Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Francesco Moneti

    Canto 3

    ARGOMENTO

    Narra il Poeta le volpine frodi
    De’ Gesuiti in trappolare il Mondo;
    Si danno al saper lor dovute lodi,
    E d’ogni loro fin si tocca il fondo.
    Il Missionario con figure e modi
    Una Predica fa di stil giocondo;
    Biasima il ciarlatano e l’istrione,
    E narra d’un di lor furbesca azione
    .


    Bisogna al giorno d’oggi essere astuto,
    E chi furbo non è, non è stimato;
    Chi poi da nulla vuol esser tenuto,
    Non tenga ad altri il suo pensier celato.
    L’ipocrisia bensì sempre ha saputo
    Negl’inganni far l’uomo addottorato;
    Il gabbare nel mondo le persone
    Arte non è da sciocco e da minchione.

    Non è più tempo che filava Berta,
    E che parlavan gli asini e gli allocchi:
    Allor dava terror faccia coperta,
    Ed il babau, più ch’or spada e stocchi:
    Oggi però la volpe è già scoperta,
    Nè fan vedersi più gl’uomini sciocchi,
    Ma furbi assai, scalfriti e mariuoli,
    Mentre aperti già gli occhi hanno i cagnuoli.

    Tale de’Gesuiti è la natura,
    Che per finta virtù non hanno uguali ;
    Se la preda non han più che sicura
    Non si mettono in traccia agli animali;
    Tra ricche spoglie e maestose mura
    Mostransi generosi e liberali ;
    E celando nel cuor l’essere avari .
    Accennan coppe, e dan sempre in denari.

    Dicono molto bene, e non lo fanno,
    Fanno mal più degl’altri, e non si dice;
    Sanno coprire i lor difetti, e sanno
    Scoprir gli altrui dal sommo alla radice;
    Nel dir che poi son poveri, e non hanno,
    Hanno un modo per loro assai felice;
    Portano il bianco in fronte, e ’l negro in seno,
    E dimostrano il vacuo ov’è il ripieno.

    Van per il Mondo con pretesti santi,
    Sanno ben far la gatta di Masino,
    E per le piazze a guisa di birbanti
    Sogliono fare il Zanni e ’l burattino;
    Discoprir le coscienze a tutti quanti
    S’impegnano con modo pellegrino;
    E questa è la finissima politica,
    Uscita dalla scuola Gesuitica.

    Missionario dunque addottrinato
    In questo lor politico esercizio,
    Alla Mission già s’era apparecchiato
    Per le parti adempir del proprio uffizio.
    Nelle sue stanze, poichè celebrato
    Egli ebbe in Chiesa il Santo Sacrifizio,
    Che lo chiamasse il cherico attendeva.
    Quando era l’ora, e predicar doveva

    Ma sento già che tutti ad ascoltare
    La Predica del nostro Gesuita,
    Di metallica voce al rimbombare
    Il din don don della campana invita.
    Corron tutti alla Chiesa, e già mi para
    D’ogni gente non santa essere empita;
    Qui dunque attendo tutti voi che siete
    Curiosi di sentirlo, e gusto avrete.

    In pulpito comparso finalmente
    Con grande aspettativa il Padre santo,
    Con sembiante modesto e reverente,
    Con Stola e Cotta sopra il nero manto;
    All’altare, al prelato ed alla gente
    Con bel garbo un inchin fec’ egli, e intanto
    Per dar principio alla sua dicitura
    Fe’ pausa alquanto, e stette in positura.

    E qui dopo le smorfie consuete
    Cosi parlò: O Ascoltatori cari,
    Oggi benigne orecchie a me porgete,
    Da mercanti non già, nè da somari,
    Mentre che del peccato ascolterete
    Il tutto e il nulla, accio che ognuno impari,
    Che ogni piacer del Mondo che godiamo
    Deve presto finire; e cominciamo.

