Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Federigo Verdinois

    La Signora Bianca

    A Salerno - la gente di là se ne ricorda ancora per una canzonatura poetica fattami da un giornaletto spiritoso - io avevo preso un alloggio tra cielo e terra, ma più in là che in qua, per la semplice ragione di essere io amantissimo della quiete e insofferente del frastuono della via, il quale né consente il riposo di notte né lo studio di giorno; e per un’altra ragione anche più semplice che non mette il conto di qui riferire. In una via secondaria, al quarto piano di un caseggiato vecchio e scorticato, dove si entrava per un portoncino che avea vergogna di farsi vedere e si andava su per ottantaquattro scalini che parevano un dirupo, io avevo una camera, una bella camera, una cameraccia, mobiliata meno che modestamente. Mi ero determinato a fissarla, prima perché se l’ingresso era dalla parte del vicolo, la finestra della camera dava in una via larga e signorile; e poi perché, in verità io ho succhiato col latte l’aborrimento di quel lusso che è il baco della società contemporanea. Cercavo aria, perché l’aria fa bene all’esercizio dei polmoni e giova allo sviluppo delle idee; e di aria ce n’era in abbondanza in quella camera, la quale era vasta quanto un cortile e la cui finestra, avanzando in altezza le case poste di faccia, ne sormontava i tetti e vedeva tutto il semicerchio dell’orizzonte con un po’ di mare e un pezzo di montagna. Di più, lo spazio non era soverchiamente ingombrato, né a muoversi intorno ci si sentiva impacciati, come accade in coteste sale da sibariti, dove ad ogni passo s’incepisca in un tappeto, si rovescia una seggiola, o si corre il rischio di rompersi le costole nello spigolo di un mobile intagliato. La mia camera valeva a dare un’idea molto approssimativa del vuoto, e se ne faceva l’inventario con una occhiata. Un tavolino bianco davanti alla finestra, un cassettone dalle gambe lunghe e dai foderi ornati di borchie di ottone, un canapè preistorico dalla spalliera fatta a stecche come un pollaio e tre seggiole. Sul cassettone era uno specchietto a bilico, il quale aveva il gusto matto di canzonarvi, stirandovi la faccia di traverso e dipingendola di un colorito tra il verde e l’olivastro. Era fiancheggiato e guardato a vista da due sentinelle di gesso: un Turco colorato come un arcobaleno, il quale fumava una pipa turchina, ed un Napoleone a Sant’Elena che contemplava con una tenacità proprio napoleonica il fumo solido di quella pipa. Le pareti di quella camera, in corrispondenza della generale semplicità, erano nude e passate di bianco, fino ad una fascia nera ricorrente tutto intorno; e sotto il soffitto era infisso un gancio, servito un tempo ad appendervi chi sa che cosa. Il mio pensiero fisso era questo di adornare in qualche modo la nudità di quelle pareti; e dai primi giorni della mia istallazione avevo posto mano al lavoro, sospendendo sul canapè con bellissima simmetria non meno di sette calendari i quali aveano la singolarità che sopra ciascun giorno dei mesi era tirata una forte riga d’inchiostro, tanto che da lontano avevano tutta l’aria di carte di musica: quello dell’anno in corso non era ancora così listato che per sole cinque colonne. Si era in Giugno. Io avevo l’abitudine di cancellare il giorno passato con un tratto di penna, e chiamavo questo: ammazzare il tempo. Quando ero di malumore - il che sovente mi accadeva per motivi di ordine tutto psicologico ed economico - ne cancellavo fino a sette in una sera, per accorciarmi la vita. Una striscia di carta bianca ad arco l’avevo incollata intorno ai sei calendari consunti con sopra la scritta in caratteri cubitali: TEMPO PERDUTO.

    Davvero ne avevo perduto molto... e ne perdevo. Un destino speciale mi è sempre stato adosso, pel quale io ho perduto molte cose, senza riuscir mai a guadagnar niente: e coteste perdite, volontarie o fatali, erano state di molte qualità, comiche e serie, qualcuna anche molto triste, della quale porto ancora dentro lo strappo, che non s’è più rimarginato. Ma qui non sono a contarvi storie pietose; e poi che importa altrui se il prossimo amato ha avuto un bel giorno la scapataggine, camminando nel sentiero spinoso della vita, di lasciarsi scappar di mano il fardello delle illusioni?...

