Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Francesco Moneti

    Canto 1

    ARGOMENTO

    Il sito, la città, costumi e vanti
    Dei Cortonesi, e un missionario eletto
    Che l’Umbria tutta avea ridotta in pianti,
    A Cortona chiamato a questo effetto;
    Monaci, Religiosi, e Mendicanti,
    E Gesuiti per altrui diletto
    Con il lor operar, né più né meno,
    In questo Canto son descritti appieno
    .

    Canto le pompe, i fasti e l’ambizione,
    Gli odj, gli sdegni estinti in un momento,
    E gli uomini di mala inclinazione
    Con prediche ridotti al pentimento,
    Nel tempo che seguì la gran Missione
    D’un certo Padre alla salute intento,
    Che indusse nel paese di Cortona
    A darsi al buon oprar gente non buona.

    O Febo tu, che di bugiardi accenti
    L’orecchie empisti a Popoli minchioni,
    Dando pastura a curïose genti
    Di sognate menzogne e d’invenzioni;
    Sprona la Musa mia con argomenti
    Tanto ch’ io possa metter in canzoni,
    E col favor che a me darà Talìa,
    In versi raccontar l’altrui pazzia.

    Ma voi, Corvi di veste e di coscienza,
    Che il suol di Cristo di zizzanie empite,
    Ed ognor con avara impertinenza
    E testamenti e borse ripulite,
    Mentre in fatti ribaldi, alla apparenza
    Vita mostrate ed esemplare e mite;
    Lasciando agli altri il predicare Dio,
    Volgete il collo torto al canto mio.

    Posta è Cortona sopra un alto monte
    A cui s’ ascende per sassoso calle,
    E rivoltata all’Austro, erge la fronte
    Al vago sito d’un’amena valle.
    Se dell’antichità si cerca il fonte,
    Molti secoli porta su le spalle;
    E per quanto ne scrivono gli Autori,
    Edificata fu da’ Muratori.

    Son per lo più le fabbriche all’antica
    Con poco buon disegno, e mal’intese,
    E condannolle la montagna aprica
    A mantener i venti a proprie spese:
    La squadra fu d’ogni angolo nemica
    Negli edifizi, e cosi bel paese
    Forma il ritratto in ogni sua struttura
    Del vituperio dell’architettura.

    Ripiena ell’è di molti abitatori,
    Poveri, ricchi, dotti ed ignoranti,
    Di bugiardi Mercanti e di Dottori,
    Di maligni Usurai e di Furfanti,
    D’ingegni sciocchi e dolci, e di Sartori
    Che con la lingua fan giubboni e manti,
    Di Nobili, Plebei e mal creati,
    D’uomini oziosi, e d’asini togati.

    Cittadini vi son di bassa mano,
    Ch’hanno gran fumo in testa e poco arrosto,
    Stimando il sangue lor, sangue troiano,
    E di razza più nobile composto:
    Trattano poi con atti da villano
    Chi dello stato lor non gode il posto,
    E se son de’ Priori e del Consiglio,
    Portan con borsa asciutta, altero il ciglio.

    Sopra de’fatti altrui han per usanza
    Il far su le botteghe esperienza,
    Ed i Frati imitar dell’Osservanza,
    Col darci spesso ancor qualche sentenza;
    E con estratti d’anima in sostanza
    Fanno de’vizi altrui la quint’essenza:
    E spie vi sono ancora in scritto e in voce
    Sin tra color ch’han sul gabban la Croce.

    Sono per vanità cosi ambiziosi
    Gl’uomini e donne nel seguir l’usanza,
    Che molti fanno per vestir pomposi
    In debiti cangiare ogni sostanza:
    Si scorgon quivi pur certi fumosi
    Ricchi di roba e scarsi di creanza
    Pavoneggiarsi con la nera cappa,
    E poco fu, che abbandonar la zappa.

    Alcuni poi tra’cittadini eletti
    Dalla fortuna, senza discrezione
    Danno agli artieri come a’ lor soggetti
    Il titol di canaglia e di barone;
    E v’è chi con eretici concetti
    In mente ancora ha tal proposizione,
    Che dal Plebeo il Nobile diviso
    Abbi luogo più degno in Paradiso .

