Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Federigo Verdinois

    Ida

    Quando la porta si chiuse, mi sembrò dal rumore che me la chiudessero sul cuore. Provai una fiera stretta, e un grande abbandono mi pigliò tutte le membra, come deve accadere a chi abbia bevuto o fumato un soporifero. Più che addolorato ero stanco; non volevo pensare, e quasi mi piaceva di soffrire, di raggomitolarmi sotto il mio dolore, sotto lo spasimo, come sotto una bella coperta calda. Sdraiato nella mia poltrona, avevo a destra il caminetto nel quale scoppiettavano gli ultimi ceppi, e una fiammolina azzurrognola andava vagando di qua e di là, staccandosi e attaccandosi, come per fuggire la soffocazione imminente della cenere.

    Essendo quel salottino il più bel posto di tutta la casa, vi si faceva un po’ di conversazione tutte le sere: lo zio, Ida, la signora Luisa, alcuni villeggianti de’ dintorni. Andavano via verso le nove, piuttosto prima che dopo, perché in campagna si va a letto presto e ci si leva col sole, se si vuol davvero vivere in campagna. Poi, partiti tutti, io apriva la finestra che dava sul giardino, stavo così un momento a pigliare una boccata di aria fresca, mi ritiravo in camera mia, ed a rivederci al domani.

    Che quella sera fossi addolorato era naturalissimo; e l’avrebbe trovato così chiunque sapeva delle nostre relazioni, di tutto quello che c’era stato prima tra noi. Ida ed io ci volevamo bene, e poi il bene s’era mutato in amore; un amore che non doveva finir mai, come tutti gli amori. Si stava in campagna, io con lo zio, lei con la mamma, in due quartini della stessa villetta: c’era anche fra noi non so che parentela, oltre a quell’altra che ci sarebbe stata appresso, e che nessuno ignorava. Ecco perché dico che ognuno avrebbe trovato naturale il mio stato e mi avrebbe dato ragione. Ci accordavamo così beni nei gusti, nei desideri, nei discorsi, perfino nelle parole, che eravamo veramente tutt’una cosa e non si potea stare l’uno senza dell’altra. Così sempre era stato, fin da bambini. Quando sentivo parlare, come si suole in ogni conversazione, di amori e di amoretti che si mutavano come le camice, e si barattavano da una mano all’altra come moneta spicciola, mi veniva da ridere e capivo subito che in quei casi lì non si trattava di amore. Anche Ida ne rideva qualche volta, e mi dava del matto per questi miei paragoni. Del rimanente non ci poteva essere amore fuori di Ida, ed era curioso che tutte quelle persone di cui si parlava non fossero innamorate di lei. Forse c’erano al mondo delle altre Ide, che io non conoscevo. Conoscevo tanto poco il mondo, e così poco mi premeva di fare la sua coscenza! Ida dunque mi amava ed io amava lei per tante ragioni tutte eccellenti, che se non ci fossero state l’avrei amata lo stesso; ed anche forse in piccola parte, perché si chiamava Ida, cioé con un nome romantico. Con questo però ella non era romantica niente affatto; invece ragionava molto bene, faceva con me degli stupendi disegni per l’avvenire, dei castelli in aria, mi consigliava, m’incorragiava, e così a discorrere di queste cose, passavamo insieme tutte le sere: perché di che altro si sarebbe parlato? degli altri? e chi erano gli altri per noi? In somma una vera donnina a modo. Qualche volta ci si bisticciava per un fiore chiesto e negato, per un nastro, per una parola, e poi si faceva la pace, ed ella ricadeva subito in pensieri, e si metteva di malumore, come se io avessi commesso qualche gran fallo: dubitava che la pace non fosse sincera, e per farla meglio, riappiccava la guerra sopra un niente di questo genere. Avea voluto, fra le altre cose, che io pronunciassi, tutte le sere e tutte le mattine, dieci volte di seguito il suo nome, perché, diceva, questo mi avrebbe portato fortuna, mi avrebbe dato animo a lavorare. Ed io ubbidivo tanto volentieri, e le confessavo poi scrupolosamente se l’avevo ubbidita o no, benché in qualche caso mentissi per la gola, come quando mi accadde, per esempio, per una naturale smemoraggine, di pronunciarlo da trenta a quaranta volte: ma, dopo essere stato un bel pezzo sulla corda, le spiattellai spudoratamente la colpa e la menzogna, ed ella me ne assolse abbandonandosi alla più matta allegria e se ne fece un gran ridere tutta la sera. In camera mia, tutte le mattine, trovavo dei fiori; un semplice mazzolino, colto allora allora, fresco, e che non si capiva in che maniera fosse penetrato in camera, per la porta o per la finestra o pel buco della chiave: ma io credo che il più delle volte me lo portasse dentro la cameriera, profittando del momento ch’io sonnecchiava ancora e non mi potevo accorgere di chi entrava o di quel che m’accadeva vicino. Ma erano scherzi e piacevolezze come portava la sua indole di bambina, e non c’era in tutto questo niente di romantico. Quando per caso la sorprendeva un senso di tristezza senza nessuna ragione apparente, se ne scendeva tutta sola in giardino, verso l’imbrunire, e se n’andava in fondo al viale più oscuro come per nascondersi agli occhi di tutti. Là, si metteva a sedere sopra una panca di marmo, presso la fontana, e non voleva in nessun modo che la si disturbasse. Pensava, si tormentava, era pallida, sfogliava un fiore, forse piangeva, fuori o dentro di sé.