    Una tal notte - ma nemmeno questo vi racconterò, perché l’ho già detto altrove - quell’accorciamento della vita ebbe un commento lugubre e faceto; e quello specchietto verde oliva si trovò a riflettere il viso disfatto di un povero innamorato tradito, il quale s’accostava alle labbre tremanti un grosso bicchiere pieno fino all’orlo di cento biglietti di visita raschiati e deluiti in acqua. Ma era proprio l’amore che mi spingeva quella notte al passo fatale, dopo quale tanti altri - falsi qualche volta - ho dati nella vita? Diciamo la verità, o pure non diciamo niente. Certo è che oggi son vivo, come ero vivo allora; più o meno, poco importa.

    Un particolare interessante, e che può spiegare nella sua volgare piccolezza gran parte del processo psicologico di un’anima in pena, è questo senza dubbio. Nelle molte ore, che io spendevo nella solitudine e nella meditazione, m’era di gran conforto il fumare; e già da due settimane, per una inesplicabile e nuova filossera, andava scemando e intristendo una pianta di garofani messa ad ornamento della mia unica finestra. La pianta - nemmeno quella! - era di mia proprietà; apparteneva alla vecchia padrona di casa: a foglie a foglie, delicatamente strappate e con molta cura seccate, io me l’aveva fumata tutta nella pipa. Poveri fiori! anch’essi hanno un destino qualche volta contrario alla loro natura. Chi può dire che quei miei garofani, nei loro sogni verdi come la speranza e accesi come l’amore non avessero vagheggiato di morire appassiti fra le trecce nere e profumate di una bella fanciulla?

    In quel tempo dunque, amore e miseria che fosse, o altro motivo che mi spingesse, io fondai quel famoso giornale "L’Osservatore" che visse così poco e non riuscì ad osservare niente. Il mio stampatore era il signor Migliaccio, una brava persona, della cui temperanza nel trattar gli affari ho sempre serbato buona memoria e del quale ebbi poi notizie a Napoli in circostanze così straordinarie che mi hanno indelebilmente impresso il Migliaccio nel cuore. Senza scherzo, come allora non avevo punto voglia di scherzare, il mio "Osservatore" andava così male che peggio non era possibile. Nel manifesto io avevo parlato, con frasi sonanti, di un grand’uomo e di gran cosa: di Napoleone e della libertà. Il pubblico non si era commosso; non s’era lasciato conquistare dal mio giornale e avea voluto conservare la invidiabile libertà di non leggere. Era dunque un naturale atto di deferenza verso me stesso, che il giornale da me scritto me lo leggessi da me, cavandone un grande ed amaro ammaestramento sulla cecità ingrata degli uomini in genere e sulle condizioni dello scrittore italiano in ispecie. Era ancora più naturale che i conti presentatimi dal buon Migliaccio dormissero sul mio tavolino, che il buon Migliaccio fosse pigliato di tanto in tanto da una certa impazienza di riscossione e che io travedessi non lontano il giorno infelice della ritirata, in compagnia del mio Napoleone. Spuntò quel giorno pur troppo! e come tutto intorno, per quanto guardassi, mi pareva coperto di cenere! Quel giorno stesso un colpo crudele e finale era stato dato al mio amore da una gentile mano di donna: le mani delicate e bianche sono quelle che feriscono più forte. L’"Osservatore" era arrivato al suo numero 17, e non c’era segno che volesse dare un passo avanti per afferrare il 18. Da due giorni - tra per l’angoscia dell’anima, tra per altro - io non vedevo quella mia dolce mamma Rosa, alla quale era affidata la cura di nudrire con gran parsimonia la parte caduca del mio individuo. Ero abbattuto, sfibrato, mi sentivo venir meno. Io spero che il lettore possa non intendere uno stato simile, strascicavo il passo, aderivo sempre più alla terra, come se la terra mi chiamasse. Perché no? Chi potea dire che non si stesse meglio di sotto? Certo, si riposava. Né il riposo veniva da più notti a consolarmi. Mi gettavo sul letto mezzo vestito, sbarrando gli occhi dal fondo della mia alcova, verso l’uscio della camera: ero preso di tanto in tanto da uno sbadiglio spasmodico; mi assopivo a mezzo e dolorosamente; avevo certe scosse, per le quali balzavo atterrito e mi trovavo a sedere nel mezzo del letto, guardando più intensamente di prima, ficcando gli occhi nel buio, tendendo gli orecchi, cogliendo ogni menomo suono intorno, ogni scoppiettìo. In certi casi l’acuità dei sensi è così raffinata che si arriva a percepire l’inafferrabile: i rumori lontani si avvicinano, gli oggetti prendono forma e colore nel buio, i profumi più delicati offendono con la violenza dell’esalazione e dei ricordi, le mani si sentono come sfiorate da ali invisibili.

