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Ernesto Ragazzoni
Il mio funerale
Quando, uditemi amici, quando avvenga
che questa che mi rosica cirrosi
il fegato e dintorni m’abbia rosi,
come cirrosi fa che si convenga,
quando il medico, chiusa la sua cura,
ordinerà «portatelo pur via!»,
io voglio, per andar a casa mia
sottoterra, una magna sepoltura.
Ravvivatemi a tocchi di carmino
sapientemente la figura smunta;
questo fate, e indoratemi la punta
del naso e spruzzolatemi di vino
odoroso, che non m’abbia più l’aspetto
di un comune cadavere, e i capelli
fatemi tutti di vïola belli
e un non mai visto m’abbia cataletto.
Trascinino la mia spoglia mortale
sei porcellini tinti in verde e giallo
e Francesco Pastonchi, alto, a cavallo,
proclami «Che stupendo funerale!»
Cento musici in abito d’arconte
annunzino la mia corsa a Plutone
soffiando ampi venti di polmone
in cave corna di rinoceronte.
E cento bande strepitino poi
di strumenti impensati, impreveduti:
clisocorni, arcoflauti, fiascoimbuti,
trombicefali ed arpe-innaffiatoi.
Accorrano le turbe al pio passaggio
e a strilli, ad urla, a voci mozze e mezze,
si narrino le mie scelleratezze
e mi paia d’udire il lor linguaggio:
«Era il Gran Kan, il Padiscià degli orsi,
«Dei Bramini ridea, come di paria
«Era padrone di un castello in aria
«E si beveva il cielo in quattro sorsi
«Viveva nei più luridi angiporti...
«non aveva la testa troppo salda...
«Mangiava il cardo con la bagna calda
«di notte in compagnia di beccamorti.»
Infine sempre mi si tolga al sole
in una cripta, a un labirinto in fondo;
e tutti quanti i fior che sono al mondo,
tralci di rose, cespi di vïole,
effondano la loro primavera
fin giù nel buio delle mie caverne.
Ma siccome son io ch’ho da goderne,
i miei fiori piantateli in maniera
che le radici siano volte in alto
e le corolle sboccino sotterra...
Di sopra al sasso poi che mi rinserra
questa epigrafe scrivasi in ismalto:
«Qui giace ERNESTO RAGAZZONI D’ORTA
«nacque l’otto gennaio mille ed otto-
centosettanta» e sotto, questo motto:
«D’essere stato vivo non gl’importa».