò che fosse alzato il ponte levatoio e si armassero le saracinesche. Il signor di Poppi, rimasto padrone del campo, si avanzò, e, sceso da cavallo, raccolse la preda abbandonata dal suo competitore; ma nel vedere che i due strali avevano colpito un fagotto di cenci bianchi, die’ in una sonora risata; poi, ripensando che quel fagotto di cenci era stato cagione della morte del suo bel falco, così sapientemente ammaestrato, ordinò a uno de’ suoi paggi di raccoglierlo e di bruciarlo nel cortile del castello di Poppi, tanto più che egli pure credeva agli incantesimi e temeva che da quei cenci gli venisse qualche grande malore. Il fiero conte Guido rifece dunque l’erta salita che conduceva alla sua dimora, e, giuntovi, ordinò si preparasse un rogo sul quale fece porre il turbante. Appiccato il fuoco alle legna, queste incominciarono a friggere, si fecero nere come se fossero state verdi, mentre da esse si sprigionava una bava bianca e molto fumo, ma nessuna fiamma viva. Le legna furono cambiate tre volte, ma ogni volta si spensero, senza bruciare il turbante. Il signor di Poppi si faceva sempre più cupo e accigliato. Ormai non dubitava più che quel turbante fosse incantato e possedesse una virtù nascosta. - Gettatelo nei vortici dell’Arno, - ordinò ai suoi uomini. Ma appena ebbe espresso questo comando, il turbante volò in aria e andò a posarsi sopra uno dei merli ghibellini dell’altissima torre che si ergeva nel centro del castello, e vi rimase come inchiodato. Ora torniamo un passo addietro e andiamo a vedere che cosa era successo al vecchio dalla cappamagna, rinchiuso nella capanna del Diavolo. Egli non cessava d’invocare i suoi santi protettori, ma nessuno veniva in suo soccorso, perché la casa apparteneva al Diavolo, e in casa del nemico i santi non potevano operare miracoli. Il povero vecchio vedeva con raccapriccio calare il sole, poiché temeva che allo scoccar della mezzanotte il Diavolo sarebbe tornato a molestarlo. Ma passò la notte senza che nessuno si presentasse, perché Satanasso, nelle poche ore che poteva scender sulla terra, aveva altre faccende da sbrigare e doveva cacciar gli angeli bianchi dalla grotta di Montecornioli, e insediarvi i suoi angeli neri. Ma intanto la fame, e più il freddo, scemavano le forze del vecchio, e il Diavolo, abbandonandolo in quel modo a tutte le intemperie, aveva calcolato che alla fine il vecchio, sentendosi morire, lo avrebbe invocato, e così quell’anima sarebbe stata conquistata all’inferno. Ma il vecchio tenne saldo, e, finché ebbe fiato, invocò tutti i santi del Paradiso e per ultimo san Francesco, che aveva ricevute da Gesù le stimate sul fiero monte della Verna. Il gran Santo, che non aveva temuto il Diavolo sull’orlo del precipizio e si era abbrancato con fede al masso, il quale, fattosi molle come cera, gli aveva permesso di piantarvi le mani, non lo temé neppure in questa occasione, ed impietosito della sorte del vecchio, scese in terra sotto le spoglie di un fraticello cercatore del suo ordine, e salì il monte di Poppi. Giunto colassù, vedendo tutto il popolo radunato in piazza a mirare quel turbante posato sul merlo della torre, e udendo narrare le meraviglie avvenute a Montecornioli in quei due giorni, si diresse verso il castello e chiese del conte Guido. - Signore, - gli disse quando fu ammesso alla sua presenza, - odo che tu sei stato turbato da avventure soprannaturali; vuoi permettere a me, umil fraticello, di usare contro queste maraviglie il segno della salute? - Fa’ ciò che ti aggrada, buon frate, - rispose il conte, - e se tu riesci a liberarmi da quel fagotto di cenci che s’è posato sul merlo della mia torre, io farò larghe elemosine alla Verna. San Francesco andò sotto la torre, e alzando le palme, in cui erano i segni gloriosi della passione di Gesù, disse: - San Luca ti ha mandato qual messaggio di dolore; io ti comando d’indicarmi la