    Quella notte - e non era già la notte del suicidio, la quale venne una settimana appresso - io era entrato in letto come in un rifugio, m’ero avvolto nell’oscurità come in un manto impenetrabile. Volevo dormire e dimenticare; non potevo; mi stavano davanti, e intrecciavano insieme uno strano ballo, la gentile fanciulla bionda che mi aveva tradito e il buono stampatore Migliaccio che voleva essere pagato.

    A poco a poco, la stessa assiduità della visione mi insinuò un senso di fastidio e di stanchezza. Idee e immagini si confusero, si annebbiarono come in un orizzonte lontano. Mi pareva che tutte le cose, le quali allora mi accadevano, fossero già accadute da gran tempo, in un altro posto, in un’altra mia vita molto remota. Io me ne stava lì disteso, forse morto, a contemplare questo quadro lugubre di un mio passato. Di faccia a me, sul bianco della porta, che la povera luce penetrante dalla finestra facea travedere, correvano all’impazzata tante strane e terribili figure di donne amanti e di mostri alati, di creditori insaziati e di buoni stampatori. Veniva il sonno, o piuttosto mi opprimeva e mi soffocava l’incubo. Non potevo muovermi di una linea; ero inchiodato sul mio letto; avevo gli occhi chiusi: ma intanto sentivo di dormire, sapevo di essere solo ed al buio, vedevo, attraverso il velo delle palpebre, tutta l’ampiezza della camera e il sinistro biancheggiamento di quella porta. Non so come accadesse, né potrei dire adesso, dopo tanti anni trascorsi, per quale lento processo e per quante trasformazioni passasse quella mia visione. Certo è che la porta, come soleva tutte le sere, l’avevo chiusa io stesso a doppia mandata; è certo anche, come ebbi poi a verificare a giorno fatto, che nessuno l’aveva aperta. Notai pure che la superficie di essa era tutta bianca ed unita, meno beninteso i due riquadri che la dividevano per traverso e che non erano mobili, come nelle porte degli antichi castelli. Mi sembrò vedere che in quel biancheggiamento si muovessero certe ondulazioni, dapprima impercettibili, poi più evidenti. La porta si agitava con una molezza di stoffa, come se fosse una tenda o una veste; andava innanzi e indietro, da una parte e dall’altra, e nondimeno era sempre lì, immobile, al suo posto. Qualcuno l’apriva di fuori, o piuttosto (la cosa non è facile spiegarla per la indeterminatezza dell’impressione), o piuttosto la stessa porta, animandosi, passava attraverso di sé ed assumeva forme vive. Fui confermato in questa idea da un incerto luccicare che mi parve di scorgere in cima e che pareva lo splendore intimo di due occhi invisibili. Notavo tutte queste cose con una strana evidenza di visione, mentre il terrore mi teneva incatenato e mi mozzava il respiro. Ad un tratto, mosso non già dalla volontà, che in me non era viva, ma da una forza ignota, quasi da un’attrazione irresistibile, mi alzo a sedere nel mezzo del letto, sporgo il busto ed il viso, guardo, vedo quella figura bianca, dai contorni indefiniti, avanzarsi, ondulando, alla mia volta. Pareva portata da un vento leggiero, sorvolando. Il luccichio notato prima si faceva più vivo e fosforescente, benché vi si travedesse non so che di nero e di profondo. A poco, a poco, la figura bianca è a piedi del letto. In un lampo, guardo la porta; è spalancata; mostra le tenebre della camera appresso. La figura bianca fa ancora un altro passo, mi è sopra, quasi mi avvolge in una nube trasparente. Una voce susurrata che non mi colpisce l’orecchio, ma che nondimeno sento spiccata e mi si ripercuote dentro, in tutte le fibre del mio essere mi dice: - Aspettami non ti abbandono mai -. Sento anche adesso il suono misterioso di quelle parole e forse lo si potrebbe rassomigliare a un lieve e prolungato tremito di corde mosse da un’aura di vento. Nel punto stesso la figura bianca si allontanò, indietreggiando, guardandomi sempre, parlandomi sempre con l’eco anzi col suono stesso costante di quelle parole, giunse alla porta, mi fece come un cenno di saluto con un sorriso più vivo degli occhi neri e fosforescenti. Poi, di un colpo, non so come, si andò spianando, s’assodò si confuse con la porta che tornò a biancheggiare immobile al suo posto. La porta era passata attraverso sé stessa. Mi destai in un balzo, trasalendo, tremante con un ribrezzo di febbre. Fui in piedi, era giorno chiaro, spalancai le imposte della finestra, corsi alla porta, più e più volte ne tentai la superficie, la osservai con gli occhi, misi la mano con gelosia paurosa sulla maniglia e sulla chiave. Come l’ho detto più sopra, la porta era sempre chiusa a doppia mandata. Non c’era un dubbio al mondo. La mia era stata una solenne allucinazione, un effetto dell’incubo, forse anche dei nervi sofferenti dello stomaco. Feci a me stesso questo ragionamento, ponderai, discussi, mi rimproverai, tornai in calma perfetta. Mi stava sempre davanti agli occhi quella parvenza bianca, mi suonava sempre nell’orecchio l’eco fievole di quale parole. Ma che voleva dir ciò? Permanevano gli effetti dell’agitazione della notte, come, dopo la burrasca, la superficie del mare s’increspa senza alito di vento. Dovevo uscire, prendere una boccata d’aria... possibilmente qualche altra boccata di altro genere. E non c’era anche il buon Migliaccio, che urgeva col suo onesto desiderio di riscossione? La vita reale con le sue asprezze mi traeva a sé. Così la voragine, irta di punte, attira il disgraziato che vi si precipita.

