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Federigo Verdinois
Il conte di Montoro
La contessa chiamò con voce soffocata:
- Rosalia! ... il capellino, i guanti, l’ombrello. Rosalia, dico! -
Era pallida, nervosa, febbricitava. Con mano tremante s’annodò i nastri del cappellino col fiocco di traverso. Si strappò dal dito un anello, lo scagliò lontano con atto di sdegno, uscì furibonda dal salotto, senza guardare in viso al conte, passandogli davanti come un uragano, lasciandolo solo.
Il conte le tenne dietro con una occhiata serena e curiosa, come niente fosse. Non si scrollò dal suo posto, non aprì bocca. Sbozzò un sorrisetto e s’arricciò i baffi.
- Poverina! - borbottava, e s’andava gingillando co’ ciondoli dell’orologio. - L’aria aperta della campagna le farà un po’ di bene. Tutte le donne sono così, vaporose e cervellotiche -.
Uscì dal salotto, traversò varie sale alte e sonanti, diè un’occhiata ai suoi maggiori che lo guardavano dall’alto delle cornici e se ne andò difilato nella camera da bagno. Era un Romano moderno; mezza vita sua la passava in acqua: aveva della propria persona quella cura gelosa che rivela una raffinata aristocrazia di abitudini più che di sangue.
Dopo il bagno, sempre aiutato dal suo fido Andrea, si profumò, si vestì, si attillò. Mentre rotolava fra le mani una sigaretta, un domestico venne ad annunziare che la carrozza del signor conte era all’ordine. Accese la sigaretta, prese il cappello dalle mani di Andrea, si guardò due o tre volte in un alto specchio di Venezia, e poi si mosse senza fretta. Traversò di nuovo, con andatura indolente, le sale istoriate, tenendo in mano rispettosamente il cappello al cospetto dei suoi maggiori attaccati alle pareti. Le volte antiche e maestose echeggiavano stranamente allo scricchiolio misurato degli scarpini moderni. Il conte discese lo scalone, davanti al quale lo aspettava il suo elegante carrozzino, montò svelto sulla serpe, raccolse sapientemente le guide, e dopo una dotta girata nell’ampio cortile, partì al trotto dei suoi generosi roani.
* * *
È molto probabile, benché nessun documento ce n’abbia tramandato quella infallibile maestra delle nazioni che è la storia, e le cronache portino su questo punto un riguardoso silenzio, è molto probabile che molti anni prima, anzi molti secoli, le cose non camminassero precisamente come camminavano ora nel castello. Allora forse c’era la castellana, c’era il signore del luogo, e il paggio malinconico, e l’abate severo, e i cavalieri ospiti, e i bravi tumultuosi e ossequenti, e le lunghe veglie davanti al camino monumentale dai ceppi fiammeggianti. Quando allo stemma che incombeva sul frontone del palazzo, quasi guardando superbamente dall’alto in basso chiunque osasse passarvi di sotto, non aveva ancora recato alcuna offesa la mano del tempo; quando quei merli che ne incoronavano la fronte non erano stati pigliati per addentellato ad un secondo piano e gli schizzi irreverenti della calce non avevano ancora deturpato le bozze scure e severe della muraglia di sotto; quando destrieri generosi ed impazienti strappavano la fune che li riteneva alle medesime campanelle dove ora s’attaccava la mula dell’ortolano o il somaro carico di paglia: è molto probabile che una vita ben diversa da quella presente si menasse al castello. È probabile che lo sfoggio vi fosse grande, che ai conviti succedessero le danze, che nobili dame e galanti cavalieri si sperdessero a passeggiare poeticamente nel folto del parco, che in questo parco suonassero alti i latrati dei cani al guinzaglio o che di sera si udissero i concerti di una musica soave portata nelle barche sulle onde unite del lago. Già, né il lago c’era più né il parco; l’uno era stato assorbito dall’altro, e il tempo avea ingoiato tutti e due. Gli anni erano passati inesorabilmente l’uno dopo l’altro e con essi era passato a poco a poco tutto ciò che in questo castello faceva un giorno la vita. Non gli avanzava ora del suo nobile passato che l’isolamento, il quale poteva essere liberamente interpretato per orgoglio, per tristezza o per misantropia.
Si sa che questo carattere non era punto modificato dalle persone che erano venute ad abitare il maniero come s’entra tutti i giorni ad abitare una casa. Erano persone moderne con vestiti e gusti moderni, e con queste due aggravanti di modernità che risultavano dalla loro età e dalla qualità loro di sposi. Il che, da un’altra parte, avrebbe potuto contribuire a mutare a dirittura la faccia dei luoghi, a cancellarvi ogni traccia del passato, a rinverdirli di una novella primavera. Avrebbe potuto, ma in effetto era avvenuto il contrario, e pareva ora che il vecchio castello, punto nella dignità delle sue tradizioni e niente sperando in un diverso avvenire, fosse molto ingrognato e scontento del fatto suo e sostenesse di assai mala grazia quel secondo piano bianco e verde che qualche rara volta si permetteva di ridere e di spalancare le sue finestre al sole del mattino.