    Ma in somma non era romantica niente affatto; e da questo lato io era perfettamente tranquillo; quando guardavo all’avvenire, alla mia professione, a tutte quelle facende nelle quali si ha bisogno di gran fredezza di mente, di ponderazione, e di aver con noi una testa che pensi con noi e per noi.

    Ma un caso come quello lì non era avvenuto mai, epperò io n’ero tutto conturbato ed abbattuto. La mia grande tristezza l’avevano notata tutti, perché io non mi so vincere e mi si legge in viso come in un libro. Che Ida fosse mutata di botto non si poteva supporre; e d’altra parte nulla c’era stato dal canto mio che giustificasse quello strano contegno: forse dal canto suo, sì; ma che cosa? ma perché? ma in che maniera? ma dunque tutto era finito fra noi? Basta dire che mentre stavamo seduti vicino, come al solito, si era levata di scatto ed era andata a sedere lontana da me, e tutta la sera aveva avuto il coraggio di starsene lontana, mentre sapeva benissimo - ed io glielo aveva detto tante volte - che quando non me la vedevo vicina, ne soffrivo assai, come se l’avessi perduta. Non mi bastava guardare da lontano, e a vederla a parlar con altri o guardare in altra parte, mi faceva un certo effetto come se un pezzo mi si staccasse dall’anima. Le avevo poi domandato, andandole vicino, che cosa avesse, e mi aveva risposto senza sorridere di non aver niente e che non capiva che mi volessi dire. Naturalmente, ero tornato al mio posto più sconfortato e desolato che mai. Di più, la mattina stessa l’avevo veduta in giardino, stando io alla finestra, e mi aveva salutato come al solito. Stava presso la fontana e s’era mossa dalla mia parte per parlarmi, ed io le avevo fatto segno che sarei subito disceso per raggiungerla. In effetto, lasciando la mia finestra m’ero slanciato fuori della camera; ma poi, nel momento che mettevo il piede sulle scale, mi aveva fermato lo zio che tornava non so più di dove e m’aveva fatto un certo suo discorso di affari gravi, appoggiandosi al mio braccio e riconducendomi dentro. Sicché non avevo più potuto scendere, e la povera Ida aveva aspettato inutilmente. Forse era stato questo; ma infine io gliene avea chiesto scusa, gliene avea detto il motivo; e non c’era da pigliarsene tanto, specialmente essendo ella così ragionevole come io l’aveva sempre conosciuta.