    * * *

    La scena di otto giorni dopo tra il buon Migliaccio e me è breve, efficace e indimenticabile.

    Dopo essermi ucciso in quel modo che sapete, io dovevo tornare a Napoli, strappandomi ai miei sogni, che erano dileguati, ai miei dolori, che mi avrebbero seguito, ai miei debiti, che avrei lasciato. Sento bussare, entra Migliaccio.

    - So che dovete partire - dice. - Se non vi dispiace, vorremmo prima aggiustare quel conticino.

    - Non mi dispiace - rispondo -. Soltanto vorrei modificare quel vorremmo. Io, per esempio, non vorrei. Il vostro conticino, caro signor Migliaccio, è fenomenale -.

    In effetto, il conticino ammontava a 1534 lire e venti centesimi. Ammontare é ben detto. Quella somma era per me a dirittura l’Himalaya.

    Migliaccio si fa cupo, tutto chiuso nei suoi pensieri. Alla fine gli balena sulla faccia una luce, come se avesse fatta una scoperta. Così era.

    - Non avete il denaro? - domanda.

    - Se permettete, mio buon Migliaccio, coreggo anche qui. Non solo non ho il danaro, ma ho danari.

    - Niente?

    - Niente

    - O allora come si fa?

    - Trovate voi, ve ne prego. La buona intenzione c’è; è naturale che voi non ve ne contentiate.

    - Ma sì, ma sì, quando non c’è altro. E dunque assodato che danari non ce ne sono...

    - Perfettamente.

    - E che per ora non ne aspettate da nessuna parte -.

    Stetti un poco sopra di me. Mi susurrava nell’orecchio «quell’aspettami!» che mi avea fatto tanta paura e che ora mi sorrideva come una promessa. Risposi scoraggiato:

    - Pur troppo!

    - Bene - riprese Migliaccio come se quella mia esclamazione disperata lo empisse di gioia, - allora mi firmerete una cambiale. Volete?

    - Voglio sicuro.

    - A tre mesi...

    - Come vi piace.

    - No, è la consuetudine. Troverete intanto due firme.

    - Due che?...