Non avea poi tutti i torti del mondo questo buon castello; perché come di fuori gli veniva meno la gioventù e la vita, così di dentro non si sentiva papitare un’altra gioventù, la gioventù del domani, la gioventù rosea delle speranze. Il conte e la contessa di Montoro erano sposati da tre anni e da questa loro unione, felicissima e promettente per tutti i rispetti, non erano però venuti dei figli. Erano giovani entrambi e si amavano, a quanto se ne vedeva, ed avevano davanti a loro tutta intera una vita da amarsi. Ma questo amore a quattr’occhi portato in lungo per anni ed anni di fila si va mutando, dicono, in amicizia; e se nel frattempo la donna non è divenuta madre, se al primo amore di fanciulla e di sposa non ha potuto aggiungere e forse sostituire quest’altro amore immenso e fecondo che comprende in un solo sentimento tutti gli affetti e le aspirazioni, che è l’anima stessa dell’anima della donna, è da credere ragionevolmente che la sua mortificazione sia grande e non è da maravigliare se a questa segua un senso di malinconia, quasi di solitudine e di sconforto.
Aggiungasi a questo che allo stesso carattere si accordava dal canto suo anche la servitù del conte. Rosalia, una vecchia oltre i sessanta, che avea visto nascere la contessa e l’avea cresciuta, l’avea servita da ragazza, seguendola poi nel nuovo stato e nella nuova casa quasi come una memoria della casa paterna. Il conte poi, senz’avere alcuno di quei domestici che nascono, muoiono e si fossilizzano nelle grandi famiglie, - e nei romanzi - dopo avervi vissuto un secolo, s’era però circondato di una servitù piuttosto attempata, incominciando dal suo Andrea, passando pel cuoco e scendendo fino al suo modesto servizio, rappresentato da un cocchiere e dal basso personale di scuderia.
Il conte di Montoro apparteneva ad una antichissima e nobile famiglia, ed era unico erede del nome e dei beni. Portava egregiamente l’uno e spendeva gli altri come si conveniva ad un par suo. Ben fatto della persona, elegante, affabile, colto; innamorato delle belle arti, cavalieri eccellente, bravo schermidore, egli sapeva molto accortamente dividere la sua giornata da scapolo fra i piaceri e gli studii, brillare nei saloni e fra le liete brigate degli amici, e nel tempo stesso far valere il suo giudizio modesto e a proposito, quando si sollevasse una questione di arte o di letteratura. Possedeva bei cavalli, ricca biblioteca, belle donne, e faceva parlar molto dei fatti suoi. Era in somma un perfetto gentiluomo, e come tale era ricevuto in quello che si chiama il bel mondo, festeggiato dall’un sesso e un po’ accarezzato dall’altro.
Un bel giorno, senza preparazione, senza motivo apparente, avea rotto bruscamente con questa vita varia e diffusa ed era scomparso. Non più teatri, non più balli, non più partite di piacere. Se ne chiesero notizie; se n’ebbero incerte o malevole. Susurravano alcuni di forti perdite al giuoco; altri parlavano sogghignando di vanità letterarie tornate a galla; altri finalmente lo dicevano innamorato.
Di tutti, erano questi ultimi che avevano ragione.
Avea conosciuto Clotilde in una di coteste società, dove qualche volta lo strascico superbo della marchesa e quello non meno pomposo della buona borghese spazzano il medesimo pavimento: campi lussureggianti dei più dei fiori, dove viene di tratto in tratto ed all’impensata a spandere il suo profumo gentile la violetta modesta. Il qual paragone - del quale è sperabile che il lettore voglia riconoscere la poetica novità - era però giusto per la bella Clotilde solo fino a un certo punto: fino cioè a quel punto di contatto che c’è sempre, volere o non volere, tra una violetta ed una fanciulla. Quella sua bellezza la tradiva: la violetta si drizzava sul fragile stelo e soverchiava le foglie, venendo a competere audacemente con le rose più sfoggiate. Era splendida di bellezza e di vitalità, esuberante di brio, impaziente di affetto, modesta come una fanciulla e nondimeno appassionata come una donna.
Il conte di Montoro fu attratto inconsapevolmente da’ raggi di quell’astro che appartenava ad un cielo tanto lontano dal suo e che nondimeno, pareva a lui, si degnava discendere a descrivere in questo la sua orbita luminosa. Le si fece presentare, ebbe per lei un primo sentimento di simpatia, che andò molto volentieri accarezzando e che scambiò per capriccio. Vi s’invischiò a poco a poco, se ne compiacque, quasi si trovò innamorato di questo medesimo capriccio e se ne fece bello ai propri occhi. Poi, un bel giorno, s’ebbe ad avvedere di quel che era; ne fu turbato piacevolmente come di una scoperta fatta in sé stesso, di una novella capacità trovata nell’animo suo, e senza punto curare le voci susurrate d’ingenuità e d’irretamento, si abbandonò fiducioso ad una passione che gli presentava la vita sotto un’altra faccia, che gli schiudeva un avvenire più largo, più desiderabile, e certamente, secondo egli vedeva, più determinato e più serio.
