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Federigo Verdinois
Il Re! Il Re!
Dirigevo in quel tempo - una diecina di anni fa - il "Giornale di Napoli". Tutte le mattine, dalle otto alle undici, ero in ufficio; tutte le sere, dalle nove alle dieci. Per dir la verità, la fatica era scarsa: tanto vero che l’amico Lorenzo Rocco, il quale era incaricato di darmi braccio forte nella compilazione del foglio, non trovava sempre occasione di darmi prova della sua forza. Veniva o non veniva in ufficio; e quando non veniva, io pensavo ragionevolmente ch’egli andasse in cerca di cotesta occasione per portarmela all’impensata. Molti giorni me ne stavo tutto solo, ora spiegazzando giornali, ora leggendo il primo libro che mi capitava alle mani, ora dormicchiando sugli Atti Parlamentari, ora anche rintagliando tutte le figure dei giornali illustrati e incollandole poi in bella disposizione sulle pareti. (Questo passatempo mi ha sempre procurato grandi soddisfazioni, e non lo trascurai nemmeno più tardi, quando mi trovai alla direzione del "Corriere del Mattino", come anche oggi si può vedere nelle sale del medesimo). Per quanto però mi piacesse di svolgere nella solitudine cotesta mia forte manifestazione artistica, non accoglievo male le visite degli amici, quando gli amici si ricordavano di me.
Una sera del settembre me ne capitò una molto singolare. Sento spingere l’uscio a vetri della stanza precedente. - Avanti! - dico. Odo un passo frettoloso, si presenta l’amico D’Aulia. Voi forse l’avete conosciuto, forse no. Era un uomo più vicino a’ cinquanta che non fosse lontano dai quaranta; lungo, secco, giallognolo, sempre vestito di grigio e con certe cravatte bizzarramente colorate, di cui egli solo conosceva la clandestina manifattura. Discorreva in fretta, a periodi brevi, ma con un vertiginoso inseguimento di parole, come se temesse di non fare a tempo; e nel discorrere vi sbarrava in viso tanto d’occhi, che a tutti i momenti minacciavano di schizzargli dalla fronte. Nel restante, la più brava e ragionevole persona di questo mondo: assiduo al suo ufficio di computista demaniale, servizievole con tutti, innamorato della moglie. Prendeva tabacco. Non fumava che due sigari al giorno; e se qualche volta si concedeva il lusso di un terzo sigaro, gli è che questo terzo sigaro egli lo avea preso per distrazione sul tavolino di un amico.
Ce n’erano cinque sulla mia scrivania, nel momento che D’Aulia entrava. Non ne prese, non li guardò neppure. Era turbato. Pareva più secco e più giallo del solito, e già gli occhi gli schizzavano dal capo prima ancora di aprir bocca.
- Che c’è? - domando io, vedendolo a quel modo. - Vi è successo qualche guaio, caro signor D’Aulia? Prendete un sigaro, vi prego -.
D’Aulia non risponde. Cade a sedere, respira con forza, si asciuga il sudore, ed ha tutta l’aria di un uomo che abbia qualche gran cocomero in corpo. Alla fine, quando s’è alquanto rassettato, apre la bocca e mi dice con voce cavernosa:
- Sì, mi è successo un fatto terribile.
- A voi?
- A me. Era l’anno 1835 -.
Guardo l’amico D’Aulia con una certa apprensione e fo un piccolo atto per scostarmi con la seggiola. Eravamo nel 1875. Possibile che lo commovesse tanto un fatto di quarant’anni addietro? In tutti i modi, bisognava dire che l’impressione del fatto arrivava con un certo ritardo.
- Ebbene - lo incoraggio io, vedendolo tutto assorto e taciturno - siamo rimasti al 1835. Dicevate dunque...
- No, no, mi pare di non aver detto niente. Niente ho detto. Sono passati tanti anni da quella sera. Io stavo al Teatro dei Fiorentini e si dava La moglie del Corsaro. Me ne ricordo come se fosse ora. A metà del secondo atto, succede un movimento in tutto il teatro, tutti dalla platea guardano in su. Alzo gli occhi anch’io, per guardare. Al palchetto reale entra la Corte. Bene. Viene avanti Maria Cristina. Voi avete conosciuta Maria Cristina?
- No, non ho fatto a tempo. Son venuto al mondo troppo tardi.
- Non importa, io sì. L’ho conosciuta, ah! se l’ho conosciuta. Vi giuro sull’onor mio che l’ho conosciuta.
- Non ne dubito punto.
