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Federigo Verdinois
Manoscritto
Non ho mai fatto la descrizione di una battaglia, e non la farei. Di battaglie non ne ho mai viste. Il lettore, se c’è stato, sa di che si tratta; se non c’è stato, se la figuri.
E si figuri se non gli dispiace, la battaglia di Danzica.
Questa prima parte del racconto, raccolta da relazioni verbali, sarà piuttosto magra. Io non so colorire le cose che non ho visto, né conosco gli uomini che non ho mai conosciuto. La metto qui, perché si possa intendere la seconda parte, della quale non ho merito né colpa, perché né l’ho inventata né la riferisco per sentito dire. Sarò lettore anch’io e leggeremo insieme.
Dunque, alla battaglia di Danzica, due giovani ufficiali francesi combattono come leoni l’uno a fianco dell’altro: il luogotenente De Montreuil e il capitano conte Duplessy. Sono amici d’infanzia e hanno fatto insieme gli studi al Politecnico, hanno sempre vissuto l’uno per l’altro: due anime ed un nòcciolo. Scapoli tutti e due. Sfidano la morte, ma pare che la morte li voglia risparmiare. L’uno difende l’altro.
Ad un tratto, in mezzo al rimbombo e al fumo delle artiglierie, un grido si leva:
- Addio, Duplessy! muoio -.
Il capitano si slancia verso la parte donde il grido è venuto, a pochi passi. Si china, mette un ginocchio in terra, prende l’amico fra le braccia, lo solleva alquanto. Una scheggia di mitraglia gli ha squarciato il petto, e dalla ferita vien fuori il sangue gorgogliando.
Brevi momenti di vita gli avanzano. Balbetta poche e confuse parole. Gli raccomanda la povera sorella.
Duplessy piange, lo bacia in fronte.
- Non piangere - sussurra De Montreuil - ci rivedremo in un’altra vita.
- Addio, addio, mio povero amico! - singhiozza Duplessy.
- No, non addio, a rivederci! -
Questa fede profonda non vale a lenire il dolore dell’ufficiale. Vorrebbe credere, ma non può.
- Senti - dice - se c’è un’altra vita, e tu dimmelo.
- Come?
- Non adesso, non adesso. Ricordati dell’amico tuo...
- Sempre.
- E torna a me, torna un momento solo, con una parola, con un cenno, con un pensiero, con un sogno.
- Tornerò - potè appena balbettare il morente.
- Torna - insistette l’amico, che la foga del dolore soffocava - torna nel momento supremo della mia morte, quando saremo per ricongiungerci, se è vero che un’altra vita esiste.
- Tornerò - ripetette De Montreuil.
- Me lo giuri?
- Te lo giuro -.
Un fiotto di sangue gli mozzò la parola. Il corpo si scosse in uno spasimo supremo e ricadde inerte.
Il luogotenente De Montreuil non era più di questo mondo.
* * *
Il viaggio da Firenze a Pistoia è così monotono e uggioso che non merita davvero il nome di gita. Non me n’avvidi che al ritorno, perché la solitudine c’induce prima la malinconia e poi la tristezza: qualche volta il sonno. Insieme con Gaetano Milone, mio amicissimo, s’andava a Lucignano, dov’egli occupava l’alta carica di ricevitore del Registro. Da tanto tempo non ci vedevamo, epperò la conversazione era animata ed arruffata, ciascuno volendo narrare i propri casi e tutti e due frammezzando il discorso di tanti «ti ricordi?» espressione di antica dimestichezza e di rammarico. Eravamo giovani e già il pensiero di non essere più fanciulli ci pungeva. Che diremmo oggi, amico Gaetano, oggi che anche la gioventù ci ha lasciati?
- Sicché - mi domanda Gaetano - tu hai sempre scritto?
- Bene e male, sì - rispondo, con una tal quale incertezza e con un po’ di rimorso.
- E scrivi sempre?
- Naturalmente.
- O come fai a trovare gli argomenti? -
Era la cosa più facile di questo mondo. Gliela spiegai alla meglio e mi accorsi ch’egli non ci credeva.
- Del resto - soggiunsi - son di manica larga, sai. Se me ne dai uno tu, me lo piglio.