    Ed ora tutto ad un tratto, mentre ci volevamo tanto bene, ecco che Ida mutava; e non calcolava neppure che, così facendo, m’avrebbe fatto passare una nottata terribile; il che, senza dubbio, dava a vedere un cattivo cuore, una specie d’insensibilità, cosa della quale non m’ero accorto fino allora. In verità, quando eravamo bambini, io le dicevo sempre, scherzando: - Io sono lo scultore, tu sarai la statua.- Ed ella piccina com’era e proporzionata, se ne stava immobile in un atteggiamento studiato, né batteva palpebra, né muoveva muscolo del bel viso; aveva scolpito sulle labbra semiaperte il sorriso né di una linea lo mutava; non rifiatava pareva inchiodata in terra; era impietrita la vestetta bianca, erano impietriti gli stessi capelli sui quali passava invano l’ala del vento. Era bianca bianca. Io le giravo intorno, scimieggiando l’artista che si contempla tutto soddisfatto l’opera sua; e quando, per riscuoterla, facevo atto di prenderle le mani, gliele trovavo fredde come di marmo. Ma, in somma, conoscendo il mio carattere, perché mai tormentarmi a quel modo? La vedevo ancora e le parlavo, perché non mi facevo capace ch’ella fosse andata via dandomi appena due dita della mano. E poi la rimproveravo, le facevo mille domande, riuscivo a farla sorridere, e tutta la gran tempesta finiva in un bacio. Una gran tempesta come sono quelle dell’Oceano, come qualche volta, da bambini, ne avevamo fatto nascere nella fontana del giardino per veder sommergere miseramente delle flotte di carta che avevamo fabbricato insieme coi giornali dello zio. Era un Oceano in piccolo, questo si capisce. In fondo al viale c’era, come ho detto, questa fontana, con la vasca scavata in terra e intorno una ringhiera di ferro a bastoni diritti. Nel mezzo sorgeva uno scoglio, tutto adorno di larghe e verdi ninfee, e dal fogliame e sopra il sasso usciva un puttino di marmo che vi stava seduto molto comodamente, nudo come se nessuno lo vedesse. L’ho da dire?...

    Ebbene sì; il puttino era il ritratto preciso della mia Ida; ed ella mi diceva spesso, sapendo di farmi arrabbiare: - È mio figlio, sai -. Teneva la destra e un po’ indietro con un boccale inclinato, dal quale scaturiva un getto abbondante cadendo in un gran piatto spaso, ch’ei reggeva con la sinistra, e riservandosi di fuori, prima in una bella frangia d’argento poi in una pioggia sottile e brillante. Alzava un po’ il capo e guardava a quello zampillo con occhio curioso; e per questo si trovava a dover torcere il busto con una grazia infantile e con tanta movenza che poteva parere di carne. Poi, il sole, l’acqua, l’erba, il tempo gli avevano dato un colore vivo, una tal quale trasparenza che accrescevano l’illusione. D’inverno, quando gelava, accadeva sovente che gelasse anche lo zampillo e dall’orlo del piatto pendessero tanti diacciuoli lucidi come argento e acuminati come aghi; l’acqua della fontana si faceva liscia e dura come uno specchio e allora lo stesso puttino pareva di neve. Ma al primo raggio di sole, dimoiando, si sarebbe detto che anche il puttino si sciogliesse da quell’intirizzimento, e gli si vedevano sul corpo certe ombre e certi riflessi che a dirittura lo facevano muovere.

