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Federigo Verdinois
Parva favilla
In un momento, quando ancora era la notte, rompendo il cielo profondo la primissima luce, la luce bianca che dovea versare dalla sua fonte perenne onde inesauribili sull’informe compagine del creato, e che ancora, perché non desse un guizzo, stava imprigionata nelle più remote regioni dove non era che lo Spirito nella sua immensa solitudine, in un momento un grande scricchiolio suonò nella continuità degli spazi, e parve che il cielo gravemente si scuotesse sui cardini suoi come la nave immane freme nelle viscere dello scafo e tentenna quando piglia l’abbrivo. Era il moto che incominciava, misurato, uniforme, dagli ampi giri tardi e faticosi. Il moto, cioé il primo calore, la prima vita, il primo barlume della grande anima universale che s’appurava in cielo prima di volgere il volo rovinoso verso la terra e di frangersi in miliardi di piccole anime incomplete; vaganti, bisognose l’una dell’altra. Suonò uno scricchiolio sordo e potente, uno sconnettersi, uno stridere di ruote e d’ingranaggi, un fregamento rugginoso, un sibilo continuo dell’aria per la prima volta percossa, fino allora morta e stagnante, e che paurosa di sé stessa palpitava e si spandeva intorno sottile e sonora, assorbiva in minutissime particelle e diffondeva per tutto il suo corpo quel debole raggio della luce piovuta dall’alto. E a quel primo scricchiolio ne seguì un secondo, e poi un immenso ronzìo, e poi di tratto in tratto lo scoppio aspro ed improvviso di uno spacco che, ripercosso da un’eco in un’altra, cresceva fino allo schianto e al rimbombo del tuono.
E la macchina immane pazientemente congegnata dallo Spirito, quando i secoli non erano, nei suoi ozî infiniti, mossa da quel primo soffio spiratole dentro che era il tepore debolissimo del primo bagliore della luce, incominciò pesantemente il suo moto di rotazione che doveva a poco a poco, in tanti giri, portarla alla vita, attraverso il giro lungo dei secoli che iniziavano il loro corso partendo da quel primo battito, da quello scricchiolio, che era il vagito del primo minuto sul quale tanti e tanti altri minuti si sarebbero accumulati; e lo Spirito vide che tutto questo era buono e si compiacque dell’opera sua con un sorriso che fece più viva la fioca luce di quel mondo celeste. Aveva creato il tempo, fastidito forse dell’eternità; e lo vedeva muoversi in questo primo mondo uscitogli dalle mani, che era il paradiso, l’opera sua più perfetta e che doveva poi da sé solo aver tanta vita da darne parte agli infiniti altri mondi disseminati nello spazio.
Era un paradiso di acero, tutto commettiture, tutto congegni, con le immense volte dei cieli roteanti tirate a pulitura. Un paradiso bianco e lucente che avrebbe abbagliato ogni occhio mortale, se ci fossero stati occhi per vedere: nessuna tinta, nessuna varietà di colore. Una miriade di esseri popolava lo spazio sconfinato; e anch’essi erano bianchi come i cieli soprastanti e anch’essi fabbricati della stessa materia, e anch’essi consentivano al moto universale e roteavano coi cieli. E la pace era grande, come era grande il frastuono, perché ciascuno di quegli esseri seguiva ubbidiente l’orbita sua, e non uno cozzava in un altro, e tutto era ordine ed armonia come dev’essere in paradiso. Un canto si levava a coro da quelle bocche di legno, il quale suonava come uno strumento caricato,con un suono eguale, cadenzato, aspro, senza scotimenti o volate. Giravano, giravano, sotto le smisurate impalcature giranti, uno strato sull’altro, uno stormo dopo l’altro, come se si provassero al volo, a rompere gli strati profondi dell’aria, prima di fenderla e batterla con l’ali spiegate. Avevano le ali come i corpi, bianche, lucide, rigide, scolpite; le braccia incavigliate;le bocche incise e atteggiate ad un solo sorriso immutabile; gli occhi imbullettati e fissi e senza splendore; le palpebre immobili. Nessuna vita, oltre quella rotazione uniforme, nessun segno che rompesse quella solenne armonia.
E l’aria palpitava sempre e si spandeva intorno sottile e sonora, assorbendo e diffondendo per tutto il suo corpo in minutissime particelle quel debole raggio della prima luce piovuta dall’alto. E crescevano la luce e il calore. E seguì allora, fra quella girante popolazione di legno, qua e là, qualche segno impercettibile di un altro moto, e suonarono strani strisciamenti e scoppiettii, e qualche punta di ala battè, e qualche braccio si snodò stridendo e cigolando, e degli occhi si schiusero e si aprirono sotto il battito eguale delle palpebre, e un debolissimo colore, una trasparenza indistinta, una tenue varietà di tinte come di perle in bianche fronti si diffuse per tutto, e ondeggiarono all’aria falde sottilissime di acero e chiome fluenti di trucioli.