via che conduce al tuo padrone, per liberarlo dall’eterno nemico. Appena il Santo ebbe pronunziate queste parole, il turbante scese dinanzi a lui e incominciò a volare lentamente nell’aria come un augello. I due dardi conficcati nel turbante dal signor di Poppi e dal signor di Lierna, gli facevano da ali. Il Santo si pose in cammino dietro al turbante e il conte Guido, meravigliato del miracolo, seguì il fraticello e traversò il paese, scese all’Arno e poi andò su per i monti boschivi fino alla capanna del Diavolo. Il conte Guido non era stato solo a tener dietro a san Francesco. I suoi famigli, i suoi vassalli e la gente che incontravano per via, ingrossava il corteo. San Francesco pregava a voce alta, e tutti quelli che lo seguivano rispondevano a quella prece. Le fiere uscivano dai boschi e si prostravano dinanzi al Santo; dalle cime dei monti scendevano gli uccelli a stormi e formavano uno stuolo, che precedeva la processione gorgheggiando come se la terra fosse stata coperta di erbe novelle e di fiori, invece che di neve gelata. Il turbante si fermò a poca distanza dalla capanna, e così fecero gli uccelli, le belve, il conte Guido e tutti i suoi terrazzani. Il fraticello si avanzò solo, e con la sua dolcissima voce, disse: - Che in nome del Signore, morto in croce per il suo popolo, tu sia liberato! Subito dalla capanna uscì il vecchio che aveva miracolosamente riacquistato l’uso delle gambe e del braccio destro, e si prostrò dinanzi al Santo piangendo di gioia. In quel momento la capanna incominciò a crepitare ed arse come un fascio di paglia. Mentre il popolo, che era caduto in ginocchio come il conte Guido, pregava, una nuvoletta bianca scese dal cielo, avvolse il fraticello e lo sollevò nell’aria. Il vecchio dalla cappamagna riprese il suo turbante e se lo mise in testa piangendo di gioia, e alzando le palme verso la nuvola bianca, che si perdeva nel cielo, esclamò: - Gloria a san Francesco! - Gloria! - risposero i terrazzani in coro. Il conte Guido allora si accostò al vecchio e gli rivolse la parola nella lingua d’Oriente, che egli aveva appresa da un monaco di quel paese, e lo invitò ad esser suo ospite, assicurandolo che gli avrebbe fatto un onore abitando il suo castello, poiché un uomo per il quale san Francesco scendeva dal Cielo, era una benedizione per una casa. Il vecchio accettò l’invito, e la lunga processione si rimise in cammino cantando le lodi del poverello d’Assisi, del gran Santo che proteggeva il Casentino. Nel castello di Poppi, il vecchio fu accolto con ogni riguardo dalla contessa, che era figlia di un altro Guido da Romena, signore di un forte castello verso Pratovecchio. La Contessa era giovine e molto bella e di un carattere così compassionevole che non poteva veder uccidere una mosca. Costei viveva in continue angustie a fianco del marito, uomo battagliero, che era sempre in guerra con i signori di Chiusi e Caprese, e con i castellani di altri luoghi forti sul versante dell’Appennino di Romagna. Ella non sapeva farsi intendere dal vecchio, perché non parlava la sua lingua, ma ponendogli sotto gli occhi il libro delle preghiere, che era scritto in latino, e accennandogli alcune parole, gli fece capire che sperava che egli riuscisse a distogliere il Conte dal guerreggiare di continuo ed a volger la mente del Signore, alle opere pacifiche dei campi e alle opere di carità, che meritano il Paradiso. Il vecchio promise il suo aiuto alla nobile dama e incominciò subito ad ammansire il Conte; ma questi, che già aveva dimenticato le sue promesse, noiato dalle prediche del vecchio, gli disse che nessuno aveva mai osato riprenderlo, e che, se continuava, gli avrebbe dato un bordone da pellegrino e lo avrebbe mandato con Dio. Al pio vecchio quelle parole arrivarono prima all’osso che alla pelle, e preso il bastone, come soleva per andare all’abbazia di San Fedele, scese al