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Ernesto Ragazzoni
I bevitori di stelle
a Leonardo Bistolfi
Le notti che non c’è la luna,
le lucide notti d’estate
che il cielo la terra importuna
col lampo d’innumeri occhiate,
— occhiate di stelle! — e le cose
(che troppo si sentono addosso
le tante pupille curiose)
mal dormono un sonno commosso,
è allora che vengono fuori,
e, a un fiume che sanno, in pianelle,
s’avviano giù i bevitori
di stelle per bere le stelle,
le stelle piovute in riflessi
nell’acqua. Bocconi, alla scabra
si gittano, sponda, e sott’essi
han liquido un cielo alle labbra.
E bevono, bevono e dalla
profonda quïete del fiume
si vedon fiorire essi a galla
— offerto al lor giubilo — il lume
dei mondi lontani, e le ghiotte
sorsate s’affannano a bere,
nell’acqua ove nuota, la notte,
il fosforo e l’or delle sfere.
Le turbe beate son esse
di quelli che vivon di sogni,
d’azzurro, di terre promesse,
di limbi siderei, d’ogni
castel che si dondola in aria,
di quei che le fate morgane
richiaman con nuvola varia,
e le principesse lontane.
Ma non — a purpuree treccie
d’audaci comete afferrati —
si lanciano a schiudere breccie
nel ciel, verso cieli ignorati,
non essi, con tese le scotte,
frugando lontano per l’onde
vedranno balzar dalla notte,
nell’alba le nuove Golconde;
non mai, con lo scettro nel pugno,
(re magi orditori d’incanti),
trarranno le rose di giugno
dal grembo dei verni tremanti.
Se cercan di là dalla vita,
di là dalla meta altre mète,
se l’anima dolce han smarrita
a caccia di nubi, ed han sete
d’azzurro, di terre promesse:
di limbi siderei, d’ogni
miraggio che in aria si tesse;
è sol per gonfiarsene i sogni.
Flemmatici Ulissi, argonauti
che insegne d’ostiere han per bussola,
e donchisciottini ben cauti
impantofolati di mùssola,
così piano piano, uno ad uno,
levatisi tardi da pranzo,
sen vanno — nel grado opportuno —
a beversi un po’ di romanzo.
Tra i nembi a ghermirsi il suo mondo,
per gioghi intentati altri salga;
più giova cercarselo al fondo
d’un flutto, tra qualche fil d’alga;
e quelli — a portata d’un sorso —
d’ebbrezze ne han mille milioni,
(quanti Aldebarani in lor corso
mulinano i cieli, ed Orioni!)
E bevono, bevono, e i diacci
sommersi fantasmi degli astri,
per loro han più fascini e lacci
degli astri viventi, i grand’astri.
Borbottano l’acque. Dai margini
s’allungan le lingue volubili,
e l’ugole, libere d’argini,
esultan di liquidi giubili.
Gorgogli, glu-glu (giù pei vicoli
dell’epa) di gocciole garrule,
arpeggi qua e là — dai ventricoli —
di blandule bolle bizzarrule.
Aneliti come d’armenti
raccolti ad abbeveratoi,
sospiri, sussulti repenti,
d’alcun che tropp’avido ingoi.
Null’altro nell’ombra s’intende;
null’altro, se non questa sola
orchestra di fauci in faccende,
stromenti ineffabili a gola.
E quelli tracannano, e dalla
profonda quïete del fiume,
fiorisce lor tremulo a galla
il ciel col suo fervido lume.
Ma vedi, miseria! La stella
che in gocciola al labbro s’approccia,
al labbro si nega e ribella,
tal bacio che s’offre, e non sboccia.
Eppure — mirabile caso! —
allora che levano in suso
il mento i beventi, ed il naso,
un cielo in lor credono chiuso,
e (quasi s’avessero i mondi
davvero vibranti e commossi
nell’acqua de’ lor ventri tondi,
com’entro un boccal, pesci rossi),
si rizzano in piè, trïonfali,
ed empiono l’ombra di ciancia,
strillando i sublimi ideali,
di cui hanno gonfia la pancia.
Ognun sembra in estasi, ognuno
par preso da dolce delirio:
— Mi sono bevuto Nettuno!
— Mi scende nell’ugola Sirio!
— Me Venere inzuppa! — Portento,
traspiro Mercurio! — Ed io Marte!
— Io l’Algol del Pérseo sento
filtrarmi nel cor da ogni parte!
Io Giove! — Altair! — Vega! — Arturo!
È quasi una gara. Un signore
strillando proclama: — Vi giuro,
che in corpo ci ho l’Orsa Maggiore!
— Che buona, Alcïone! — che aroma
fermenta la Vendemmiatrice! —
— È come un sciroppo, la chioma
sidërea di Berenice!
— Per me, questo infuso di sfere
virtù diuretiche ha rare...
— Sui piedi — volete vedere? —
vi sprizzo la Stella Polare... —
Le voci s’incalzano, e un dotto,
il labbro leccandosi tumido,
proclama che non c’è decotto
che valga un Empireo in umido...
Le Jadi, le Pleiadi, l’Orse
e le nebulose; i zodiaci,
là in alto non tremano forse
quant’ora, in quest’otri elegiaci?
Così, cotti a punto, i compari,
(fradici di poësia)
esaltano in lieti parlari
il ciel divenuto osteria...
Poi tutti (li vidi una volta)
si danno a una danza simbolica,
coll’arte e la grazia raccolta
d’idropici ch’abbian la colica;
idillici grilli un po’ brilli
fra i timi squillando — per loro! —
un trito concerto di trilli,
sottile zampillo canoro.
Li vidi una volta... E «Ben giunto»
— l’un d’essi mi disse — «fra noi...
L’inter firmamento abbiam munto...
Ma ancor stelle restano. — Vuoi?
«Vuoi tu con noi scendere? Mentre
sei qui, puoi levartene l’uzzolo.
Mi senti un tintinno nel ventre?
Son stelle sonanti. Ne ho un gruzzolo.
«Ve n’hanno di bianche, di gialle,
di rosse; infinite ne sgorgan,
assai più che dòllari dalle
scarselle di Carnegie e di Morgan.
«Ti basta piegare la schiena
e mettere fuori la lingua;
così vai agli astri, e d’avena
celeste così ci s’impingua...».
Parlava, ed or quella ed or questa
di stelle m’offerse: una ad una...
Ma dissi di no. — Nella testa,
ci ho già, che mi gira, la luna...