- Viene avanti, dunque, prende posto, saluta con un sorriso il pubblico reverente, abbassa quegli occhi profondi e celesti che voi sapete.
- Perdonate. Mi pare di avervi detto...
- Ah sì! non importa. In somma abbassa gli occhi, lasciamo stare il colore, guarda in platea. Voi non indovinate chi è che la Regina guardava?
- No.
- Guardava me.
- Voi?
- Me, me! Vi ho detto che guardava me. Una specie di fascino. Mi guardò tutta la sera. Io non badavo più alla Moglie del Corsaro. Ero attratto, mi voltavo; sapete, forza di magnetismo. Non potevo star fermo.
- Potevate prendere un torcicollo.
- Precisamente, ma non importa. Non so quante ore passassero, un giorno o una vita, un minuto o un secolo. Mi sentivo pietrificato. Avevo messo radici sul mio scanno. Ci era una gran luce nel palchetto della Corte. Il Re c’era o non c’era. Io non vedeva più niente; gli occhi mi balenavano. Uno sciame di calabroni mi ronzava nel cervello; e non li potevo scacciare, e non volevo. Poi, di tanto in tanto, la musica mi destava. Di dove veniva? Voi dite dall’orchestra, sta benissimo. Io dico di no. Veniva dal cielo, me la sentivo scendere nel cuore, m’invadeva come un filtro velenoso, mi facea fremere tutto. La Regina mi guardava sempre.
- Guardava voi?
- Me, me, vi dico. Non c’era da pigliare abbaglio. Una cosa simile non m’era più accaduta.
- Lo credo.
- A nessuno era accaduta. Questo proprio mi domandavo io: è vero o non è vero che questa cosa accade? è possibile? è verisimile? dove mi trovo adesso? Di botto, quasi sotto un soffio potente, tutti i lumi si spensero.
- Rimaneste al buio?
- Sì e no. Tutti ci vedevano. Le lampade ad olio erano sempre accese e mi parevano moccoletti spenti. Spenti sì, non distinguevo più niente, guardavo sempre in su. Nessuno guardava me. La Regina se n’era andata.
- Che peccato!
- Voi volete scherzare.
- No, caro signor D’Aulia, ve lo assicuro. Capisco che per voi dovette essere un gran dolore. Non mi riesce però di vedere come mai dopo tanti anni...
- Aspettate. Gli anni passano, questo si sa. La Regina è morta da un pezzo. Io non ci pensavo più, benché vedessi sempre quegli occhi grandi e profondi che voi sapete...
- Scusate, io vi ho fatto notare...
- Per l’appunto. Io non ci pensavo più, non mi ricordavo più i particolari di quell’avvenimento, mi figuravo di aver fatto un sogno. Questo pensiero mi ha perseguitato per molto tempo. Ieri sera l’ho riveduta.
- Chi?
- Ho riveduto Maria Cristina.
- Avete riveduto...?
- La Regina.
- Voi avete riveduto la Regina? Non capisco, caro signor D’Aulia.
- Sì, verso la mezzanotte, a casa mia. È venuta a trovarmi -. Mi scostai ancora di qualche linea. Guardai fiso il mio interlocutore. Egli non dava segni di volere scherzare, era serio, quasi tragico, volea dire qualche altra cosa.
- Dite, dite! - lo stimolai. - Non capisco ancora; vuol dire che capirò appresso. La cosa ha un’importanza capitale e non potrebbe essere più interessante. La Regina è dunque venuta da voi e voi l’avete ricevuta.
- Naturalmente.
- E che v’ha detto?
- Niente. Guardava e taceva. Io me le son gettato ai piedi. Le ho detto tutto; tutto quel che mi stava nel cuore da quella sera famosa. Non è proibito alla gente di potere amare. O si ama o non si ama. Me le son gettato ai piedi, ho abbracciato le ginocchia dell’augusta donna, le ho detto tutto, l’ho fatta parlare.
- Parlare?
- Sì. Mi ha risposto com’io mi aspettavo. Il fatto del Teatro dei Fiorentini non era un sogno; la Regina mi aveva guardato; la Regina mi amava; io non ne sapevo niente. Come mi potevo figurare una cosa simile? Poi erano passati tanti anni e non me l’aveva mai detto. Una sofferenza atroce, povera donna! Mi amava, e mi ama. Adesso non c’è più il tiranno, non c’è più.
- Caro signor D’Aulia, calmatevi, vi prego.
- Sono calmo, lo vedete. Dico solo che il fatto sta così. Così sta il fatto, come vi dico io.