Ella dal canto suo, lusingata nel suo amor proprio di fanciulla, per non dire nella innocente sua vanità, nel vedere legato al suo carro il giovane signore, non s’era mostrata affatto insensibile alle cure affettuose di lui. Da un’altra parte le stavano attorno i parenti e le amiche, quelli con l’affetto, queste con l’invidia. Un po’ avea ceduto, un po’ resistito; ma la sua resistenza si potea bene scambiare per naturale e lodevole ritegno. Una parola franca, decisiva, non l’era mai sfuggita dalle labbra; ma gli occhi dicevano molto più che non potessero dir le parole; e se qualche volta un momento di tristezza insolita la sorprendeva, bastava la presenza del conte e una parola di lui e una stretta di mano, perché quella nube passeggiera si diradasse, perché le tornasse sulla fronte la luce dell’amore e in tutta la persona il desiderio il piacere e la soddisfazione mal dissimulata del sentirsi amata. Il conte ne spiava e ne studiava attentamente tutte le minime variazioni; ora si rallegrava, ora dubitava, poi tornava a sperare; ma in effetto l’amava: onde questo studio tanto potea valere, quanto valgono gli studii di questo genere fatti dal cuore.
Una volta, mentre il conte sedutole vicino le parlava con tutto il fuoco che un innamorato può mettere nelle parole che gli sgorgano dall’anima, ella impetuosamente gli avea preso le mani, s’era accostata a lui come presa da un tremito, aveva impallidito e arrossito a volta a volta, s’era abbandonata dimentica di sé fra le braccia del giovane. Quello era stato un gran giorno che avea deciso tutto l’avvenire di queste due vite. Il giorno appresso il conte di Montoro aveva ufficialmente domandato la mano di Clotilde ai genitori di lei. Furono affrettate le nozze, così ardentemente desiderate da tutti; Clotilde era andata all’altare lieta e sorridente, e benché pronunziato il sì fatale, una lagrima le avesse bagnato la guancia, subito s’era appoggiata con affetto e con piena fiducia al braccio dell’uomo che le si faceva compagno per tutta la vita.
Si sa, o almeno si dice dalle persone intendenti di queste cose, che tutte le giovinette hanno un loro romanzo palese e uno nascosto. Gli studi speciali fatti dall’autore di questo racconto sopra un argomento così grave, gli hanno fatto scoprire grandi e maravigliose verità, delle quali generosamente egli vuol far parte al suo pubblico. C’è nella vita di tutte le donne un punto solo di profonda e totale trasformazione. Sta nelle mani loro delicate il destino, l’avvenire: e può di questo avvenire decidere un pentimento, un dubbio, una simpatia, una parola, una guardata, una giornata di sole, un mal di capo, la piuma di un cappellino, una visita inaspettata, una lettera smarrita, una subita variazione di pressione atmosferica. Quest’ultima cagione ha una influenza assai maggiore che non si creda. Ondeggiano tra i due romanzi, confondono affetti, propensioni, desideri, passioni, e tutto questo governano con polso incerto e con freno ineguale. Dicono: chi sa? come molto volentieri ripetono tutte le donne per una fiducia cieca che hanno nell’incertezza del caso e nell’ignoto del domani. Chi sa? ed hanno più sicura coscienza della loro forza, quanto più in effetto si sentono deboli. Vincerò il primo romanzo, che è quello dei sogni; chiuderò questo libro incantevole senza averne letta l’ultima pagina, ed aprirò quest’altro che sarà poi in effetto il romanzo di tutta la vita, e che porta scritta sul frontespizio la parola terribile e misteriosa: Matrimonio!
E così è che avvengono e sono sempre avvenuti ed avverranno la maggior parte dei matrimoni. Domandate a cento spose se nel momento solenne in cui viene loro messo al dito dalla mano di un uomo quell’anello nunziale che nella sua elegante piccolezza dissimula assai bene la sua qualità di anello di catena, domandate loro se amano veramente quell’uomo - domandateglielo a quattr’occhi - ed è anche possibilissimo che vi rispondano di sì e che avvalorino l’affermazione con un giuramento. Ma fate poi che se lo domandino da sé a sé, e che a quest’intimo colloquio dell’anima con sé stessa voi possiate assistere invisibile e cogliere la voce sottilissima del pensiero, - e allora udirete con vostro sommo stupore che due terzi di esse non hanno una piena sicurezza di cotesto loro amore. Chi lo sa? forse avrebbero potuto trovar di meglio; forse il primo romanzo appena sfogliato era più intessante di quest’altro romanzo che è stato presto aperto e letto e riletto e menato a mente in una giornata; forse non s’era ancora destato il loro cuore: inesperte della vita, non hanno saputo distinguere la tendenza del cuore dalla febbre dei sensi. Ieri erano fanciulle, domani saranno donne: quale rivelazione e che rivoluzione! I quali sono tutti timori e pericoli, francamente vinti o affrontati, e possono un giorno diventare altrettante ottime scuse di una colpa che verrà riversata sulle spalle di una fatalità cieca e bestiale.