    Mi fisavo con la mente in queste immagini, perché ad ogni modo mi volevo distrarre dal pensiero cruccioso del momento; e forse questo medesimo sforzo accresceva la mia sposatezza e quasi mi chiudeva gli occhi al sonno. Sarei andato a letto, ma guardando per caso all’orologio sulla mensola del caminetto, avevo visto che erano appena le nove: una buona diecina d’ore per giorno chiaro; avrei passato una pessima nottata. Mi stirai nelle membra mi adattai meglio con la persona contro la spalliera della poltrona, e pensai che anche questa poteva passare per un letto eccellente. Ad un tratto, mi sentii un’aria fresca alle spalle, anzi mi parve proprio che qualcuno mi soffiasse nel collo. Mi voltai. Era la porta rimasta socchiusa. Mi alzai pigramente per andare a chiudere e tornare subito al posto: ma poi, non so come, macchinalmente, mi sentii trascinato ad uscire. Traversai una camera, poi un’altra, poi un’altra ancora, sentii da capo il fresco che questa volta mi soffiava sulla faccia, e mi accorsi con molta sorpresa di essere disceso in giardino. Ecco il viale, ecco la fontana là in fondo. Ebbene, andiamoci. Andiamo a pensare. Era una bella serata, calma, asciutta, con un cielo limpido e tante stelle che tremolavano come pel gran freddo. Mi pareva vederle a specchiarsi nel cristallo dell’acqua. Si sa, erano fantasie, ma il fatto è che io le vedevo e le contavo. Il puttino bianco era là sul suo scoglio, versando acqua dal boccale, e quel rumore assiduo e monotono della cascatella mi accarezzava l’udito, e negli sprazzi dello zampillo che percoteva nel piatto vedevo scintillare tante altre stelle che s’andavano a gettare ed a spegnere nella fontana. Uno spettacolo incatevole, come se ne vedono nei sogni. Non so dire adesso se il mio fosse un sogno; sapevo di stare a occhi aperti e sentivo di pensare con la testa mia. Bambino com’era quello lì dello scoglio, doveva piacere anche a lui lo spettacolo e forse si andava figurando che quelle stelle gli uscissero dalle mani e fossero cosa sua: stava immobile, col mento in su. Così pure era Ida, quando da bambina faceva la statua. Lo guardai bene in viso: era di marmo, ma sorrideva. Gli luccicavano gli occhi maliziosi. Gli scendevano abbondanti i capelli per le guance; e per effetto dell’ombra o di altro che fosse, parevano neri come quelli di lei. Ora più che mai quel marmo si poteva scambiare per carne. Certo è che a poco a poco, fisandolo sempre, lo vidi in certo modo animarsi. Niente di strano, poteva anche essere una illusione, anzi era certamente. Pareva che volesse scendere dalla sua base, che ci stesse a disagio. Mosse prima un braccio, poi una gamba. Tornai a guardarlo in viso, e più che mai lo vidi sorridere; i capelli erano proprio neri; un lieve incarnato gli copriva le gote; gli occhi splendevano come quelli di lei; anche la piccola persona avea preso linee più dolci, più femminili e, per naturale pudore, s’era andata facendo una veste capricciosa delle foglie stillanti delle ninfee.

    Poteva mai essere lei? Io non dormivo. Il puttino non era più al suo posto. Ida, tutta incappucciata, stretta nello scialle, con la sua cara vivacità temperata dalla malinconia, con quei suoi occhi pieni di luce che parlavano e mi ricercavano l’anima, mi pose una mano sulla spalla, e prima ch’io pensassi a muoverle un rimprovero, mi pregò a bassa voce che non facessi il cattivo, che le perdonassi.

    Mi promise che non l’avrebbe fatto più.

    Io la guardavo e stupivo. Era quella la sua persona; eppure non poteva esser lei, in quel luogo, a quell’ora, come in un sogno.

    - Che è stato? - le domandai trepidando.

    Dubitavo che rispondesse, di nuovo volevo sentirne la voce.

    - Nulla - rispose. - T’ho veduto così triste e non m’ha dato l’animo di domandartene il perché. Ora però me lo dirai. Che avevi?

    - Io? nulla. Ero triste perché non t’avevo vicina e ti credevo sdegnata -.

    Mi guardò co’ suoi occhi lucenti e tranquilli, quasi due stelle inchiodatele in mezzo della fronte.

    - Sdegnata? - esclamò. - E di che cosa?