- Io?
- Tu -.
Sorrise e stette alquanto sovrappensiero. Poi disse:
Figurati che poesia in un ufficio del Registro! Eppure te lo darò, e tu ne farai una novella.
- O bravo! sentiamo.
- No, parliamo d’altro adesso. So di che si tratta, ma non son buono a raccontare storielle. Ti darò il manoscritto originale.
- Tuo?
- No. L’ho trovato fra le carte di mio padre, e non so chi ne sia l’autore o il copiatore, perché si tratta di copia. È un quadernetto di carta giallita, scritto con un inchiostro che appena si legge. Ma il fatto è bello, te l’assicuro; credo che sia storico.
- Ah!
- Perché fai «ah?»
- Perché il genere storico non è il mio genere. Basta, lo piglierò lo stesso e vedremo -.
E così, quando partii da Lucignano, portai via il manoscritto. L’ho tenuto tanto tempo sepolto sotto un monte di fogliacci. Una sera, presolo a caso, lo squadernai e lo lessi tutto. Eccolo tale e quale.
«Copia di una lettera spedita in data 15 giugno 1813 da Lione a Napoli».
Tu mi domandi troppe cose in una volta, amico mio, ed è probabile ch’io non risponda a nessuna. Aspetto meglio che tu dica a me le belle e le nuove cose, tu che stai in su e te la fai coi ministri e con la signoria; e poi aver notizie dal proprio paese è sempre una consolazione per chi ne sta lontano e non trova il verso di acconciarsi a un paese nuovo. Sai, le città sono come i vestiti, almeno per me; e il vestito vecchio mi sembra più veramente mio e ci sto dentro a tutto comodo. Non dico così per screditarti Lione; ci son venuto e ci starò, fino a quando non piacerà al Signore di dare un migliore avviamento ai fatti miei e di trovar maniera che i commerci si possano fare a breve distanza, da via a via, da casa a casa, senza bisogno di mandar correndo pel mondo un pover’uomo. Dunque, come ti dico, Lione può anche passare per una bella città, che non mi piace; ma questo, come capisci, è il difetto mio. Ha qualche duecento migliaia di abitanti e non so quante manifatture e un diavoleto di commercio, che non è però così chiassoso come quello nostro di Napoli. Di questo non t’importa niente, ed è naturale. Io però non me la fo e non me la farò che col mio mondo, il quale, per la mia natura schiva e tranquilla, è ristretto in brevi confini. Tu vivi in ben altro mondo. Che ti ho da dire?
Ho conosciuto qui un certo Vernon, che dice di essere tuo amico. Ma io non ci credo, perché dice tante cose, e pretende di averti incontrato in casa del ministro Zurlo. È vero? E poi nemmeno lui mi piace, benché sia un grazioso e brillante ufficiale. Se è vero che egli è tuo amico, gli avrai detto, spero, di non fare il passo più lungo della gamba. Ma egli, si vede, non ti ha dato retta. Spende e spande; benché Francese, affetta tutta l’espansione di un Napoletano ed ha tutta l’albagia di uno Spagnuolo. Va per tutte le case, per le migliori, beninteso; e lo ripete cento volte al minuto perché vuole che tutti lo sappiano. Mi ha invitato a passare con lui qualche serata, in una delle case più signorili. Io non volevo accettare. Fuggo il chiasso e le nuove conoscenze, perché quello m’introna e queste sono sempre un pericolo per una persona cui piace di farsi il fatto suo. Ma per non essere scortese e per non parere più rospo di quel che non sono, ho dovuto accettare e mi son lasciato trascinare.
Ed ecco come son venuto a conoscere per la prima volta una signora di questi paesi, che è anche la più bella donna che si possa figurare un uomo della mia fatta, il quale ne ha viste pochine ed ha paura di conoscerne di molte.