    Convertimini ad me, dice il Signore
    Per bocca del Profeta a carte tante:
    Or dimmi sventurato peccatore,
    Che del Mondo vagheggi il bel sembiante,
    E con la carne che ha cattivo odore
    Vita fai da ghiottone, e da furfante
    Dietro al Demonio vai con turba magna;
    Pensi ch’abbia a durar questa cuccagna?

    Sai ben che la dottrina insegna e dice,
    Che il Paradiso è fin del buon Cristiano;
    Che l’uomo non puo’ vivere felice
    Per lungo tempo in questo mondo insano.
    Senti quel ch’io ti dico, uomo infelice;
    Piange nel letto il peccatore in vano,
    Che lo tengono allora in confusione
    Morte, giudizio, inferno, e dannazione.

    Quindi esclamando, disse il Padre: ahimè!
    Qui si vive alla peggio, e carità
    Più non si trova, e fede più non v’è.
    Or Dio sa come la speranza stà;
    Qui bandita è la legge, e Moisè
    Non v’è passato nè vi passerà;
    Dipinta è la giustizia con l’accetta,
    Unghie da gatto, ed occhi di civetta.

    Sacerdoti vi sono, e Religiosi
    Figli della gran bestia di Parnaso,
    Che con satire e versi ingiuriosi
    Ora a questo, ora a quel danno di naso,
    Cantando gli altrui fatti scandalosi;
    E questo a voi io non lo dico a caso,
    Perchè quì d’ogni vizio, macchie, o note
    Sono informato già da spie devote.

    Voi dunque, che d’ogn’altro esser dovete
    Un buon esempio, acciò ch’ognun abbracci
    Le più belle virtù; non componete
    In altrui biasmo più tanti versacci;
    Ogni libro profano che tenete
    Abbruciate con gli altri scartafacci,
    E se il vescovo viene a voi in persona,
    Vi trovi il libro in man del Materdona.

    Oh questo si, che al nostro buon Pastore,
    Conforme voi sapete, è molto grato;
    Libro che piacque a sì devoto autore,
    Per far profitto nel mondano stato,
    Lo spavento chiamar del peccatore
    Acciò che si guardasse dal peccato;
    E questo Monsignor tanto erudito
    Sallo quanto il Donato a mena dito.

    Ma voi, o gente sfaccendata e pazza,
    E tutt’in ogni genere viziosi
    Di qualsivoglia condizione e razza,
    Di costumi perversi e scandolosi,
    Dentro delle botteghe, e per la piazza,
    Ad quid hic statis tota die otiosi?
    San Luca super acta Apostolorum
    Dice che factum est murmur Graecorum.

    Qui si fora , si trincia, e fan giubboni,
    E botteghe son tutte di sartore;
    Sopra tutti si taglia o tristi, o buoni,
    E si fanno le vesti al disonore;
    Di gonnelle, di toghe e di calzoni
    Giudice è quivi ognun ch’a tutte l’ore
    Con rigoroso esamine procura
    Metter la fama altrui alla tortura.

    Ciascun in far de’ fatti altrui gli annali
    Con satirico stil quivi s’ingegna:
    Questi son qua, quelli son là, e i tali
    Sono di razza che di forca è degna;
    Quei che passeggian là nel vizio eguali
    Posson tra’ furbi affè portar l’insegna;
    Del Clero poi, e delle sagre toniche
    Grand’istorie si fanno e lunghe croniche.

    Dalla curiosità più volte spinti
    A sentir ciarlatani e commedianti
    So che voi foste, e di lascivia tinti
    Vi compiaceste degli osceni canti.
    False ricette, e i lor segreti finti
    Compraste ancor da simili furfanti,
    Che cercan sempre di gabbar le genti
    Con estratti, con olj, e con unguenti.

    Un bel caso che in mente or mi sovviene,
    Voglio narrarvi, e sia per digressione,
    Che al proposito nostro appunto viene
    Col fare a voi sentire un invenzione
    D’un ciarlatano che spacciava bene
    Con molte ciarle di sua professione
    Olio, polvere, unguento, ed orvietano
    Ch’ammazza infermi e stroppia ognun ch’è sano.