E così accade che un bel mattino, la donna in tutta la sua espansione, in tutta la ricchezza del suo essere, una creatura non prima conosciuta né sospettata, si rivela improvvisamente agli occhi maravigliati del marito, inebbriato o atterrito.
E così che il romanzo del matrimonio, benché tutti i giorni e da tanti anni e in tante edizioni stampato a milioni di esemplari, e letto e commentato in tutti i paesi e in tutte le lingue, non si può mai prevedere per quali vie s’intrecci, come si vada svolgendo e in che catastrofe si risolva.
E così Clotilde, vinta dalla novità, dall’orgoglio, da un bel nome e da un bel giovane, forse anche dall’amore, era divenuta contessa di Montoro, dicendo un addio al suo modesto passato di fanciulla borghese e slanciandosi, piena di ansia e di calore, come portava l’indole sua, verso una vita di trionfi, di lusso, e forse di amore ardentemente sentito e ricambiato.
Da un’altra parte, fermandosi qualche momento a ragionar questo amore, ella diceva a sé stessa sospirando: « Mi ama tanto! debbo bene amarlo io, non fosse che per graditudine».
E così - strana contraddizione - l’amore mette il suo primo passo sopra una via sdrucciolevole, quando appunto si accorge di aver messo il piede sulla via dritta del dovere, quando si giustifica a sé stesso, quando trova giusto e ragionevole di essere quel che è. Allora è che cessa di essere un sentimento, e diventa una lotta.
Ed era profondo questo sentimento nell’anima del conte. Come si dice sempre dell’ultimo amore che si prova, egli non aveva mai amato a quel modo. Il suo era un sentimento complesso di ammirazione e di adorazione, di desiderio e di rispetto, di protezione e di suddistanza, di egoismo e di sacrifizio; era in somma l’amore nella più delicata poesia di affetto, nella sua più potente natura di passione. Sicché quando un giorno Clotilde espresse il desiderio di smettere da quella vita tulmutuosa della grande città, di ritirarsi lontani dalla gente a starsene riposati e tranquilli, di vivere per conto proprio anzi che per conto altrui, egli non istupì né ricercò altro, e si sentì felice di portarsi questo suo amore nella solitudine, di nascondere agli occhi di tutti il tesoro, di chiudere tutto il suo mondo nella luce di due occhi e nel breve giro di due braccia adorate.
Nessuna trasformazione, oltre questo mutamento tutto materiale, era sopravvenuta. Ma solo parve questo, che come dal tumulto erano passati alla calma, così anche una certa calma consentanea fosse entrata nel loro amore. E a poco a poco le loro relazioni aveano preso un carattere semplicemente affettuoso; e poi, senza cessare di essere affettuose, erano divenute meno calde. La contessa sorrideva sempre, ma non rideva più come rideva da fanciulla e da sposa; non cercava gli svaghi; si compiaceva della conversazione in pochi, e più ancora della solitudine. Non le dispiaceva punto se questa conversazione fosse tutta domestica, senza mistione di elementi estranei, né la presenza del marito le era grave in alcun modo. Ma dal canto suo il conte, per un sentimento riguardoso di eccessiva delicatezza, si studiava di non importunarla con questa sua presenza; aveva per lei ogni sorta di attenzioni, era qualche volta sollecito e galante come un corteggiatore, passava volentieri qualche ora a discorrere con lei piacevolmente; ma con tutto questo le chiedeva spesso licenza, per fare le sue lunghe passeggiate o per andare a caccia o per recarsi in città a visitare un amico. Poi, tornando stanco, sentiva bisogno di riposo e domandava di ritirarsi nelle sue stanze; ovvero si rimproverava scherzosamente di aver dato troppo tempo agli esercizi del corpo e si chiudeva a studiare o a leggere in biblioteca.
E questa, - in fondo e alla superficie, - era stata un pezzo la vita che si menava al castello. Nessun avvenimento che la variasse: l’uniformità, la pace e forse la felicità. Così si dice di un lago, quando non ci tira vento: è unito, è calmo, è un buon lago; ci si specchia dentro l’azzurro del cielo.
* * *
Poi, una nuvoletta, un punto nero era comparso all’orizzonte. Lievemente, come sotto un soffio passaggiero, la superficie del lago s’era andata qua e là increspando. Così pareva al conte, il quale si compiaceva forse di quello zeffiretto perturbatore e non lo accoglieva mica come foriero di tempesta. Il conte, come si vede, era un po’ poeta. Ma la poesia del suo spirito era nobile, delicata, tutta profumo e gentilezza, a quanto se ne vedeva; si sarebbe detto che anch’essa come il suo proprietario fosse andata a quella scuola di forme sociali che lima e dirozza l’uomo primitivo, ne tempera le spontanee manifestazioni, ne regge gli atti, ne modera la voce, e dà a tutta la persona un tono uniforme e scrupolosamente conveniente. Così era anche conveniente quella poesia; una poesia tutta idillica, senza scapigliature e stralunamenti, senza fremiti cupi o scatti subitanei.