    La superbia, l’invidia e detrazioni,
    La crapula, gli stupri e. gli adulteri,
    L’usure, le vendette sono azioni
    Da nobili par loro e cavalieri:
    Contro natura poi l’inclinazioni
    Stiman vizi galanti e assai leggieri,
    E che tra i predicabili peccati
    Sia questa proprietà di Preti e Frati.

    Distinguono il peccato in loro essenza
    Tra rustico, plebeo e cittadino;
    Chiaman tra loro casi di coscienza
    Solo chi ruba un porco o un asinino,
    E lo stracciar talora la pazienza
    Vizio da mulattiere o vetturino:
    Tra’ peccati però non trovan loco
    Al più grosso tra lor, ch’è il creder poco.

    Vanno a sentir la Messa e i Vespri in Chiesa
    Con la mente dal Ciel sempre divisa,
    Poco devota, e solamente accesa
    D’ amor lascivo, e tra le ciarle e risa;
    Rimirando or la Nina, ed or la Besa,
    Or la Bita, or la Checca, ed or la Lisa:
    Voltan, mentre si canta Eleisonne,
    Le spalle a Dio per vagheggiar le Donne.

    Vi son cervelli d’avarizia tinti,
    Che pensando a lor grasce il prezzo alzare
    Mandano il grano in piazza, e poi con fìnti
    Rigiri, per mezzani il fan comprare:
    Altri vi son, che dal bisogno spinti
    Capital dell’altrui sanno ben fare;
    Ma i debiti pagare al creditore
    Stimano gran vergogna e disonore.

    Altri vi sono poi, ch’han del baggiano,
    Persone tanto nobili, che basse ;
    E gli farebbe ancora un ciarlatano
    Creder insin che un asino volasse.
    Molti ingegni tra gli altri han buona mano
    Nel giocar d’invenzion se bisognasse,
    E con lettere cieche soglion dare
    Lo scacco matto a chi fanno il compare.

    Nel tempo che a regnare in Vaticano
    L’undecimo Innocenze cominciava,
    Ne’ confini dell’Umbria e del Toscano
    Un Padre di gran fama predicava:
    Che con licenza del Pastor Sovrano
    Di Missionario il titolo portava,
    E all’abito che avea di Religione
    Pareva proprio un sacco di carbone.

    Magro egli era di corpo, e viso asciutto,
    Pallido in volto, e basso di statura;
    Un scheletro o cadavere distrutto
    Pareva uscito di una sepoltura:
    Porco non era da cavarne strutto,
    Che a vederlo sembrava all’ossatura
    E membra sol di pelle ricoperte,
    Un gatto che ha mangiato le lucerte.

    Si pubblicò che avesse convertito
    Uomini e donne d’ogni condizione,
    Ed al retto sentier da lor smarrito
    Gli riducesse dall’ostinazione;
    Che d’ogni vizio in essi inchancherito
    Facesse far palese confessione,
    E chi della vendetta era tenace
    Col nemico tornasse in santa pace.

    Donna vendicativa essersi resa,
    A questo sì buon Padre, alfin placata;
    Mentre egli fe’ miracolosa impresa
    Sopra di una camicia insanguinata,
    Alla vendetta di mortale offesa
    Del consorte, da lei già conservata,
    Col far, perchè costei si confondesse,
    Star quel lin nelle fiamme , e non ardesse.

    Di questa, e d’altre ciarle ed invenzioni
    In quei luoghi vicini trasportate
    S’ empivan le botteghe ed i cantoni,
    E i circoli di genti sfaccendate;
    E con le prodigiose operazioni
    Su l’orecchie del volgo seminate
    Volò fama veloce, e senza ostacoli,
    D’un Padre Santo che facea miracoli.

    Or tal novella, che per quei confini
    Già s’era sparsa come la semenza,
    A certi Cortonesi cittadini
    Fe’che nacque nel cor grand’appetenza
    Della Mission, per lor secreti fini
    Speculativi dell’altrui coscienza;
    E scrisser a quel Padre, che in Cortona
    Assai bramata era la sua persona.

    llustrissimi e cari miei Signori,
    Compiti e generosi Cavalieri,
    (Rispose il Padre) è ben dover che onori
    Voi altri tanto amici a’ Forestieri.
    Terminati quì dunque i miei sudori,
    Quanto prima verrò ben volentieri,
    Se Dio me lo permette e ’l tempo bello,
    A servirvi di coppa e di coltello.