Tu qui ti figurerai subito un romanzo, in cui il protagonista dovrei essere io. Ci sei e non ci sei, ti dirò poi. Aspetta che te la descriva. Prima di tutto si chiama Eugenia ed è baronessa. È una donna sui trentacinque o sui quaranta, ma sembra in verità che ne abbia venti. Grande, complessa, levigata, con una bianchezza di carnagione che non ce n’è un’altra e con due occhi neri come carboni. Li muove poi in un certo modo ed ha certi atti graziosi, come dice Vernon, che gli hanno tutte queste benedette Francesi, che non si può star fermi a guardarle. Vedi se sono acceso. Però ti ho detto questo, non per me, che non c’entro, ma per farti intendere quello che voglio dire appresso. Io, in somma, non ho fatto e non fo che ammirarla, e tu, non ti aspettare altro, e non temere di niente. C’è altri invece che l’ammira più di me, e non credo che abbia torto; benché, a dirti la verità la mi secchi un poco, visto che non m’è piaciuto mai trovarmi negli impicci, anche come semplice testimone delle cose strane che accadono agli altri. Le stranezze non mi son mai andate a sangue.
Tu non capirai troppo questo mio latino. Forse mi spiegherò meglio, se ne sarà il caso. Subodoro un dramma. Così, se te ne scrivo, le mie lettere saranno più svariate e interessanti che se ti parlassi di me, il quale non fo niente, non penso a niente e non m’impiccio di niente.
Sta sano e non ti scordare dell’amico che ti vuol bene.
MICHELE
«Copia di una lettera spedita in data 23 giugno 1813 da Lione a Napoli».
Per la prima volta in vita mia manco a una promessa o piuttosto la mantengo a mezzo e ci fo ogni sorta di restrizioni mentali. Potrei a dirittura non scrivere; ma tu mi ci obblighi, volendo in tutti i modi ch’io ti parli di me e delle cose che mi succedono, io che son forse l’unica persona al mondo cui non sia successo mai niente.
Vedi bene che piglio le vie larghe e fuggo le scorciatoie, tanto mi riesce malagevole il nascondere la verità o il velarla in parte. Sia come si voglia, tu hai da pigliarmi come sono. Parrebbe dunque che il Vernon tu lo conosca davvero e sia quella eccellente persona che tu dici. Figurati se mi vi oppongo, tanto più che al tuo giudizio si aggiunge il gran conto che di lui fa il ministro Zurlo. Ho forse inteso male, credendo che anche il re ne ha molta stima in qualità di amico intimo di uno dei suoi più cari compagni d’arme? In somma, tante considerazioni mi ligano la lingua e la mano, non già perché io dubiti di te, ma piuttosto perché non posso avere in me stesso la fiducia di prima, essendomi ingannato non poco sul giudizio dato alla prima sulla persona del brillante ufficiale.
Il dramma ci sarà o non ci sarà, lasciamo andare; non è prudente immischiarsi nelle faccende altrui, tanto più quando sono faccende che si svolgono fuori di noi, senza nostro intervento, alle quali non prendiamo altra parte che di testimoni.
No, senti, il tuo sospetto ch’io mi possa innamorare mi ha fatto ridere di cuore. Ciò non toglie mente affatto alle qualità veramente singolari di una signora come la baronessa Duplessy. Quanto te n’ho detto è anche poco, visto che io non ci ho messo dentro quel calore che avrei dovuto e che tu gratuitamente mi attribuisci. La baronessa è una donna eccezionale non solo per la bellezza giunonica della persona e per la dignità grande e nondimeno graziosa degli atti e delle parole, ma per la cultura varia e gentile, per la conversazione vivace, per quella prontezza, che questi Francesi hanno in grado eminente, di essere amabili sempre e con tutti, di metter su e di tener desto un qualunque argomento nudrito di niente e di pigliare a cuore tutto ciò che gli altri dicono, quando pure non possa loro premere gran fatto. Aggiungi a questo un’altra qualità nuova, che sulle prime non avevo scoperto, e che per me rende questa donna un vero modello di perfezione. La baronessa pure essendo donna di gran mondo, sa essere nel tempo stesso, ed è, una donna di casa, una donna, come intendo io le donne, buona e assegnata cioè profondamente innamorata del marito. Di ciò mi sono avveduto a più segni, e lo stesso Vernon, che è intimo della casa, lo riconosce volentieri, benché la sua naturale leggerezza non gli dovrebbe fare apprezzare un merito che per gli scapoli come lui è peccato mortale. Forse non è estranea a cotesto suo sentimento l’amicizia che lo lega al generale e il rispetto che questi incute con la nobilità affettuosa del suo carattere.