Passeggiava una mattina in compagnia di sé stesso cioé in buona compagnia. Prima di uscire, avea salutata la contessa, domandandole con molta premura come si sentisse del suo mal di capo e se volesse accompagnarlo in una escursione cittadina o campestre: scegliesse lei.
- Mi sento assai bene - avea risposto Clotilde, alzando gli occhi e richiudendo un libro nella cui lettura pareva assorta, - e sarei quasi tentata di accettare il tuo invito -.
Ma poi non s’era mossa dalla sua poltrona e con un subito mutamento di umore avea pregato lui che serbasse l’invito per un’altra volta.
Il conte da buon cavaliere l’avea salutata, facendo atto di baciarle la mano, e promettendole che l’avrebbe chiamata al più presto a mantenere la parola data. Poi era uscito solo, raccomandando molto alla vecchia Rosalia che stesse attenta chi sa mai la signora chiamasse, e le facesse buona compagnia. Disceso nel cortile, avea dato un’occhiata ai suoi cavalli e poi si era avviato tranquillamente, rispondendo al saluto del suo vecchio cocchiere che s’era rispettosamente cavato il berretto al passaggio del suo signore.
Tutti quei pensieri anzi quelle allucinazioni che per verità possono più facilmente venire nella testa di chi passeggia con la testa anzi che con le gambe, non lo avevano certamente assalito. Pensava invece a cose più reali e piacevoli. Prima di tutto Clotilde stava assai meglio; un po’ di distrazione le avrebbe fatto bene.
Non era più quella di una volta, questo sì, e bisogna in tutti i modi combattere quel mal di capo che la tormentava così spesso. Si sa, gli anni passano per tutti. Forse le avrebbe anche giovato una giterella lontano, una breve rientrata nel mondo di una volta, o anche, senza mutar di posto, una conversazione più numerosa e svariata. Ma, giovato a che?... In fin dei conti a lui marito doveva piacere in certo modo che si fosse alquanto modificato il carattere impetuoso della moglie, avido di novità e di emozioni. Ora avea messo affezione ai muri di casa. Che s’avesse a mutare in una brava massaia o in una bigotta? Come son curiose le trasformazioni alle quali andiamo soggetti! L’uomo di oggi non è più quello di ieri e non può sapere quello che sarà domani. Si cammina sempre verso la perfezione, raccattando le briciole dell’esperienza seminate lungo la via dell’errore; e poi, dopo molto andare, ci si trova con un gran fascio di esperienza fra le braccia, che ci facciamo un dovere di gettare nella tomba per poi gettarvici noi appresso e stendervi le membra stanche come sopra di un letto. Ma intanto s’è progredito. Eppure che peccato che si sia vissuto!
Il conte si fermò un momento su questa esclamazione interna, ed in effetto si volse a guardare indietro, come se volesse spingere verso il passato un’occhiata di rimpianto e di desiderio. Fu appunto allora, che improvvisamente, come una magica apparizione evocata da quell’occhiata, il passato venne verso di lui.
Ma non era poi né il passato né tanto meno un’apparizione. Clotilde in cappellino di paglia col velo svolazzante e con lo stesso abito che aveva per casa, - una veste a righe bianche ed azzurre con le maniche strette e la vita molto accollata, - veniva quasi correndo verso di lui. Pareva una educanda in un giorno di ricreazione, quando già la veste di scuola è troppo stretta e l’educandato è divenuto come la veste. Raggiava di bellezza e di buon umore, e da lontano si vedevano splendere in un sorriso incantevole quei suoi denti bianchissimi.
- Una sorpresa, come vedi, mio caro Armando - disse arrivando tutta accesa in volto e quasi anelante, - ho voluto mantenere la mia parola prima che tu me lo ricordassi -.
Gli si attaccò al braccio con una grazia e un abbandono pieno d’affetto, e ripresero insieme a camminare.
- Eri stanca di leggere? - domandò il conte con una compiacenza che non cercò punto di nascondere.
- Ah senti! non dovresti permettermi di cacciare il naso nella tua biblioteca. La tentazione è troppo forte. Vedo sopra uno scaffale un bel libro rilegato in rosso od in verde; sai, i colori vivi sono il mio debole: stendo la mano; lo tiro giù, me lo porto in camera mia; poi lo apro, incomincio a leggere e non me ne stacco che non l’abbia finito. Com’è che non sei geloso dei tuoi libri?
- Per la stessa ragione, mia bella Clotilde, - rispose il conte con un sorriso malizioso, - che tu non sei gelosa di questi alberi.
- È un rimprovero?
- Ah no, me ne guarderei bene. Non fo che tradurre il pensiero di questi alberi che ti guardano adesso con occhio geloso, abituati come sono a trovarsi nella mia intimità e a conoscere tutti i miei segreti.
- Che peccato che io non sia un albero.
- Per sapere i miei segreti?