    Ora costui che di gabbare il mondo
    L’arte più fina già imparato avea,
    Dove trovava il popol grosso e tondo
    Di sue frodi servirsi egli solea.
    Con faccia tosta un giorno assai giocondo
    In una terra disse che volea
    Al popolo minchion, più che fedele,
    Una penna mostrar di San Michele.

    Questa, disse, l’ottenni in Calicutte
    Dal padre confessor di Giosaffatte,
    A cui donata fu dal Re Margutte
    Quando fece l’impresa delle gatte.
    Posson vederla le persone tutte,
    Che con la confession han sodisfatte
    Le lor coscienze, e chi sarà in peccato
    Perder gli fa con ambi gli occhi il fiato.

    Perciò quivi doman tutti v’aspetto
    Dopo che vi sarete confessati,
    Ove con questo santo e benedetto
    Pegno voi resterete consolati;
    Che se vero non è quanto v’ ho detto
    Possiate esser per me tutti squartati,
    E chi la bacerà sarà sicuro
    Da moschettate dietro un grosso muro.

    Ma l’oste, o sia padron della locanda,
    Di guastargli pensò quest’invenzione,
    Stimando furberia troppo nefanda
    Il gabbare in tal guisa le persone.
    Pensi, dicea tra se, che dalla ghianda
    Le fave io non distingua, o birbantone?
    Ma se non ti corbello a modo mio,
    Dimmi che non son Oste, affè deddio.

    La sera dunque mentre il Ciarlatano
    Lietamente con altri a mensa stava
    Col pensier di gabbare il buon cristiano,
    L’oste di gabbare lui pur s’ingegnava.
    Alle scatole sue dato di mano,
    La penna che trovò ratto ne cava,
    Ed in vece di quella un sasso pose
    Dentro di essa, e poi la penna ascose.

    Venuta che fu l’ora il dì seguente,
    In piazza se ne va questo briccone,
    Ripiena già di curiosa gente.
    Che a veder quella penna si dispone;
    Quindi tutti esortò con finta mente
    A prender San Michele in devozione,
    E dando maggior voce e maggior fiato
    Fece inchinare il popol radunato.

    Ma dopo aver lo scatolone aperto,
    Vede, e il come non sa, d’esser tradito:
    Mezzo confuso e nei sospetti incerto,
    Si conturbò, ma non restò smarrito;
    Anzi d’ingegno in furberia esperto
    Trovò nuova invenzion quest’uom scaltrito
    Che star poteva ai colpi di martello,
    E nella calca mai perse il cervello.

    Dopo che egli si fu stupito alquanto,
    Cosi esclamò, con gli occhi al cielo alzati:
    O glorioso e benedetto Santo,
    Che il primo siei fra i Martiri Beati,
    Dunque nel Cielo tanta gloria e tanto
    Onor oggi per te son riserbati?
    Sì, sì, che tocca a te col tuo favore
    L’esser di questa terra il Protettore,

    Signori miei, se di parola manco,
    Non resti alcun di voi scandalizzato:
    La penna che volea mostrarvi in banco
    Ha il servo mio nell’osteria lasciato;
    Ma ringraziato il ciel, che non è stanco
    Di consolarvi, perchè qui ha portato
    In vece della penna che gli ho chiesto,
    Un sasso di San Stefano, che è questo.

    Volendo premiare il mio valore
    Il Duca di Sassonia, a me lo diede,
    Quando gli liberai dal gran dolore
    Della podagra il travagliato piede:
    Mirate pur che di sanguigno umore
    Del Santo esser macchiato ancor si vede:
    Or si bella reliquia oggi adorate
    Acciò vi scampi il Ciel dalle sassate.

    Vi liberi dal pizzico dell’orso,
    Nè vi lasci provar del lupo il danno;
    Vi scampi ancor dal bacio del can corso,
    E delle volpe dall’astuto inganno;
    Da terremoto, peste, e crudo morso,
    Dalla fame, da guerra, e da ogni affanno,
    Da rottura di collo, membri ed ossa,
    E dal malanno che venir vi possa.