E giravano sempre, giravano tutti insieme, stridendo, scricchiolando, accelerando il moto, mentre si tingeva di un leggerissimo velo opalino e rosato quell’immenso pallore del cielo. E giravano sempre, giravano faticosamente, ora ascendendo al sommo delle curve maestose, ora precipitando in basso e ripigliando nuova lena ad ascendere. Ed erano più frequenti gli scoppii del legno non ancora stagionato, e gli sfregamenti, e lo sbattere secco delle ali, e il cigolio delle ruote, e lo stridere dei congegni. E nondimeno tutto era pace come deve essere in paradiso, benché crescesse il frastuono e l’aria commossa sibilasse più acuta e facesse rumoreggiare intorno gli echi profondi.
Qua e là vedevasi qualche coppia bianca e stecchita e dalle fibre sottili, stretta in rigido amplesso, inchiodata saldamente insieme, fendere lo spazio e scoccarsi baci che suonavano aspri come lo sbattere delle nacchere. Si udivano esclamazioni, parole tronche, martellate come tasti di strumento cui mancassero le corde. Passavano anche in lunga riga od a stuolo angeli che bisbigliavano insieme sommessamente facendo sentire come il tribbiar della sega o il raspare e il rosicchiare del topo.
Lo Spirito sorrideva sempre, e spandevasi la luce e il calore, e il moto facevasi più corrente, più rapido, più vertiginoso, e dei colori più vivi spiccavano in mezzo a tanta bianchezza, e l’acero pigliava riflessi di carne, e i trucioli delle chiome si facevano biondi, e le bullette degli occhi lucevano stranamente sotto ciglia di ebano, e qualche lembo di veste svolazzante e leggermente marezzata si lasciava dietro, per la gran furia del girare, un solco vivamente colorato.
E giravano, giravano sempre, e cresceva la rapina e il rumore, e lo strepito delle ruote e delle ali sbattute, e lo scoccare secco dei baci, e l’urto degli abbracci, e la faticosa rotazione si moltiplicava in una vertiginosa rapidità, e tutto il gran paradiso pareva invasato dal delirio, e nondimeno era pace ed armonia come dev’essere in paradiso.
Ad un tratto, mentre la luce cresceva e il calore ed il moto, una voce gridò da un angolo remoto ed inaccessabile: - Al fuoco, al fuoco! - e si vide in effetto, lontano lontano, sprigionarsi una scintilla dall’urtarsi di due petti di legno, e poi un rosseggiare sinistro, e poi una fiammolina vagante, e poi un vivido sprazzo di faville. Una coppia delle più solitarie se ne sentì apprendere una alle due chiome arricciolate che si confondevano in una sola, e passarono oltre, mentre un’altra favilla s’appiccava alle ali di un altro angelo che li seguiva da presso dando loro sulla voce perché si fermassero nel volo turbinoso e disperato. E l’aria si mosse e sibilò più forte, e le scintille si moltiplicarono e si appresero ad altre chiome, alle ali, alle vesti, e andarono serpeggiando, e divamparono, e tutto il paradiso crepitò da un capo all’altro come se ardesse un campo di biade mietute, e dei gemiti, e dei cigolii si confusero, e i nocchi di quei corpi parvero ferite rosseggianti, e degli angeli passarono con la mestica screpolata, e si staccarono dai corpi e confusamente caddero e turbinarono nello spazio delle braccia e delle ali in combustione, tizzi ardenti, fusti e scheggie roventi, sverze fiammanti, e in brevissima ora tutti i cieli furono una fiamma sola dalle mille lingue, una sola immensità di fuoco, intorno al quale giravano sempre, giravano infaticati, ardendo, lasciando a lembi le vesti e le carni, assottigliandosi, e nondimeno levando a coro un inno di gioia e di gloria, un’armonia celeste ed ineffabile, l’inno della vita e dell’amore, le miriadi degli angeli creati dallo Spirito. E tutto era pace come dev’essere in paradiso, e tutta era una sola fiamma, un solo incendio, e i cieli ardevano maestosamente e minacciavano l’ultima ruina.
E durò la fiamma e l’incedio, e si diradarono gli stormi volanti e a poco a poco si dileguarono portati via in turbini di faville dal vento.
E quando i cieli precipitarono fumanti, e quando l’ultime fiamme si spensero, e tutto fu un gran monte di cenere, e la cenere si fu dispersa, lo Spirito sorrise e la gran luce piovve più chiara, più vivida, più diffusa i suoi raggi, e il canto si fece più spirituale, e si udì un leggiero stormire di ali, e un mormorio e una dolcezza di voci, che empiva i cieli popolati dalle miriadi degli spiriti puri ed intelligenti.
E i cieli erano più saldi dopo la ruina e Psiche viveva e la vita incominciava.
Racconti inverisimili di Picche, 1886