- Sarebbe davvero curiosa che il volermi bene fosse un tuo segreto; in tutti i casi non è un segreto che t’appartiene. Il cuore custodisce male i segreti suoi, quando ci si legge dentro speditamente come ci leggo io...
- Come in un libro della mia biblioteca.
- Certamente, e con nessuna voglia di staccarmene che non l’abbia letto tutto, per ricominciare a leggerlo dal frontespizio -. E così dicendo alzò un po’ il mento, e guardando amorosamente con quei suoi grandi occhi profondi in viso al marito, gli si strinse al fianco con tutta la voluttuosa flessibilità della bella persona.
Era la sposina vivace, ardente, innamorata, piena di timidezze provocanti e di calde espansioni. Nessun pallore sulle guance, nessun’ombra benché leggerissima di tristezza sulla fronte. Sul braccio che l’era di sostegno spiccava in tutta la eleganza delicata della forma quella sua mano bianca, impaziente di ammirazione e di carezze. Aveva la labbra frementi e il seno le ansava forte. Era in somma il passato che tornava in tutto lo splendore della giovinezza e della passione.
- Sai a che pensavo? - disse il conte chinandosi un poco verso di lei e stringendo quella piccola mano così eloquente. - Ad una gita che potremmo fare a Roma o a Venezia; lontano in somma; ti sarebbe servita di distrazione.
- Ti pare che n’abbia bisogno?
- Oh, sì, sa, - disse subito il conte rispondendo a quella domanda che era una protesta, - te ne chiedo scusa... Già, di tante altre cose ho da chiederti scusa.
- Di altre cose pensate?
- Sì, ma sempre a proposito di te, s’intende.
- Te le perdono, in grazia del proposito.
- Ebbene, ho anche pensato... scommetto però che andrai in collera.
- Dev’essere una cosa molto terribile! - diss’ella, alzando le ciglia in atto di curiosità e di grazioso terrore. - Dunque, hai pensato?...
- Che la mia signora moglie si sarebbe prima o dopo tramutata in una brava massaia o in una decisa bigotta -.
Clotilde non potè fare a meno di fermarsi e di dare in una risata squillante e prolungata, appoggiando il capo alla spalla del marito.
Era così bella in quell’atto e così seducente, e così bene le cadeva sulle spalle la ricchezza dei capelli, e con tanta dolcezza si disegnava la linea del collo, e tanto fuoco c’era in quegli occhi e tanto palpito in quelle labbra semiaperte... che il conte senza pure saperlo, quasi vinto da un abbagliamento, si chinò come per darle un bacio, per raccogliere il profumo di quella bocca.
Ella si raddrizzò subito e impallidì. Poi riprese a camminare più tranquilla, rimproverando a lui e a sé stessa queste leggerezze da bambini.
- E che altro pensavi? - domandò dopo un poco.
- Pensavo - rispose il conte tornato in calma anch’egli e sorridendo di quella momentanea infrazione delle convenienze - pensavo poi a procurarti una conversazione alquanto più animata che abbiamo ora.
- Della tua?... mi pare anche un po’ troppo animata, - rispose Clotilde, minacciandolo col dito. - Del resto, a parte la celia, in cotesto siamo d’accordo...
- D’accordo? - fece il conte tutto sollecito.
- D’accordo, s’intende, sulla opportunità della tua idea. Non sono ancora tanto bigotta da fuggire la vista e la compagnia della gente.
- Capisco bene qui non avremo la più brillante che si possa raccogliere pel mondo, scegliendo fra gli elementi che abbiamo sotto la mano.
- Già me la discrediti? Incominci prima del tempo ad essere geloso?
- Certamente. La gelosia è un dovere di galanteria quando non è una riprova di amore -.
Tornarono insieme, dopo una lunga passeggiata, che da un pezzo non facevano la simile. Rosalia li vide che se ne venivano a braccetto come due innamorati in pieno idillio, e seguì fino in camera la sua signora, come una mamma sollecita della figliuola, perché si rassettasse e si riposasse, ed anche perché le dicesse come mai questa subita tramutazione fosse avvenuta, e che novità si apparecchiassero.
Era in effetto una grande novità questa recrudescenza di affetto coniugale, che doveva molto sorprendere la buona donna e riempirla di gioia e di buone speranze. La sua filosofia pratica le diceva che molti matrimoni s’aggiustano via facendo: incominciati male, vanno a finir bene: pure molti altri, incominciati sotto auspici eccellenti, vanno a finir male. L’amore, quando è venuto prima, si stanca qualche volta e mezza strada; quando prima non è venuto, nessuno dice che non possa venir dopo; e Rosalia, che conosceva molto bene la sua creatura e non accarezzava altra ambizione che di vederla felice, aveva ben ragione di rallegrarsi che quel dopo fosse finalmente arrivato, quando meno c’era da aspettarselo. La contessa non era mai stata così lieta, né aveva mai parlato tanto, né l’aveva abbracciata con tanta effusione come allora. Pareva tornata bambina, e a tutte le domande che Rosalia le andava facendo, rispondeva ridendo, celiando, qualche volta burlandosi della buona donna che nella sua facile apprensione voleva dare tanto peso a cose che non ne avevano punto.