    - Due firme, ho detto; due persone che vi garantiscano, via! Beninteso, persone solvibili.

    - Mi dispiace assai, caro Migliaccio, ma qui torniamo a discordare. Fra le persone di mia coscenza non se ne trovano di solvibili.

    - No?

    - No naturalmente. Voglio dire, mio buon amico, che se ce ne sono, non faranno mai la pazzia madornale di garentire in me una solvibilità che non esiste. Attesterebbero una bugia.

    - E allora come si fa?

    - Trovate voi, anche questa volta. Per me, se ve l’ho da dire, non c’è che un mezzo.

    - Sentiamolo.

    - Che vi contentiate della sola mia firma.

    - Ma è una cambiale di nuovo genere che voi mi proponete.

    - Non dico di no; è l’unico genere che sia a mia disposizione.

    - E come volete che faccia a girarla?

    - Giratela da quella parte che volete. Io non c’entro. È tutto quello che posso fare, mettendomi in mano vostra -.

    Migliaccio torna a tacere e medita. Dà intorno un’occhiata. Si ferma a guardare i calendari, l’oggetto più vistoso di tutta la camera, e ne attinge qualche idea salutare.

    - Quando è che partite? - chiede.

    - Domani. A mezzogiorno non mi trovereste più.

    - Ebbene, quand’è così - e tirava fuori il suo pingue portafogli - firmate -.

    Era la prima volta che mi vedevo davanti una di quelle strisce bianche. Si vede che il buon Migliaccio, da uomo previdente, avea subodorato il caso. Firmai senza un momento d’esitazione. Migliaccio guardò alla firma, vi soffiò sopra, ripiegò accuratamente la striscia, se la ripose fra le sue carte e rintascò il portafogli.

    Ci demmo la mano con una stretta piena di significato. Io pensavo: "Addio" egli volea dire "A rivederci!’.

    - Siamo ai 30 di Giugno - disse.

    - Per l’appunto.

    - Dunque, sarà per Settembre.

    - Il 30. Non dubitate. Come volete che me ne scordi? -

    Se n’andò tutto contrito. Era veramente un brav’uomo e mi voleva bene.

    * * *

    Tornai a Napoli, dove m’aspettava tutt’un’altra vita: una vita di calma e di ordine. Mi pareva essere uscito da un sogno tormentoso; avevo dormito male, tutto da una parte, e la persona n’era indolenzita. Dopo pochi giorni, com’era il mio dovere, mi presentai all’Intendenza di finanza e presi possesso del mio ufficio. Era un certo ufficio complicato, dove si spiccavano ordini di pagamento per 50 centesimi, dopo aver registrata la cospicua somma in tre squarcetti, due moduli e cinque protocolli. La cosa mi distraeva da altri pensieri, come è proprio di tutte quelle occupazioni meccaniche nelle quali il pensiero si addormenta: l’uomo divenuto macchina, agisce, non pensa. I superiori e i colleghi mi onoravano della loro stima; mi tenevano per una macchina eccelente. Qualunque fosse il numero dei miei giri in un mese, mi si retribuiva con 77 lire e 33 centesimi. Erano veramente 83, ma poi c’erano le così dette ritenute, per le quali il governo partecipava modestamente ai miei lucri, contentandosi di lire 5,67.

    Come avrei potuto con quella somma pagar la cambiale? Non ci pensavo più, passavano i giorni e le settimane. Di tanto in tanto, all’impensata mi suonava come da lontano quel misterioso «aspettami!» dell’allucinazione. Ma io niente aspettavo, niente speravo, niente tentavo. Che cosa avrei tentato? I miei amici erano danarosi o non erano. Che peccato che i non danarosi non si trovassero nelle condizioni di quegli altri! tutti, nessuno escluso sarebbero venuti in mio soccorso.

    Così un giorno dopo l’altro, arrivò il giorno 28 di Settembre. Avevo riscosso il giorno innanzi il mio stipendio, il quale si trovava già ridotto a lire 25,20: un pezzo d’oro, uno d’argento, due di bronzo. Sono scrupoloso nei particolari, perché importano molto all’intelligenza di quel che segue. Viene l’usciere ad annunziarmi che due signori desiderano parlarmi. Entrino pure. Mi salutavano cortesemente, ma con gravità. Uno di essi mi dice:

    - Scuserà se siamo venuti qualche giorno prima. È stato per semplice ricordo. Doman l’altro scade la cambiale.