- Maria Cristina vi ama?
- Non ci credete?
- Anzi, vi pare, vi credo benissimo. Non si sa mai... All’altro mondo non ci sono stato ancora, per fortuna. Vi ha detto dunque? -
Il signor D’Aulia vorrebbe rispondere e non può, tanto è commosso. Si strofina gli occhi, si passa le mani nei capelli, prende un’enorme quantità di tabacco come per provare a sé stesso la propria esistenza. Poi accostando il suo viso al mio, quasi a toccarmi, spalancando gli occhi smisuratamente, con una voce susurrata che sembra venir di lontano, mi domanda:
- Sapete?...
- Non so - rispondo io, preso da un involontario terrore.
- Torna stasera.
- Chi?
- La Regina.
- A casa vostra?
- In camera mia!... A mezzanotte. Mi ha detto ieri sera, nel momento di dileguarsi: «Aspettami. Verrò domani». (La voce del signor D’Aulia si facea più fioca, quasi strozzata). «Battendo la mezzanotte, entrerò da quella porta. Non mancare. Ti farai trovar solo, come adesso. Ti amo!» Ed è sparita -.
Alla meglio, e con buone parole, cercai di ricondurre un po’ di calma nell’amico D’Aulia. Gli offrii quel sigaro, ch’egli non avea preso, tanto era turbato. Volli che venisse con me a fare una giratina, tanto per pigliare una boccata d’aria, e fare insieme quattro chiacchiere. Mi premeva di distrarlo. Scendemmo verso S. Lucia, discorrendo di giornali, di teatri, di libri, di politica, di elezioni comunali, di altre seccature. Ad un tratto, egli si arrestò sotto un lampione e cavò fuori l’orologio.
- Le undici e mezzo, - disse.
- Sì, - risposi, guardando al mio.
- A rivederci.
- Mi lasciate così presto?
- Voi lo sapete. A mezzanotte aspetto qualcuno.
- Via, signor D’Aulia, parliamoci chiaro. Tutto quel vostro discorso...
- Che volete dire? - esclamò egli, fulminandomi con un’occhiata.
- No, niente. Mi pareva veramente...
- Vi pareva che avessi mentito?
- Oibò!
- Che avessi voluto far la burletta?
- Nemmeno per sogno. So che non potete mancare.
- Per tutto l’oro del mondo non mancherei. È già tardi. Addio!
- Ci vedremmo domani? mi farete saper qualche cosa?
- Non mi rispose. Era già lontano e andava via come una saetta.
* * *
Non potrei negare, senza venir meno alla verità, che tutto il giorno appresso e la sera stetti ad aspettare con una certa impazienza la visita dell’amico D’Aulia. La singolarità di quel suo racconto insieme con la sicurezza di lui nell’affermare la verità del fatto mi aveva non poco impressionato. Non già che gli prestassi fede; ma è certo che lo straordinario esercita sempre un fascino potente sull’animo umano e seduce le più torpide fantasie. Naturalmente, tutto ciò che D’Aulia mi aveva narrato era una superlativa abberrazione. Ma come mai, egli, così temperato e ragionevole, vi s’era lasciato andare? Come mai il fatto s’era verificato nella pace delle pareti domestiche, le quali son fatte a posta per moderare ogni più violenta concitazione dell’animo, per addolcire ogni amarezza, per far dileguare ogni fantasma dalla mente più ammalata? Questi interrogativi m’impensierivano. Volere o no, e per quanto s’indaghi, e per quanto ci si sgobbi a studiare, la vita è come una selva di punti interrogativi. Dietro ogni problema ce n’è un altro; dopo il vero, che vi è dato raggiungere per via dei sensi, sorge lontano il reale, velato e intangibile... perché la sola idea di tatto presuppone una relatività che è distruzione dello stesso reale. Il noto è chiuso nei limiti della nostra povera scienza; l’ignoto non ha confini. Ecco perché il saggio greco «sapeva di non saper niente».
Io invece sapevo qualche cosa. Sapevo, per esempio, che l’amico D’Aulia da un pezzo si occupava di spiritismo. Ma che cosa era lo spiritismo?... Lo ignoravo. Qualche volta se n’era parlato insieme, ma il discorso non avea menato a nulla di concludente. Parole vaghe, vaporose elucubrazioni (forse anche spropositate) sull’immortalità dell’anima e intorno a una vita futura. Poi si scendeva nei fatti; e poiché ciascuno di noi, nessuno escluso, ha nella vita qualche fatto strano e inesplicabile accadutogli, così egli mi narrava i suoi - l’uno più meraviglioso dell’altro - ai quali io non credevo niente affatto; io ribattevo coi miei - l’apparizione e la risurrezione - che egli metteva in dubbio. In somma, senza ammettere per un solo momento la possibilità di quell’amore di oltretomba, io non potevo fare che non vi pensassi. Poi, in un senso confuso di pietà e di allegria, esclamavo sospirando: - Povero D’Aulia! -.