Questa prima fu la nuvoletta; poi ne vennero due e tre; poi s’ingrossò la nuvola e si fece nera come l’inchiostro. In somma, checché avvenisse fra quei due esseri, certo è che non bastava più la vita campestre co’ suoi silenzi e i suoi riposi; e peggio ancora questi riposi erano alternati da certe impetuose nervosità della contessa, affatto inesplicabili, alle quali il conte opponeva la sua serena cortesia da gentiluomo. Le gite in città erano più frequenti dell’una e dell’altro; ma mentre da parte di lui non partiva né una osservazione inopportuna né una domanda indiscreta, ella, perdendo tratto tratto la naturale dolcezza dei modi, non trovava di suo gusto ch’egli frequentasse il Circolo, o troppo spesso ed a lungo si trattenesse in compagnia degli amici, o si mostrasse assiduo alle riunioni intime della duchessa Ersilia o di lady Jefferson. Era gelosia?... No. Era impazienza, fastidio, umor nero, espansione di vitalità morbosa, insofferenza della vita a due. Più di una volta l’era venuto fatto di accennare a un suo desiderio di cacciarsi di nuovo nel movimento cittadino, di veder le amiche, di mostrarsi, di brillare. Al che il conte non si opponeva con le parole, cortese com’era, anzi volentieri approvava; ma poi, indugiando di giorno in giorno, faceva a quel desiderio il più dispettoso contrasto per una donna nervosa, quello dei fatti. Da ciò i primi dissidii, se così si poteano chiamare; da questi poi le scene domestiche più frequenti, tanto più vivaci da parte di lei e tanto più irragionevoli, quanto più in lui crescevano i riguardi e le delicatezze.
L’ultima, quella narrata in principio, avea fatto impallidire tutte le precedenti; epperò il conte, rimasto solo, s’era lasciato andare ad una riflessione poco rispettosa sullo stato mentale o nervoso della contessa; riflessione cui per tutti i beni del mondo non avrebbe accennato in presenza di lei.
Dopo mezz’ora, egli era al Circolo e giocava, e signorilmente perdeva. Sorrideva alla fortuna contraria, come al tradimento di una amica che non ci sia più a cuore e che si guardi con un senso di curiosità pietosa passare fra le braccia di un altro. Non si divertiva né si annoiava. Passò di lì a poco, quando ebbe vuotato il portafogli, nella sala di lettura, si sdraiò mollemente in una poltrona, ordinò il suo assenzio e di tanto in tanto accostando le labbra al bicchiere, si diè a svolgere i giornali, guardandoli a caso, buttandoli via, riprendendoli, partecipando alla conversazione vaporosa e vuota, che è propria di tutti i Circoli e di tutti le persone la cui vita è sempre occupata dal non avere nessuna occupazione ben definita. Conversazione fatta di frasi monche, di motti, di spiritosaggini, di scioccherie, di malignità, e nella quale passano a volta a volta le vicende del giuoco, la riputazione delle donne e le glorie dei cavalli. Sul tardi, il conte si recò a presentare i suoi omaggi alla bella lady Jefferson, lasciandosi vincere con sapiente abbandono dalla delicatezza frivola e tenera della conversazione femminile e mettendovi la sua nota di eleganza, di gusto, di coltura e di corretta galanteria. E quando ebbe così chiusa la sua giornata, con una buona perdita, una sufficiente informazione politica, un bicchierino d’assenzio e un po’ di corte, riprese la via del castello, dove arrivò all’ora consueta del pranzo e con affettuosa sollecitudine domandò prima ad Andrea, poi a Rosalia, notizie della contessa.
Andrea e Rosalia risposero allo stesso modo. La signora contessa non era tornata.
- No?
- No -.
Il conte si avviò tranquillamente verso la sua camera, ripassando sotto lo sguardo severo dei suoi maggiori. Mutò di vestiti, senza troppo affrettarsi, curò studiosamente il fiocco della cravatta, poi suonò, e si vide comparire davanti il suo vecchio Andrea.
- Andrea - disse - andate a vedere se la contessa torna -.
E si diè a passeggiare su e giù per la camera, canticchiando una romanza in voga.
- Oh, oh! - esclamò ad un tratto, accostandosi a una mensoletta. E stese la mano ad una lettera che v’era sopra. La lettera portava il suo nome sulla soprascritta, vergato con mano rapida e incerta. Chi l’avea portata? come si trovava lì, in camera sua?
Ne riconobbe subito il carattere.
- Qualche altra follia! - pensò, e andò a sedere presso la finestra tenendo sempre il foglio fra le mani.
Andrea venne a dire intanto che la contessa non si vedea venire.
- Sta bene - disse il conte - potete andare -.
Aprì la busta, ne cavò fuori il foglietto, lo spiegò, con un’occhiata ne percorse il contenuto. Non doveva essere cosa di grande importanza, a vedere il sorriso che gli sfiorò le labbra.