    - Di nulla, di nulla, non è vero, Ida? -

    Sentivo il bisogno di afferrarle la mano, di toccarla e di sentirla. Mi prese un riso nervoso, al quale ella rispose ridendo. Che follie erano le nostre! Tanto valeva parlare. Ci promettemmo solennemente di non farlo più, senza sapere con precisione che cosa non si dovesse fare. Eravamo contenti, ed ella si appoggiava e si stringeva al mio braccio e mi andava ripetendo a bassa voce di volere essere perdonata. Di che cosa? Ci amavamo. Rientrammo insieme, ed io la vidi che spariva nelle sue camere, camminando in punta di piedi per non far rumore e non essere sgridata dalla mamma. L’aria della notte le avrebbe potuto far male. Dal fondo del corridoio mi salutò mandandomi un bacio e la buona notte. - No - dissi - non me lo mandare. Dammelo -. Tornò correndo alla mia volta. Nessuno ci poteva vedere. Me la strinsi forte al cuore e le diedi un bacio. Era freddo. Tutta lei era fredda. Ritentai la prova, prendendola per le mani. Non rispose alla mia stretta, sentii che mi sfuggiva. In verità - fremo anche adesso in pensarlo - io avevo dato un bacio a due labbra di marmo. Alzai gli occhi verso lo scoglio. Il puttino di marmo era tornato al suo posto e non si moveva; versava le stelle nel piatto; sorrideva come lei: e l’acqua della fontana era liscia come uno specchio, tranquilla, morta.

    Era tornato in camera mia e sulla mia poltrona. Come?... non so. Avrei pensato volentieri di aver fatto un brutto sogno, se ancora non mi avesse gelato le ossa il freddo dell’aperto, e più terribile, più penetrante, il freddo di quel marmo. Sì, era stato un sogno. Volli leggere, presi un libro, lo buttai all’aria. Il fuoco del camminetto s’era spento. Mi raccolsi meglio nella poltrona, e col capo piegato da una parte stetti a guardare nelle brace con gli occhi fisi e sorridendo. Sorridevo di me stesso, dello strano mio caso, del sogno, del piacere che avrei provato nel contarlo a lei il giorno appresso. Purché non mi serbasse più il broncio... L’avrei condotta in fondo al giardino, presso la ringhiera, per rinnovar la scena tale e quale... Anche il bacio ci doveva essere... Che avrebbe detto il suo figliuoletto di marmo?... Ah, ah!... A poco, a poco, mi addormentai di un sogno angoscioso, e tornai a vedere in sogno il puttino, Ida, le stelle e l’Oceano in miniatura.

    * * *

    Quando fu fatto giorno, volli ancora vederlo. Aprii la finestra, guardai in fondo al giardino, mi fregai gli occhi come per destarmi meglio. Nulla vidi. Dico che il laghetto era sempre là, calmo e scuro, e in mezzo al laghetto lo scoglio tutto verde dalle ninfee stillanti. L’acqua veniva fuori dallo scoglio, gorgogliando come da una polla. Il puttino non c’era più... Cercai il motivo di quell’assenza, che al primo colpo mi faceva tanta impressione, e lo trovai di lì a poco. Era il più naturale motivo del mondo. La nottata aveva dovuto essere burrascosa. Un colpo di vento aveva abbattuto il povero puttino, spezzandone un braccio e la brocca sulla ringhiera di ferro. Giaceva in mezzo all’erba, col viso rivolto al cielo, raggiante al primo sole, sorridendo sempre.

    Stavo per riscuotermi dalla muta contemplazione e per scendere in giardino, quando mi colpì non so che rumore di passi e di voci.

    A quell’ora della mattina, la cosa era insolita. In fretta, uscii a vedere. Mi passò davanti, correndo con in mano un vassoio, Rosa la cameriera. - Rosa! - chiamai - Rosa, dico! Che è stato? Non mi rispose, non si voltò alla mia voce. Le corsi dietro, arrivammo nel momento stesso davanti alla camera della mia Ida. Mi si voltò contro, respingendomi: Non entrate - gridò - non si può; la signorina è ammalata -. E disparve.