    - Ah!... la cambiale di Migliaccio?

    - Per l’appunto. L’ha girata a noi -.

    L’avea dunque girata, egli dicea di non saper come fare per girarla! Non mi scrollai. Davanti ai solenni avvenimenti della vita si è o non si è eroi.

    - Bene, - risposi - ringrazio lor signori della cortesia. Vengano doman l’altro e saranno soddisfatti -.

    Mi parve di scorgere loro in volto una gioconda maraviglia. S’inchinarono e voltarono le spalle. Rimasi solo.

    La posizione era terribile. Per la prima volta, mi trovavo in una stretta come quella. Due giorni sarebbero passati presto, se due mesi erano passati come un lampo. Che cosa fare in due soli giorni? pagare era impossibile; non pagare era impossibile lo stesso. Delle 1534 lire della cambiale non ne possedevo che 25,20. Troppo poco. Non c’era via d’uscita. Tutti gli ordini di pagamento e i moduli e i protocolli mi balenavano davanti agli occhi con le loro cifre derisorie. 150 centesimi mi diventavano sotto la penna 50 e 500 lire. Non potevo star fermo; avevo bisogno di moto, di aria, di frastuono, di gente; tutto ciò era facile trovarlo. Avevo anche bisogno di danaro: ma questa era un’altra faccenda.

    * * *

    Fu allora che richiusi i registri, presi il cappello e scesi in fretta le scale di palazzo San Giacomo. Dieci minuti dopo, andavo su e giù in piazza Plebiscito.

    Perché andai a passeggiare in piazza Plebiscito?... Non l’ho mai saputo. Gli è forse che tutti i disperati cercano lo spazio e la solitudine. Camminavo adagio, con le mani in tasca, a capo basso; non già che cercassi in terra qualcosa, - no. Dico, per la verità della storia, che camminavo a capo basso. Non pensavo a niente, il che, checché i filosofi ne dicano, è perfettamente possibile. Avevo così misurato cinque o sei volte la vasta piazza, mi trovavo rivolto verso il palazzo della Prefettura, ma davvero non lo sapevo, non avevo coscienza del luogo e del tempo. Avrei camminato a quel modo per tutta l’eternità, novello Ebreo errante, ahimè! tutt’altro che Ebreo... Fu un attimo; per miracolo non fui schiacciato o arrotato. Dallo sterrato della piazza, sto per mettere il piede sulla striscia di via lastricata. Una carrozza chiusa, a tutta corsa, viene da destra rumoreggiando, mi è sopra, fo appena in tempo a ritrarmi d’un passo. Una figura di donna si sporge dallo sportello, il viso quasi mi tocca, mi abbaglia. Con una voce strana, che mi pare venir di lontano e che pure mi suona dentro e mi fa fremere per tutte le fibre, dice: - Gioca 3, primo -. Sparisce. La carozza è passata, monta al trotto per la via di fronte, non si vede più.

    Questo ch’io racconto l’ho detto in troppe parole. Il pensiero è meno rapido di tutta quella scena. Io ero desto e la luce del giorno era chiara. Così pure, in quell’attimo, era stata chiara e spiccata e tangibile la mia visione. A Napoli, nessuno mi conosceva. La donna mi pare di vederla anche adesso. Era vestita di bianco. Gli occhi e i capelli le nereggiavano. Quella voce lontana io la conoscea: somigliava un lieve e prolungato tremito di corde mosse da un’aura di vento. Era stata un’illusione? No, non era stata. Lo giuravo a me stesso; l’ho giurato dopo; lo giuro adesso che lo scrivo, trascorsi tanti anni.

    Non ebbi tempo a deliberare. Di fronte a me, sotto il palazzo della Prefettura, mi spalancava la porte, starei per dire le braccia, uno di cotesti botteghini del lotto. C’è ancora. Entro, vado diritto al banco, dove una ragazza dalla faccia tonda e scialba fa da commesso.

    - Giocatemi 3, primo estratto - grido. La ragazza fa stridere la penna sul registro. - Quanto? - Mi chiede.

    Caccio le mani in tasca, getto sul banco i miei quattro pezzi di moneta: l’oro, l’argento, il bronzo.