    Venga a baciarlo ognun divotamente
    Con lasciar di moneta un’oblazione,
    Perchè poi l’averete certamente
    Per i vostri bisogni in protezione.
    Cosi cavò da quella sciocca gente
    Coi baci assai denar, l’empio birbone:
    Or se burlan costoro insino i Santi,
    Argomentate voi se son furfanti.

    Ricetto omai Cortona più non sia
    Di questi scellerati e maladetti
    Nemici della nostra compagnia,
    Di cui fingono in scherno assai difetti:
    Se vengon più, cacciateli pur via
    Come appestati e d’eresia sospetti,
    Che sol per dare a voi lascivo spasso
    Cacciatori si fan di Satanasso.

    Più non vedin costor vostri quattrini:
    Se per l’addietro a lor n’avete dati,
    Per l’avvenir da voi ai poverini
    Sian con mano pietosa dispensati:
    Che così fa chi par che l’indovini
    Per cancellar l’enormi suoi peccati;
    E se talora da gettar n’avete,
    Datene a noi, o a qualche Frate o Prete.

    O voi, che troppo rigidi e severi
    Opprimete la plebe ed i più bassi,
    Perchè Nobili siete e Cavalieri,
    Benchè peccato sia, pur vi si passi;
    Ma quando poi si fan gli alti misteri
    Di Dio, il convertir le chiese in chiassi,
    Come vizio da nobili e padroni,
    In Cocito più grossi avrà i tizzoni.

    Voi peggio che gli eretici portate
    Alla chiesa di Dio poco rispetto;
    Qui degl’idoli vostri contemplate
    Gli occhi, la bocca, il crin, la fronte, il petto.
    Questi del vostro Senso oggetti fate
    Con discorsi lascivi e con diletto,
    E il luogo destinato alle orazioni
    Un ridotto lo fate di stalloni.

    E voi ancor, quando alla messa andate,
    Donne. voglio scoprir vostri difetti;
    Piene di vanità ve la passate
    Con le altre donne in ciarle e discorsetti;
    Di ritornare a casa vi scordate,
    Benchè sia tardi, e che il marito aspetti,
    E se il brodo va fuor della pignatta
    Ne incolpate la serva o pur la gatta.

    Al chiacchierar so ben, che per natura
    Voi altre donnicciuole il genio inclina;
    Male avvezzar le figlie, e con gran cura
    Tutti i fatti saper della vicina;
    Sia poi di giorno chiaro o notte oscura,
    Solete pur la sera o la mattina,
    Spesso con l’ago in man sopra una veste
    Far punto fermo il giorno delle Feste.

    L’andar vestite poi pomposamente
    Al pari delle nobili Signore
    É fumo d’ ambizion, che fa sovente
    Acciecare nel letto anche l’onore;
    Più che di gola il vizio, in voi si sente
    Quel della carne, ed in alcune il cuore:
    Spesso ai digiuni povertà dispone,
    Ma tutte al mormorar, l’inclinazione.

    Stare talvolta ad osservar chi passa
    Alla finestra oziose e sfaccendate,
    Or con voce che i termini trapassa,
    Con il marito far delle gridate,
    Di furti ad esso fatti empir la cassa,
    E mostrarsi con quel sempre ostinate;
    Son vizi di voi, donne, alla sembianza
    Belle bensì, ma piene d’ arroganza.

    Poi dite al confessor: padre, per me
    Io non ho gran peccati adesso, ma
    Del tale e della tale un non so che
    Dirò perchè scandalizzato m’ha.
    Gatta ci cova, e qualche cosa c’è,
    Basta .... col tempo .... alfin si scoprirà...
    Così con indiscreta confusione
    Dite gli altrui peccati in confessione.

    Or quì la vostra erronea coscienza
    Corregger devo, e quindi a voi conviene
    Far delle colpe altrui la penitenza,
    Giacchè le dite al confessor si bene;
    Ma se ottener volete l’indulgenza
    Per liberarvi dall’eterne pene,
    Quando che andate ai piè de’confessori
    Dite li vostri e non gli altrui errori.