piano; quindi, mirando sempre il gran sasso della Verna, pian piano come glielo concedevano le sue gambe, alquanto intorpidite dall’età, salì a Bibbiena. Costì, fermatosi a pernottare in un convento, a giorno riprese l’aspra via. Ma il crudo inverno era stato cacciato dalla ridente primavera, e i boschi erano tutti coperti di erba fresca e di fiori odorosi. Il vecchio giunse senza intoppo alla Verna, e siccome fin lassù erasi propagata la fama del miracolo operato da san Francesco in favore del vecchio di Gerusalemme, come lo chiamava il popolo dei dintorni, così i frati lo accolsero festosamente e lo trattarono con ogni specie di riguardi. Ora avvenne che il conte di Lierna, che serbava sempre rancore al conte di Poppi, aveva riunito nel suo forte castello quanti uomini armati aveva potuto, e le sue fucine avean lavorato giorno e notte per preparare aste, lance, dardi ed altre armi. Quando credé di essere abbastanza forte per circondare d’assedio Poppi, fece alzare di nottetempo il ponte levatoio del castello, e, traversato l’Arno, salì quatto quatto con i suoi al forte dominio del conte Guido, e in quella notte stessa si diede a batter le mura e a lanciar dei sassi nell’abitato. I terrazzani si destarono sgomenti e corsero ad avvertire il conte Guido, il quale già era sveglio e armato, e disponeva i suoi uomini alla difesa. La Contessa pure era balzata dal letto, e, circondata dai figli, andava in cerca del marito; raggiuntolo, lo chiamò da parte e gli disse: - Signor mio, prima ancora che io fossi scossa dal sonno da questo trambusto, ho avuto una visione che debbo narrarti. - Non è tempo questo di ascoltare le parole di una femmina, - rispose il Conte con disprezzo, - ritirati nelle tue camere e lasciami fare. - Signor mio ascoltami, - insisté la Contessa. - Io ho veduto in sogno il poverello d’Assisi, il quale, mostrandomi le palme trafitte, mi ha detto: «Che ne ha fatto il tuo Signore del pio vecchio che gli avevo affidato? Sappi che egli era una benedizione per la vostra casa, e se il conte Guido non lo riconduce a Poppi, tutte le sventure si abbatteranno sulla sua famiglia, sulla sua casa, su tutti voi. Il conte Guido aveva promesso larghe elemosine alla Verna, e non ha mantenuto la parola. Io sono impotente a stornar da lui l’ira celeste». - Quando avremo battuto quel ribaldo conte di Lierna, penseremo ai tuoi sogni, - rispose il Conte, e spinse la moglie e i figli dentro una stanza, di cui tolse la chiave. La Contessa piangeva come una vite tagliata, ma nessuno l’udiva, perché ogni persona era intenta alla difesa del castello. L’infelice rimase in quella stanza fino a sera, ma in quel giorno il conte Guido vide cadere il fiore dei suoi soldati, e quando la moglie a notte lo rivide, egli non era più il baldo cavaliere della mattina, tutto infiammato dal desiderio della pugna. - Signor mio, - ella disse, - io non posso esserti di aiuto alcuno nella difesa del nostro castello. Lascia che, passando per il cammino sotterraneo, che è scavato nei fianchi del monte, io esca nell’aperta campagna e mi riduca alla Verna a portar le elemosine da te promesse al convento, e a supplicare il vecchio di Gerusalemme di tornar fra noi. - Va’, e che Dio t’accompagni! Quella notte stessa la Contessa spogliò i ricchi guarnelli di seta, trapunti di oro, tolse le gemme che le ornavano il collo e i polsi e, indossata una gonnella di mezza lana e un busto di panno, scese nei sotterranei del castello senza nessuna scorta, varcò l’Arno e s’inerpicò sul monte. Ella aveva le bisacce ben guarnite di gigliati d’oro, ma sotto quelle umili vesti nessuno supponeva si nascondesse la nobile signora, che vedevano di tanto in tanto cavalcare da Romena a Poppi e fino ad Arezzo, sulla giumenta bianca, riccamente bardata, e con numerosa scorta di cavalieri, paggi, valletti ed armigeri. Senza esser molestata da alcuno, giunse la pia