La baronessa, se non lo sai, e non lo puoi sapere perché non te l’ho detto, benché non faccia che parlarti di lei, la baronessa deve amare il generale per due ragioni forti; per quella che or ora t’ho accennata e per un’altra: ragione di cuore e ragione di memoria, se così posso dire; e tutte e due vengono in parte a cancellare un certo divario d’età che a momenti dà al generale l’aria d’uno zio o d’un tutore.
Se vuoi il dramma, visto che un dramma t’ho promesso, ecco il dramma, il quale s’è svolto tanti anni fa e s’è risoluto in una catastrofe, e che nondimeno mi ha commosso ier l’altro sera fino alle lagrime, come se ne fossi stato testimone. Anche la baronessa piangeva, il che mi ha provato luminosamente la bontà dell’animo di lei e come le donne siano delicate nel conservare la religione di certi affetti e di certe memorie. Il fatto era narrato dallo stesso generale a Vernon e a me e a parecchi altri amici che pel solito si raccolgono in casa di lui. Qualcuno già lo sapeva, altri no; ed io era fra questi ultimi. La baronessa, dunque, per singolare che la cosa ti possa parere, si è sposata al generale in seguito a una battaglia e alla presa di una piazza. Non fu lui il generale che prese la piazza, perché allora non era che capitano e il suo generale si chiamava Lefebvre. Invece prese moglie. Si batteva da disperato, ed insieme con lui era un amico d’infanzia, quasi un fratello, un certo De Montreuil, luogotenente. Questi gli morì ucciso fra le braccia. Ora la baronessa è per l’appunto una De Montreuil, sorella del morto. L’ultimo pensiero del povero ufficiale ferito fu per la sorella, che rimaneva sola al mondo, senza fortuna e senza protezione. La raccomandò all’amico. Tu capisci il resto. Il capitano, benché fosse più grande di venti anni, volle dare il proprio nome alla giovinetta di quindici. Il sentimento di protezione si andò mutando a poco a poco in affetto, e poi in amore; e così in lei alla fiducia tenne dietro la gratitudine e a questa si aggiunse in seguito un sentimento più tenero e duraturo.
Ti avrei voluto presente a questo racconto, e non avresti trovata strana la mia narrazione. Bisognava vedere con che calore il generale rievocava quel suo passato e come dipingeva la battaglia e quegli ultimi momenti dell’addio, e come si addolcisse nei modi e nella voce quando venne a parlare di lei ch’era presente, della sorella dell’amico suo, di tutto l’amore che le portava. La baronessa, benché non dicesse parola, esprimeva con gli occhi più di quanto avrebbe potuto dire il discorso più eloquente; e Vernon, anche lui, se ne stava ad ascoltare in silenzio e con deferenza, ed era pallido come dovevo essere anch’io. Fatto sta che il generale parlava di cotesto suo De Montreuil come di persona viva, tanto lo aveva presente, e diceva di rivederne i tratti, e ce li descriveva, non solo nel viso ma anche e molto più nel cuore della sua Eugenia.
Eccoti dunque il dramma, poiché lo volevi, e vedi bene che io non ci avevo parte per nessun verso. Non t’ho detto, né mi pare di averti dato luogo a sospettare, che ce ne sia un altro dei drammi oltre a questo. Se qualche parola m’è sfuggita in principio sul conto di Vernon, gli è che non lo conoscevo; né adesso mi so spiegare in che maniera io fossi andato architettando tutto un edificio di sospetti e fabbricandolo sull’arena. Tu poi non correre con la fantasia più in là di quanto io ti dico né mi far dire certe cose che non ho detto? È vero, e te lo ripeto, che Vernon non gode tutte le mie simpatie; ma ciò non intacca punto la sua rispettabilità, né mi dà il diritto - e molto meno lo può dare a te - di pensare men che bene del suo carattere integro di militare e di amico. Contèntati del dramma storico e non chiedere altro. Ne sono contento anch’io; perché se fosse stato altrimenti, te l’assicuro pel bene che ti voglio, mi sarei allontanato prima d’adesso dal teatro degli avvenimenti, tornando a quella tranquillità di pensieri e di fatti che è costante mia aspirazione e che auguro con tutto il cuore a te e a tutte le persone oneste. Ti abbraccio col solito affetto.