Basta. Viene la sera. Le dieci son trascorse di qualche minuto, e già comincio a disperare. Viene, non viene, non ci pensiamo più. La porta s’apre, entra il D’Aulia, gli vado incontro. È disfatto, livido, con le occhiaie profonde co’ capelli arruffati. Qualche grave cosa ha da dirmi.
- Ebbene? - gli domando quasi celiando, - è venuta?
- D’Aulia mi risponde alzando le ciglia, e con due o tre scosse del capo.
- Che volete dire? spiegatevi -.
Dopo una pausa solenne, D’Aulia pronuncia: - È venuta!...
- Maria Cristina?...
- Lei!... Se sapeste, se vi potessi dire come la cosa è andata! Io stesso non lo so. Tornai a casa, mi chiusi in camera mia, mancavano dieci minuti a mezzanotte, mia moglie era di là che dormiva. Un silenzio profondo. Non vi dico se il cuore mi battesse. Appena appena la camera era rischiarata da un lumicino. Si vedeva e non si vedeva; io poi avevo come un velo davanti agli occhi. Batteva il pendolo dell’orologio: «tic, tac! tic, tac!» mi batteva dentro, nel petto. Ad un tratto, sento quel fremito che precede il suono delle ore. Scocca la prima, conto: uno, due, tre, fino a dodici. Figuratevi voi che freddo per tutte le ossa, da capo a piedi. Vedo non so che, venuto non so di dove: un’ombra, una nube bianca, due occhi lucenti, una veste ondulante, una figura di donna, lei. Sì, è lei, non c’è dubbio. Parla. Io non ho più fiato in corpo. Mi si accosta e mi tocca. Un tocco così soave, così celeste, che la paura sparisce come per incanto. Mi torna la voce, parlo anch’io. Che cosa le ho detto? Non me lo domandate, non lo so. Non ero più di questo mondo, mi sentivo rapito. Non c’è lingua umana che possa esprimere una felicità simile a quella... No, mille volte no. No, vi dico! Di botto, si sente un rumore alla porta. Qualcuno bussa, non c’è dubbio. «Oh Dio! esclamo, mia moglie! o povero me! e che dirà se mi trova qui con la Regina?» Grido subito: «Non entrate! non si può! è chiuso! aspettate!» Niente. La porta è spinta di fuori leggermente, si mantiene socchiusa; si spalanca; una figura grande s’avanza. Guardo, inorridisco, chi vedo?...
- Chi vedete?... vostra moglie?...
- No, no! ... (con uno scoppio di voce) Ferdinando II!
- Lui!
- Lui!... Balzo in piedi, pianto la Regina, fuggo, mi do a correre come un forsennato per tutta la casa, grido per quanta n’ho in gola: «Il Re! il Re!» Mia moglie si desta spaventata, scende dal letto, mi corre dietro. «Ferma! Ch’è stato? sono io, io! ascolta!» Io fuggo sempre, preso da un terrore di morte. Io grido sempre: «Il Re! il Re! Il Re! » e vado a cadere, fuori dei sensi, tra un canapè e una poltrona. Tutt’oggi mia moglie m’ha accudito. Ha chiamato anche il medico. Ma che dovea fare il medico? Un’alterazione di polso, ecco tutto. Adesso sto bene, sono tornato in calma.
- Siete anche tornato in camera vostra?
- Sì.
- E la Regina?
- Non c’era più.
- E, naturalmente, nemmeno il Re.
- Si capisce. Nemmeno il Re -.
L’amico D’Aulia si concentrò in un silenzio ostinato. Non ci fu verso, per tutta la sera, di cavargli di bocca una sillaba. «Povero D’Aulia!» pensava io. Ma egli seguitò tranquillamente a fare il computista e non diè mai segno di debolezza mentale. Dopo qualche anno e fino a pochi mesi prima della sua morte, quando gli accadeva di sentire accennare, per una ragione o per l’altra, a Ferdinando II, egli si faceva scuro in volto e crollava il capo.
Racconti inverisimili di Picche, 1886