    Poveri, che volete prender moglie
    Senza d’avere in voi parte nè arte,
    Solo per contentar le vostre voglie
    E dar sol due di spade in queste carte;
    Mentre il bisogno l’adulterio accoglie
    Discacciato l’onor da voi si parte,
    E s’entra in casa vostra il Frate o ’l Prete,
    Ci fate il becco, e poi ve la ridete.

    A voi rivolgo adesso i miei sermoni,
    Dame gentili e mie Signore care;
    Spendete il tempo in van in balli e suoni,
    Nè in vagheggiar siete con gl’occhi avare;
    Se vengon cavalieri a voi con doni,
    Fate di voi un mal concetto fare;
    Vi compiacete in ogni usanza e moda,
    E sin dietro di seta aver la coda.

    Tra ricche vesti e spoglie assai pompose
    Siete di vanità vero trofeo,
    Sviscerate conchiglie in sen vi pose
    Tutto l’indico mare e l’Eritreo;
    Per farvi poi con gemme più preziose
    Povero è divenuto anche Imeneo:
    Cosi la porta a tutto il lusso s’apre,
    Che sino al pel vi trasformate in capre.

    Voi, maritate, con sì gran licenza
    Siete padrone a piede ed a cavallo,
    Che spesso il ventre aggrava la coscienza,
    E in fare a modo vostro avete il callo:
    Bisogna che il marito abbia pazienza,
    E lasci andarvi ad ogni festa e ballo,
    Dove facendo salti da demonio
    Spesso rompete il collo al Matrimonio.

    Fuggasi pur da voi dunque il festino,
    Che di Broccardo è troppo grande amico,
    E spesso in capo altrui fa per destino
    Nascer dilemmi al sol gustar d’un fico:
    Perchè greco non parlo nè latino,
    Argomenti cornuti esser vi dico,
    Riducendosi il ballo in conclusione
    Al salto della capra e del montone,

    Vedove derelitte e abbandonate,
    Prive di grati amplessi e dolci tatti,
    Che essendo sole in casa non trovate
    Per i vostri bisogni un che vi gratti;
    Sulle finestre omai più non vi fate
    Veder lisciar con man la coda ai gatti,
    Perchè la vostra vedovil pazienza
    Val per un palmo e più di penitenza.

    Fanciulle, che vagando andar solete
    Con uomini e con donne in carovana,
    Ricordo a voi che un bel visetto avete,
    Che prossima materia è di Puttana.
    Leggete Salamone, e troverete
    Per alia verba tal dottrina sana,
    Che se ingrossate nell’adolescenza
    Da vecchie arrufferete la coscienza.

    L’orecchie or voi, non gli omeri porgete,
    Vaghi fanciulli a me cotanto cari;
    In man dei genitori il cor mettete,
    E ciascheduno ad obbedire impari.
    Che quelli amare ed onorar dovete
    Un gentil ve l’insegna a sensi chiari,
    Col dir: Parentes ama, e che a voi tocca,
    Vel raccomanda un che ha Catone in bocca.

    Fuggite que’ viziacci maladetti
    Che figli sono delle notti opache;
    Fate che il gioco voi più non alletti
    Di scarica barili e calabrache;
    Fuggite quei che negli amati oggetti
    Godono il tristo odor delle cloache,
    Se andar voi non volete nell’inferno
    Con il brutto Babau in sempiterno.

    Oh se foss’io pedante, o a me toccasse
    Menarvi a spasso, e aver di voi la cura,
    Farei, farei ben’ io che ognun cercasse
    Cangiar costume, con cangiar natura!
    Sempre col nerbo in quelle mele grasse
    Batter vorrei, e con la sferza dura
    Mortificarvi, s’io v’avessi sotto,
    Per farvi buoni divenir ut octo.

    Verso di voi voltarmi or mi conviene,
    Giovanni, che trovate in dolci inganni
    Delle impudiche e perfide Sirene
    Lusingati da esse i vostri danni.
    Or di giorno, or di notte all’opre oscene
    D’impuri affetti dispiegate i vanni;
    Corteggiate la druda, e se vi alletta,
    Fate come gli uccelli alla civetta.