- Lo sospettavo - mormorò - arricciandosi i baffi. E tornò a guardare allo scritto. - Le solite romanticherie femminili. Bisogna bene che i fumi svaporino. «Sono morta per voi» è una bella frase d’effetto, ma non ha veramente un valore apprezzabile. Poiché la contessa non viene, andiamo noi a trovar la contessa -.
Di nuovo chiamò Andrea.
- Andrea - ordinò - fate attaccare.
- Il signor conte vuole che gli apparecchi l’abito di sera?
- No, sarà per un’altra volta. Andate.
- Il signor conte vuole anche che si porti in tavola?
- No, più tardi. Adesso mi preme di sortire. Andate, Andrea, ve ne prego -.
Dì lì a mezz’ora, entrava di nuovo al Circolo, salutato dagli amici ed invitato a voler completare la giornata, perdendo il resto. Avrebbe accettato volentieri il grazioso invito, e si proponeva di farlo più tardi. Cercava pel momento il suo fido Acate, il suo amico indivisibile, il marchese Oderzi.
Non c’era.
- Ah, ah! eppure m’avea dato la posta per questa sera.
- Vuol dire che verrà più tardi.
- No, preferisco andar da lui.
- Affari urgenti?
- Piuttosto.
- Sai bene che a quest’ora non lo si trovi a casa.
- No?
- Naturalmente no. E’ l’ora solita della sua sparizione. Oderzi un po’ è di questo mondo, un po’ di quell’altro; sta con un piede di qua e un altro di là. Ogni giorno, checché avvenga, non può mancare di fare una visitina a casa del diavolo.
- Ah, ah! spiritista?
- Dice.
- Ciascuno ha la sua follia, il suo dada - disse il conte. - Ebbene, lo andrò a trovare a casa del diavolo... se il diavolo me lo permette, - soggiunse ridendo.
- Ti aspettiamo, sai.
- A rivederci - rispose il conte.
Salutò gli amici ed uscì. Quando fu da basso, disse al cocchiere di aspettarlo, ché sarebbe tornato presto. Poi si allontanò a piedi e scomparve dietro la prima cantonata.
Il cocchiere, da uomo di mondo, pensò che questo era il momento o mai più di schiacciare un sonnellino. Raccolse in mano le guide, si calcò il cappello sugli occhi, si acconciò alla meglio sulla serpe e partì subito pel mondo dei sogni con tutta la velocità di una carrozza che non si muoveva.
Così passò un’ora o ne passò mezza. Uno scricchiolio misurato di scarpini lo destò. Si drizzò, aprendo gli occhi, e vide venire il conte col suo passo stanco e disinvolto.
- Che è? - domandò. - T’eri addormentato?
- No, signor conte; aspettavo al mio posto il signor conte. Il signor conte vuol montare?
Il conte montò con l’usata sveltezza; prese guide e frusta. I cavalli si mossero. La carrozza uscì rumoreggiando dal cortile.
Notò il cocchiere, con segreto rammarico, che non si pigliava la via del castello, anzi s’entrava più nel cuore della città. Avrebbe voluto muovere una rispettosa osservazione, quando la carrozza si fermò davanti a un gran portone.
Il conte mise piede a terra, entrò, salì per un ampio e basso scalone, traversò due corridoi, arrivò in un’anticamera, debolmente rischiarata da una lampada a gas.
Sotto di questa, tre uomini seduti intorno ad un tavolino sonnecchiavano. All’udire il rumore di un passo, uno di essi alzò gli occhi indolenti.
- Chi cerca? - domandò senza scomodarsi e con voce inurbana. Il conte trasse fuori dal portafogli un biglietto di visita e lo porse a quell’uomo.
- Dite al signor questore che questa persona ha bisogno di parlargli -.
L’uomo si scosse, passò in una stanza attigua, sparì dietro un uscio.
Dopo un momento riapparve, spalancando la porta a due battenti, e gridando con voce profondamente ossequiosa:
- Passi il signor conte di Montoro -.
Il conte entrò, si fermò un momento sulla soglia con in mano il cappello e inchinandosi.
Il questore, levandosi dietro la sua scrivania, gli fece cenno d’avanzarsi e pregò il conte di mettersi a sedere.
- Grazie - rispose il conte - non ho da farle che una breve comunicazione... se me lo permette.
- Dica pure, signor conte. Son tutto ai suoi ordini.
- Troppa bontà. Si tratta, signor questore, di un malfattore che vengo a denuciare alla sua autorità.
- Oh, oh! un ladro? il signor conte sarebbe forse stato vittima di un furto domestico?
- Precisamente no. Non si tratta di un ladro. Il malfattore è ancora più temibile.
- Un assassino?
- Per l’appunto.
- Lo arresteremo subito - esclamò il magistrato, toccando il bottone di un campanello elettrico.
- Non ne dubito - ribattè il conte. - L’autore del reato, signor questore, sono io. Ho ammazzato mia moglie -.
Racconti inverisimili di Picche, 1886