MICHELE
«Copia di una lettera in data 21 agosto 1813 da Lione a Napoli».
Se per tanto tempo non t’ho scritto, adesso ne saprai il perché. Una mia breve letterina, dove ti davo l’annunzio del fatto, o non t’è stata recapitata o t’è sembrata insufficiente. In somma, tu vuoi sapere di più, forse perché ti pare che la lontananza abbia potuto esagerare le voci o mutare le linee generali di un avvenimento, che ha tutti i caratteri del favoloso e che vien riferito in tanti modi diversi per quante sono le persone che lo raccontano.
Io, che ne sono stato testimone, mi trovo in grado di dirti tutto; e dico a te quel che ad altri non direi, perché, a quanto rilevo dalla tua lettera, la notizia prima, per quanto incredibile, ti è venuta dallo stesso conte Zurlo, il quale pare l’abbia raccolta in Corte dalla bocca stessa del Sovrano. Così la cosa ti parrà meno strana di quanto è in effetto e non sarai corrivo a darmi del burlone o del novellatore.
In verità, son così poco l’uno o l’altro, che anche adesso, nell’accingermi a narrarti la tremenda catastrofe, mi sento turbato profondamente, e duro fatica a raccogliere le mie idee.
Come dunque ti è noto, era la sera del 3 di questo mese, e si stava tutti raccolti in casa del generale Duplessy, per solennizzare una festa di famiglia, la nascita della sua bambina di cui ricorreva il quarto anniversario. Quando dico tutti, bisogna intendere che eravamo anche in maggior numero del solito: una diecina d’amici e due signore vicine che erano venute a far visita alla moglie del generale. Mancava Vernon; e a prima sera io credetti, e così credevano tutti, ch’egli sarebbe arrivato più tardi, trattenuto forse da qualche sua faccenda, da una partita a carte o da qualche suo intrighetto amoroso. Il generale domandava a tutti i momenti: "Dov’è il mio caro Vernon? com’è che non si vede?" Perché davvero, col suo spirito vivace e irrequieto, con quella sua turbolenza che in principio mi dispiaceva, egli dava anima alla conversazione, si moltiplicava, discorreva senza posa di tutto e con tutti e faceva pensare che le dieci persone fossero venti o trenta. Povero Vernon, chi l’avrebbe mai detto. Ti giuro che anche adesso, benché dia ragione a quel mio primo sentimento di ripulsione da lui ispiratomi, non mi so liberare da una profonda pietà per la sua sorte sciagurata!
Basta, egli non veniva e non venne: tanto che verso la fine della serata, lo stesso generale, messosi l’animo in pace, non lo cercò altrimenti e si abbandonò volentieri alla dolcezza del suo sentimento di padre e di sposo e della conversazione familiare tutta spirante affetto ed onesta gaiezza.
Ti confesso schiettamente, per quanto la cosa non torni a lode del mio spirito di osservazione, che il contegno della baronessa Eugenia non mi sembrò per nulla diverso dal solito. Sicché quello che dirò qui è frutto piuttosto della mia memoria che di altro. O se pure qualche ombra fugace mi passò davanti, questa non prese corpo di sospetto, ed io pensai più volentieri a una cattiva disposizione del mio umore, anzi che a un qualunque turbamento in persona della bella padrona di casa.