    Ma sento ormai l’orecchie stuzzicarmi
    Da curïose lingue e da persone,
    Che già pronte ritrovo a domandarmi
    Chi fosse il Padre e di qual Religione:
    Prego dunque ciascuno a perdonarmi
    Se di lui l’istituto e professione
    Non ho detto sin’ ora e palesato,
    Né pensin già, ch’io me ne sia scordato.

    Dico dunque ch’egli era un religioso,
    Uomo da bene, e d’istituto santo;
    Non già di quei che con il piè calloso
    Calcano il Mondo, e portan bigio manto,
    E nell’andar con passo strepitoso
    Par che pestin le corna a Radamanto,
    Dando in scarpe di legno al piede il moto,
    Ed in piene scodelle han fatto voto.

    Di quelli certamente egli non era,
    Che buona vita fan da mendicante,
    E son eletti fra cornuta schiera
    Cornette della Chiesa militante.
    Con lunga barba e faccia assai severa
    Vanno alle case, e con parole sante
    Barattano per pan, come gli torna,
    Bietole, cavoli, insalata e corna.

    Nemmeno di color che da Nembrotte
    Per poter arrivar sino alle Stelle
    Furo invitati con le pietre cotte
    A fabbricar la Torre di Babelle;
    E si diedero poi la buona notte
    Con varietà di lingue e di favelle:
    Dico di quelli che in virtù d’Elia
    Si stimano Priori anche al Messia.

    Nè di color che d’asinin colore
    Portan la cappa con il becco al petto;
    Nè di quei che di carne il buon sapore
    Pittagorici nuovi hanno in dispetto;
    Nè di quei che il silenzio a tutte l’ore
    In selvaggio tugurio han per precetto:
    Col fuggir le grandezze e pompe vane,
    Stan come gli orsi ad abitar le tane.

    Nemmen di quei che su l’Ispane arene
    Trasser da nobil Padre i lor natali,
    Per cui la Santa Chiesa oggi ritiene
    Sommo decoro in faccia a’suoi rivali;
    Superbi avanzi dell’antica Atene,
    Sacri Dottori, e specchio de’ mortali,
    E per la fedeltà verso il Pastore
    Posson chiamarsi cani del Signore.

    Non era di que’dotti Formalisti,
    Che distinguono il grosso dal sottile,
    E per accrescer numero a’ Sofisti
    Alla scuola vicino hanno il fenile,
    Governandosi quivi alcuni tristi,
    Che invidiano la fune al campanile;
    Ma se la sottigliezza non gli guasta,
    Gnocchi si fanno poi di buona pasta.

    Né dirò già, che fosse di quei Frati,
    Che con qualche apparente repugnanza
    Son col nome di Servi disegnati,
    Mentre padroni sono alla sostanza;
    Nemmeno di quei capi delicati,
    Che monasticamente in adunanza
    Ritengono col nome e professione
    Diminutiva la Benedizione.

    Non già di quei che portan la gran cappa,
    Sterminio della fava cotta asciutta,
    Che dalla carità tuttora strappa
    La caritade istessa; onde ridutta
    La carne anche a mangiar fuor della Trappa
    In casa d’altri, a dirla chiara e tutta,
    Un epilogo son di poco buoni,
    Mentre antepongon carne e buon bocconi.

    Nè di coloro fu, che son fratelli
    Di quel che fe’ la tara a’Sacramenti,
    E nella Chiesa poi tanti ribelli
    Fece in virtù di suoi bugiardi accenti.
    Nemmen ascritto era costui tra quelli,
    Che dal chieder lontani ed astinenti
    Son rettorici bravi, e con pazienza
    Aspettano da Dio la provvidenza.

    Ma dirò ben, ch’egli era d’ una setta
    Che col Demonio in furberia l’impatta:
    E come appunto intorno al topo affretta
    L’unghie rapaci la golosa gatta;
    Di ricchi infermi intorno al letto aspetta
    L’eredità con pio pretesto estratta,
    E la roba tirando in morte e in vita
    Del secolo di ferro è calamita.

    Il Padre era chiamato il Petraccioli,
    Già fatto alunno d’uomini sì buoni,
    Che in odio hanno le rape ed i fagioli,
    Ed amano le starne ed i capponi:
    Fabbricano palazzi ed alte moli,
    E secondano in lor l’inclinazioni:
    Altri alla chiesa, altri alle scuole attende,
    Ed altri in piazza i falli altrui riprende.

