Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Ernesto Ragazzoni

    Le nostalgie del becco a gas

    Oh, il faro elettrico,
    re della sera,
    quello ha fortuna!
    Non egli immagine
    — sia pur leggera —
    è della luna?

    La via, nel nitido
    suo vel di perle,
    sembra una sala
    da ballo. — Diafane
    garze, e vederle
    come bengala!

    Quanto a me, un umile
    fanale io sono,
    tremulo, a gas;
    un paria, un’anima
    nell’abbandono,
    molto Ruy Blas.

    Scialbo m’accoccolo
    tra sonnolente,
    livide mura;
    e solo illumino
    un qualche agente
    della Questura!

    Talora un ebete
    che fa all’amore
    sotto i balconi;
    oppure un Lazzaro,
    raccattatore
    di mozziconi,

    l’ebbro che dubita
    della sua porta
    — stolto! — e gli scaltri
    che invece trovano,
    con mano accorta,
    quella degli altri.

    Bacivendugliole
    che, sul selciato,
    stancano il tacco
    e senton l’alcool
    mal tracannato,
    ed il tabacco.

    Ed anche i triboli
    delle stagioni,
    tutti conosco!
    La pioggia, il nugolo
    degli aquiloni
    l’inverno fosco;

    e fino i pargoli
    (da Roma a Jeddo,
    e viceversa)
    sanno che l’esile
    mio lume ha freddo
    se il gel l’avversa!

    Persino gli uomini
    (la gente ch’io
    guido la notte)
    per loro collera,
    per spasso rio,
    mi dan le botte.

    A me i suoi ciottoli,
    ogni momento,
    lancia il monello;
    e a dire i popoli
    lor malcontento,
    fan come quello!

    E s’essi, — torbidi
    per qualche abbaglio —
    la piazza attira,
    l’indispensabile
    son io bersaglio
    della lor ira.

    Oh quanti i popoli,
    per i supremi
    loro ideali,
    sassi scagliarono
    ed anatemi
    su noi, fanali!

    E nuovi turbini
    pel mondo sento
    minacciar tetri,
    ed ho un tristissimo
    presentimento,
    per i miei vetri.

    Già sento infliggermi,
    a mani dure,
    tutto un selciato.
    Ebbene, brontolo:
    — Ma faccian pure,
    son sì noiato! —

    M’annoio. Dicono
    che in certa tale
    rossa stagione,
    un tempo avevasi
    pel buon fanale,
    qualche attenzione.

    Sovente, ad opera
    di giustiziere
    ero invocato,
    e il mio riverbero
    s’ebbe il piacere
    d’un impiccato.

    «Ça ira», vociavasi:
    «Alla lanterna!»
    O tempi! O quadri!
    Vedessi io pendermi
    — giustizia eterna! —
    giù, certi ladri.

    Cert’epe sudicie
    di bottegai,
    figure grame
    che s’impinguarono
    (porci, usurai),
    sopra la fame!

    Ma no, m’accoccolo
    fra sonnolente
    livide mura...
    e solo... eccetera
    (già v’è presente
    la mia sventura).

    Le birbe corrono,
    (e senza allarmi)
    libere, il mondo,
    e invano io medito
    di consolarmi
    col loro pondo.

    Ah, ben m’è il barbaro
    destin, cocciuto!
    Ma più mi secco
    che un qualsiasi
    primo venuto,
    mi chiami «becco».




    POTRESTI ANCHE ESSERE INTERESSATO A


    © 1991-2024 The Titi Tudorancea Bulletin | Titi Tudorancea® is a Registered Trademark | Condizioni d'uso
    Contact