Poco prima della mezzanotte - forse mancava mezz’ora o tre quarti - si sparecchiò la tavola da una specie di cenetta che ci era stata offerta, e in fine della quale la bambina del generale aveva declamato, con una vocina commossa e tutta rossa in viso, certi versetti menati a mente in onore e in augurio degli amati genitori cui augurava col suo cuoricino cento anni di vita e di felicità. N’era stata compensata col più gran successo che sia mai toccato ad alcun poeta al mondo, perché il babbo e la mamma e tutti noi, uno per uno, si volle abbracciarla e baciarla e farle cento domande. Negli occhi del generale, pel solito così fieri ed arditi, scersi una lagrima di tenerezza ch’egli non cercò di nascondere e che fu accompagnata da un sorriso di affetto e di bontà rivolto alla moglie. Poi, stando in queste dimostrazioni intime e soavi, si pensò anche a metter su qualche giochetto, per prolungare la serata oltre l’usato, dopo che la bambina fosse stata messa a letto. E così fu fatto; perché, chiamata la governante, la cara angioletta diè a tutti la buona notte e sparì con quella come una visione.
Mi studio di dirti le cose in ordine; ma sento che non vi riesco come vorrei. Perdonami e vieni tu in aiuto al mio difetto. Fu allora dunque, dopo qualche momento che la bambina ci aveva lasciati, che un servo si mostrò sulla soglia del salotto e domandò licenza di venire avanti.
Ottenutala, si avanzò verso il suo padrone e rispettosamente gli disse qualche parola a bassa voce.
"A quest’ora!" esclamò il generale. "Dite che non ricevo. Ed io che avevo pensato si trattasse di Vernon!"
"Dice che la cosa è urgentissima" ribattè con ossequio il servo.
"Chi è?" domandò la baronessa, che in quel momento, come dopo mi son ricordato, era pallida e nervosa.
"È anche possibile che sia quel matto di Vernon" feci notare io "il quale abbia voluto fare uno scherzo".
"No" rispose il servo a un’occhiata interrogativa del padrone "non è il luogotenente Vernon".
"Bene" conchiuse il generale "andate. Non ricevo a quest’ora".
Il servo obbedì con una certa riluttanza, come se fosse persuaso dell’inutilità di quell’imbasciata. Difatti, lo vedemmo tornare di lì a poco e di nuovo accostarsi al padrone. Questa volta si chinò alquanto, quasi per non essere udito dagli altri.
"Ancora?" esclamò il generale con impazienza.
Il servo si chinò più basso e bisbigliò qualche parola, che non giunse fino a noi.
"Impossibile!" gridò il generale, balzando di scatto in piedi.
E, senza rispondere altrimenti alle domande affrettate della moglie e nostre, uscì dal salotto, precedendo il servo che si tirò da parte per farlo passare.
Rimanemmo in silenzio, aspettando. Non so come, quel nostro silenzio era forzato e quell’aspettazione aveva in sé del pauroso. Nessuno fra noi avrebbe potuto dire di temere qualche cosa; eppure tutti temevano, o per meglio dire tutti ci sentivamo come sotto l’oppressura di una forza arcana, come soffocati da un’aria grave e minacciosa.
Così fu che, all’udire un passo che veniva di fuori, tutti ci volgemmo ad un tempo verso la porta.
Il generale tornava. Entrò lentamente, andò al suo posto di prima e non si mise a sedere. Appoggiò le mani alla spalliera della sua poltrona e stette muto. Era pallidissimo. Mi parve vederlo invecchiato di dieci anni, tanto erano visibili le rughe che gli solcavano la fronte.
"Ebbene?" diss’io per il primo, osando di rompere quel silenzio penoso.
Il generale alzò gli occhi e li girò intorno guardandoci bene il viso, come per riconoscerci. Poi sorrise leggermente; ma quel suo sorriso aveva non so che di lugubre e di spettrale.
"Sentite" disse alla fine "accade qualche cosa di terribile".
Questa parola in bocca d’un uomo come il generale Duplessy era terribile veramente.
Pendevamo dalle sue labbra, trattenendo quasi il respiro. La baronessa s’era alzata e gli era andata vicino e in atto amorevole gli avea messo una mano sulla spalla.
Il generale la guardò e fu preso a un tratto da una commozione violenta, che si studiò subito di contenere. Poi, rivolto a noi, disse semplicemente e con voce lenta e pronunciando bene ciascuna parola:
"Ci lasceremo fra poco. Forse non ci rivedremo più".
E mentre qualcuno faceva per rispondere, egli soggiunse:
"Manca a mezzanotte un quarto d’ora".