    Della da loro ambita precedenza
    Una mal concepita pretensione
    Pose nel capo lor gran renitenza
    Di trovarsi col Clero in processione:
    Così schivando entrare in competenza
    Fanno tra loro singolar funzione;
    E per non star soggetti anche a San Pietro,
    Stiman lor proprietà l’andar di dietro.

    Dotati d’ astutissima prudenza
    Il primato pretendon per giustizia ;
    Amano le ricchezze e la potenza,
    E poveri si fanno per malizia;
    Professori d’ogni arte e d’ogni scienza,
    Sol per aver la Nobiltà propizia,
    La bella gioventù per lor s’impiega
    Dall’alpha ad imparar sin all’omega.

    In ogni profession sono ben pratici,
    E nelle scuole ancor peripatetici,
    Retrorici, dialettici e grammatici,
    Astrologi, geometri e arimmetici,
    Teologi, legisti e matematici,
    Scrittori in belle lettere, e poetici,
    Dotti sommisti, ed etici e politici,
    E dell’azioni altrui esperti critici.

    Le corti poi dei grandi e dei potenti
    Frequentar molto spesso han per usanza,
    Ove di quelli i più segreti intenti
    Ciascun di loro in penetrar s’avanza:
    Nelle sostanze altrui con modi urgenti
    Fonda il lor desiderio alta speranza;
    Imbrogliata si scorge, e cavillosa
    Fede in costoro, e carità pelosa.

    Se un moribondo vanno a confessare
    Gli parlano con simile tenore:
    Fratello, voi dovete già passare,
    Rimettetevi dunque nel Signore;
    Nè vi scordate per Gesù lasciare
    Il mondo ed alla Terra di buon cuore
    Lasciate il corpo e i membri infraciditi,
    L’anima a Dio, la roba a’ Gesuiti.

    Noi siamo padri assai zelanti, e buoni,
    E l’altrui ben ci sta nel cuore impresso;
    Con devoti esercizi e confessioni
    Cerchiam tirarsi tutto il mondo appresso:
    Nel ritorre all’Inferno gli epuloni
    Usiam ogn’arte, e perchè poi l’ingresso
    Abbian l’anime loro al Ciel condotte,
    Più case abbiamo in povertà ridotte.

    Sono in somma costor gente sì lesta,
    Che a se tirano il Mondo a poco a poco;
    Sono ne’beni altrui una tempesta,
    Entrano com’il vento in ogni loco:
    Dove soffiano lor, poco vi resta;
    Dove giungono fan peggio del foco,
    Da cui già prese nome il Padre loro;
    Premio che a tali statuisce il foro.

    Il nibbio un pipistrel, conforme ho letto,
    Parendoli un uccel, mangiar volea;
    Ma il pipistrel volgendo l’ali al petto
    Mostrò di topo il muso, e gli dicea:
    Non son uccel; ma poi dal gatto astretto
    Nascose il muso e l’ali distendea;
    Onde con accortissimo consiglio
    Liberossi dall’unghie e dall’artiglio.

    Cosi costor non son preti nè frati,
    E pur son mezzi frati e mezzi preti;
    Il coro non li fa preti nè frati,
    Ma per la mensa poi son frati e preti;
    Se si aggravano i preti, essi son frati,
    Se va mal per i frati, essi son preti;
    E fanno appunto come il pipistrello,
    Or figura di topo, ed or d’uccello.

    O benedetti Padri Gesuiti,
    Che vi venga la rabbia a quanti siete!
    Non già per convertire i Niniviti
    Talora in piazza il Giona far solete;
    Ma sol de’fatti altrui, costumi e riti
    Alla pesca nel Mondo oggi attendete,
    Per procacciarvi un dì la Monarchia
    Con la vostra monella ipocrisia .

    Ma parmi aver sin quì detto abbastanza
    Già di costor col mio cantar molesto;
    Però prendo licenza per creanza,
    E non tediarvi; or qui le rime arresto:
    E mentre ora vi lascio con speranza
    Di farvi udire un’altra volta il resto,
    La pace sia a voi, e a loro intanto
    Un corno dietro; e fine al primo canto.


    Cortona convertita




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