donna al convento, e dopo aver deposta sull’altare della Cappella degli Angeli la sua ricca elemosina, fece chiamare il vecchio di Gerusalemme e lo pregò umilmente di seguirla, facendogli capire coi cenni più che con le parole, il pericolo che minacciava la propria casa. Il vecchio accondiscese alle preci di lei e, indossato il saio dei Francescani per non dar nell’occhio alla gente, scese insieme con lei al piano, e per il cammino sotterraneo giunse al castello. Bisogna sapere che il vecchio non aveva lasciato alla Verna la sua cappamagna né il turbante, perché gli rincresceva molto di separarsi da quei ricordi della sua patria. Egli aveva nascosto l’una e l’altro in una bisaccia, come usano portare i frati che vanno alla cerca. Appena che la Contessa e il vecchio giunsero al castello di Poppi, appresero che la giornata era stata ancor più funesta agli assediati che quella precedente, perché molti altri soldati del conte Guido erano caduti, e il signore stesso era stato colpito da un dardo alla spalla sinistra. Pallido e affranto, questi stava nella sala d’armi del castello. Allorché vide la sua donna e il vecchio, li chiamò accanto a sé e li ringraziò con grande effusione. - Che cosa mi consigli di fare, saggio vecchio? - domandò quindi allo straniero. - Eccoti il mio turbante, - rispose questi. - Sai come il conte di Lierna fuggisse quando lo vide sul ponte che è a valico dell’Arno. Ordina che questo turbante sia posto a una delle finestre del castello. Quando il conte Odeporico lo vedrà, toglierà l’assedio. - Che tu possa dire il vero! - esclamò il conte Guido. E quella notte stessa fece issare un’asta alla finestra centrale del castello, e in cima a quella ordinò fosse infilato il turbante. Allorché le tenebre furono diradate dal sole nascente e il conte di Lierna vide quel turbante in cima all’asta, disse: «Povero me; qui si combatte con armi disuguali; io col ferro, e il mio nemico con gl’incantesimi!», e come aveva predetto il vecchio di Gerusalemme, Odeporico riunì le sue genti, e tolse l’assedio in un battibaleno. Da quel giorno nessuno osò più molestare il conte di Poppi, che si diceva in possesso di un talismano, e la Contessa visse tranquilla finché la morte non la colse. Il vecchio di Gerusalemme l’aveva preceduta nella tomba, e il conte Guido gli aveva fatto erigere un mausoleo nella cappella del castello. Il turbante poi era stato rinchiuso in una cassa d’argento di lavoro pregevolissimo, e i conti Guidi lo conservarono nel tesoro di famiglia finché il conte Francesco fu battuto da Neri Capponi, capitano de’ fiorentini, il quale lo portò a Firenze con le altre robe.

    - E qui la storia del turbante è finita, - disse la Regina, e se mi sono scordata di qualche cosa, Cecco ve l’aggiunga. - Di nulla, mamma; voi la raccontate ora come vent’anni fa. - Come trentacinque! - ribatté Maso, - e io provo piacere a sentirvi ora, come quando ero alto quanto un soldo di cacio. - Anche noi ce l’abbiamo il nostro turbante, il nostro talismano, - disse Cecco battendo una palma sull’altra, - e non saranno di certo i fiorentini che ce lo porteranno via! - E qual è? - domandò la vispa Annina. - È la nostra vecchietta, la nostra mamma, che Iddio ce la conservi! Ora bevete un buon bicchieretto di vino, perché dovete aver la gola secca. - E preso il fiasco ne mescé prima alla Regina e poi agli altri. Quando tutti i bicchieri furono colmi, Maso per il primo alzò il suo e disse: - Alla salute del nostro talismano! I fratelli, i bimbi e le nuore fecero coro al capoccia, e dopo essersi trattenuti un altro po’ a ragionare del più e del meno, i Marcucci se ne andarono a letto e tutti i lumi si spensero al podere di Farneta, sul quale vegliava la concordia e la pace, meglio che il turbante del vecchio di Gerusalemme sul castello del conte Guido di Poppi.




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