Avea fatto uno sforzo e fu obbligato di mettersi a sedere. Gli tornò sulle labbra quel sorriso di prima, come se volesse anticipare l’effetto che avrebbe prodotto in noi la sua comunicazione. Poi disse:
"Ho avuto or ora una visita dall’altro mondo. Ho riveduto l’amico De Montreuil".
Per quanto la cosa fosse detta sul serio e quasi solennemente, non ci fu in mezzo a noi un solo che non sorridesse. Anzi qualcuno levò la voce, cercando di assumere un tono di allegria e d’incredulità.
Il generale non si oppose recisamente. Si contentò di crollare il capo, mentre soggiungeva:
"Ha mantenuto la promessa. Mi ha avvertito dell’ora della mia morte".
Poi guardando all’orologio a pendolo attaccato alla parete che aveva alle spalle,
"Mancano ancora dieci minuti", conchiuse.
Difatti, mancavano dieci minuti a mezzanotte. Ma la cosa era così strana che ci sarebbe sembrata puerile, se non fosse stato il gran rispetto che avevamo pel generale, e più ancora l’agitazione dalla quale lo vedevamo in preda. Ci guardavamo l’un l’altro e uno stesso pensiero balenò a tutti, che ci fece temere della ragione del nostro amico. Almeno ci fosse stato Vernon, che avea tanto potere su di lui! Per tutto il resto, e a parte la impossibilità di quella comunicazione soprannaturale, il generale era un uomo forte, che avea salute da vendere e non avea niente affatto l’aspetto di un uomo che stia in fine di vita. Tutte queste riflessioni furono fatte dagli altri e da me, rapidamente, né per alcun segno ce le comunicammo. Si cercò in tutti i modi di calmare il generale e di persuaderlo della vanità della sua allucinazione. Parve egli stesso rassicurarsi o ne fece le viste. Uno di noi anzi, con grande accortezza e sollecitudine, seppe accostarsi all’orologio a pendolo e con un dito ne avanzò le lancette.
Poi tornò nel circolo, come se niente fosse, proponendo:
"Bene. Resteremo qui a far compagnia al generale fino a mezzanotte e un quarto. Così almeno l’ora fatale ci troverà insieme e noi la saluteremo come l’ora della gioia e della speranza".
La proposta fu accettata con entusiasmo. Lo stesso generale e la baronessa se ne mostrarono contenti.
Si udì un primo squillo, poi un altro ed un altro. L’orologio batteva la mezzanotte.
Non ti nascondo la verità; io stesso mi sentii come sollevato da un gran peso, e trassi un sospiro di sollievo. La baronessa tornò a sorridere e ad animarsi. Il generale, benché sempre incerto e turbato, parve uscisse da un sogno e si guardò intorno con un sentimento rinnovellato e più forte di affetto e di benessere.
Quello che accade dopo, eccolo. Noi tutti ci accomiatammo, di lì a poco, quando l’indice dell’orologio stava per toccare un quarto dopo la mezzanotte. Eravamo contenti di vedere quasi del tutto rassicurato il generale e nell’andar via ci si rallegrava l’un l’altro dell’inganno innocente, che gli avremmo senz’altro rivelato il giorno appresso.
Quando furono soli - come seppi dopo e come sai tu stesso - il generale entrò in una camera contigua a quella della baronessa e si accostò ad un armadio per toglierne non so che cosa. Pose la mano sulla chiave, trasse a sé gli sportelli. Nel punto stesso, una detonazione si udì e una nube di fumo empì la camera.
Il generale Duplessy cadeva fulminato da un colpo di pistola partito dall’interno dell’armadio.
Questa è la storia vera dei fatti. Vernon, giudicato e condannato dalla Corte marziale, è stato fucilato nella schiena.
In quanto alla baronessa e alla sua bambina, t’importerà di sapere...».
* * *
Manca il resto del manoscritto. Una noterella a piè di pagina, vergata nella stessa scrittura delle tre copie, dice:
«A muliere initium factum est peccati, et per illam omnes morimur.
Convertere, Domine, et eripe animam meam: salvum me fac propter misericordiam tuam. Amen».
Racconti inverisimili di Picche, 1886