    - Sta bene - dice, e torna a scrivere.

    - Quanti pezzi?

    - 360 -.

    Piglio il biglietto, lo piego, lo intasco. Quando sono fuori, sento ad un tratto che la vista mi si snebbia. In verità, sono pentito e mortificato. Che pazzia mi ha preso? Non ho più un centesimo: non ho da comprare un sigaro; tutta la mia proprietà si riduce a un cencio di foglio turchino... È vero; sono forse 360 pezzi; 1800 lire... Eh via! Dove mai s’è dato un caso simile, che le signore diano i numeri dagli sportelli delle carozze?... Non racconterò il fatto a nessuno; non mi farò canzonare. Torno a casa, evitando la gente, in una affliggente depressione di spirito. Era un Venerdì. Un granello di speranza mi avanzava sempre. I giocatori di lotto m’intendono; la speranza decresce in ragione inversa del tempo. Quando s’arriva al Sabato, si spera meno; quando scocca l’ora dell’estrazione, la speranza è perduta affatto.

    Così pure accadde a me. Non chiusi occhio per tutta la notte, un po’ m’assopii verso l’alba; tutta la mattina me ne stetti in casa. Dove sarei andato e a che fare?

    Erano battute le quattro, quando mi decisi di uscire. Sempre solo, più desolato di prima, mi avvio a caso. Traverso piazza Municipio, vado verso il mare, eccomi in via del Piliero. La verità è che tremo un poco, ma non so perché: forse perché la cambiale scade il giorno appresso. Si pagano di Domenica le cambiali?... Non lo so, non mi ci fermo, tutti i giorni sono uguali per chi è sempre eguale a sé stesso. Nella tasca sinistra dei calzoni giace il biglietto turchino, ultima àncora di salvezza. Lo tengo forte con la mano, lo stringo, lo gualcisco, come se volessi spremerne magari la mia giocata. C’era o non c’era stata la visione della signora bianca?... Vado avanti, sono un po’ miope, mi par di vedere un gruppo di persone raccolte davanti a una bottega chiusa e con le facce volte in aria, a guisa dei ciechi quando vogliono parlare. È così senz’altro. Quello è un botteghino di lotto, e il cartellino dell’estrazione dev’essere appiccicato all’imposta. Quelli lì sono giocatori disillusi. Rallento il passo e tremo più forte. Mi accosto alle spalle del gruppo, alzo gli occhi per guardare... C’è in alto il cartellino manoscritto. Tutto è perduto!... vedo, non so bene, un 30 o un 33. Non so, dico. Non mi preme di accertarmene, mi allontano e procedo. Vado dove il caso mi porta, dove le gambe vogliono, che non hanno più forza e si piegano.

    Venti passi più in là, ad una cantonata, discorrono fra loro con voce grossa alcuni cocchieri di carrozzella. Sono discesi dalle serpi e discutono. Hanno in mano e si vanno mostrando certi biglietti turchini. Fanno gesti violenti e gridano parolacce. Mi fermo, mi fo animo. Domando timidamente a quello che mi sembra il meno irritato:

    - Brav’uomo, che numeri son sortiti? - Mi si rivolta contro come morsicato da un aspide e mi risponde con una bestemmia: - È asciuto u 3 primm’aletto...

    - Il 3! il 3! hai detto il 3!... -

    Prendo una corsa disperata, son fuori di me; mi fermo ansante, dopo venti minuti. Respiro e mi guardo intorno. Mi trovo, con mia grande sorpresa, sotto la grande tettoia della stazione della ferrovia. Perché? domandate voi. Non lo so, è un fatto. Dipingevano di bistro il fondo di quella tettoia. Alcune gocce di colore mi caddero dalla impalcatura sul cappello e sui calzoni.

    Ma io ero un signore, la mia fortuna era fatta. Con un orgoglio da re aspettai la mattina del Lunedì che si venisse a riscuotere da quella gente. Pagai. Mi avanzavano oltre 200 lire. La sera andai a ballare a casa del mio amico Garofalo. Tutto il giorno appresso, e molto tempo dopo, ed anche oggi, pensai e penso alla signora bianca dagli occhi neri o fosforescenti. Chi sa...?


    Racconti inverisimili di Picche, 1886




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