    Tutto il giorno, me ne stetti lì in un cantuccio, anelante, sempre in orecchi. Per quanto pregassi, non ci fu modo che mi si permettesse di entrare. Di tanto in tanto, qualcuno veniva fuori da quella camera - non so chi, perché non riconosceva più nessuno - e mi diceva di non dubitare, che non c’era pericolo di niente, che andassi via. Non potevo, tutta la mia vita era là, in quella camera, in quel buio, dietro le cortine di quel letto. Non avevo più coscienza del tempo. Con un moto involontario delle labbra contavo da uno fino a cento, cinque e dieci volte. Aspettavo dopo non so cosa. Quella costante ripetazione di numeri mi pareva una preghiera.

    Sul tardi, venne il dottore. Lo seguii con gli occhi prima e dopo; non ebbi cuore d’interrogarlo. Poi tornò ancora altre ed altre volte; avevo imparato a riconoscere il passo discreto; lo vedevo passare come un’ombra; scomparire in quella camera, riapparire e sparir di nuovo. Quanto tempo rimasi a quel posto? quanti giorni erano passati da quella notte? come fui scardinato da quell’angolo e trascinato in camera di lei? che mano fu quella che mi menò presso le bianche cortine e mi fece chinare su quel letto di dolore?...

    Erano gli ultimi momenti. Ida moriva. Mi fisò in volto gli occhi grandi, appannati, tranquilli, quasi distraendoli dalla visione di un altro mondo più vasto e più tenebroso. Mi sorrideva sempre col suo sorriso da bambina, con le labbra pallide, co’ dentini bianchi, più marmorea che mai. - Senti! - mi susurrò con un filo di voce, e perché la udissi meglio nella intimità di una lugubre confessione, mi trasse a sé appoggiandomi dietro il capo una manina scarna e fredda - senti, io t’ho sempre voluto bene. L’alito di lei mi gelava la faccia, le tremavano le labbra, sempre più bianche. Un nodo mi facea groppo alla gola; volli parlare; non seppi; ruppi in un singhiozzo interno che mi spezzava il petto. - No - disse con voce più fievole - tu non devi piangere. Io starò sempre con te, sempre. Ecco -. E le nostre labbra si congiunsero in un bacio di addio; e il gelo di quel bacio mi ricercò tutta la persona, mi fermò il sangue, mi penetrò fino al cuore. Con uno sforzo mi strappai da quella mano che mi teneva avvinghiato. Guardai Ida: era morta. Sorrideva sempre, mi fisava sempre con gli occhi spalancati e senza luce.

    Mi ricordo in confuso di un gran pianto che suonò per tutta la casa: ma non so dire se fosse il mio o di altri. Mi ricordo di un incubo crudele, con certi canti monotoni che mi suonavano all’orecchio, con un fiammeggiare di ceri giallognoli davanti agli occhi, con tanti colpi di martello che mi rintronavano nel cuore. Poi non mi ricordo altro. Un sonno interminabile, simile alla morte, mi tenne. Tornai alla vita debolmente, a grado a grado; ma anche questa vita era manchevole per qualche parte, forse a motivo della lunga e dolorosa convalescenza. Il dottore mi garantiva una completa guarigione. Io non gli prestavo fede, perché ero ben sicuro del contrario, perché il sangue non mi batteva nei polsi, perché mi sentivo sempre sulle labbra quel bacio marmoreo dell’addio, che mi avea penetrato le carni e mi aveva assiderato il cuore. Né il cuore si scaldò più mai da quel tempo. Ida stava sempre con me, e il mio cuore s’era fatto di marmo.

    Tutti gli anni torno in campagna e in quella medesima cameretta. La sera, apro la finestra e guardo in fondo al giardino. Il piccolo Oceano è sempre là, calmo e scuro, col puttino bianco sullo scoglio, con le verdi ninfee tutt’intorno, con lo zampillo che sparge le sue stelle in mezzo alle tenebre della notte.


    Racconti inverisimili di Picche, 1886




    POTRESTI ANCHE ESSERE INTERESSATO A


    © 1991-2024 The Titi Tudorancea Bulletin | Titi Tudorancea® is a Registered Trademark | Condizioni d'uso
    Contact