    E come tali appunto al passo attesi
    In lascivo boschetto di peccati
    Del cacciatore in man siete già resi
    Dalla pania d’amore imprigionati,
    Da Satanasso con quest’arte presi,
    Ed in più modi essendo alfin pelati,
    Altro non manca a voi se non il cuoco
    Che vi arrostisca a sempiterno fuoco.

    Oh quanti nel profondo dell’Inferno
    Già dannati ritien questa carnaccia!
    Quanti quanti di voi al foco eterno
    Or quì presenti. pure a Dio non piaccia,
    Manderà questo vizio! e tu d’Averno
    Empio Dragon, con quella tua codaccia
    Cadere a terra fai l’anime belle
    Che dovevan regnar sopra le Stelle.

    Padre, dirammi alcun, un mal da biacca
    Non è già questo, mentre l’uom soggiace
    A troppa fiera tentazione, e fiacca
    È la natura, e il buono a tutti piace:
    A troje il verro inclina, e per la vacca
    I tori il vizio tira; e sia con pace
    Detto di tutti, ognun corre alla carne
    Come il bracco suol far dietro le starne.

    Se qui fosser le forche, e preparato
    Per far la festa il boja ancor vedessi,
    E per le donne subito impiccato
    Or or quì caldo caldo esser dovessi;
    Non potrebbero far che dal peccato
    E vizio della carne io m’astenessi,
    Perchè quell’animal ch’è tutta coda
    Legge non ha, nè col timor s’ annoda.

    Ah scellerato e tristo peccatore,
    Che al senso più, che alla ragion t’appigli
    Se vano affetto in te scaccia il timore,
    Certo t’inganni, e granchi a secco pigli.
    Pur ti tormenta un amoroso ardore,
    E poi non temi gli ultimi perigli;
    Ma questo avvien, perchè di fede impuro
    Credi al presente sol, non al futuro.

    Contro di voi esclamo con ragione,
    Mercanti avvezzi solo a trafficare
    Con giuramenti falsi, e inclinazione
    Da zingari nel vendere e comprare,
    Mentre cattive mercanzie per buone
    Solete pur con falsità spacciare.
    Per l’interesse più che non è il pane,
    Sono in voi le bugie quotidiane.

    Chi nel pesare odiando il grave Ispano
    Suol dare in leggerezze da Francese;
    Altri col braccio si dimostra un Nano,
    Nel misurare un vero Cortonese:
    E tutti insomma avete buona mano
    Da scrivere il malanno all’altrui spese:
    Ma i vostri avanzi poscia in una volta
    Son dei Sbirri e del Fisco una raccolta.

    Dottori, che di legge assai leggieri
    Come una pelle quella stiracchiate,
    Nè servirebber poi tutt’i brachieri
    Per sostener le cose che voi fate;
    False ragioni contro i Testi veri
    Per chi presenta voi rappresentate;
    Dal torto il dritto il Giudice distingue,
    Sed flammas litium poi giammai s’estingue.

    Fassi allungare il collo ai Litiganti,
    Ogni lite si manda all’infinito
    Del verbo solvo, e dassi per contanti
    La ragione a chi fa miglior partito.
    Giocano molti al Giudice davanti,
    Tien la Giustizia poi banco fallito,
    Con fare alfin con chi si sbriga presto
    Ammassa, toppa, tengo, vada il resto.

    E voi che di superbi e d’ambiziosi
    Pensieri ogn’ora il vostro cuor nutrite,
    Mentre i posti più degni e più gloriosi
    Con arrogante presunzione ambite;
    L’esser d’ingegno alquanto spiritosi
    In fumo andar vi fa com’acquavite:
    Eppure un dei più gravi fu stimato,
    Benchè di fumo sia questo peccato.

    E se saperne la cagion volete,
    Leggete i Santi Padri e la Scrittura,
    Dove il gran fatto appieno troverete
    Dell’Angel più perfetto di natura,
    Che in farsi uguale a Dio, come sapete,
    Divenne la più trista creatura,
    E le Angeliche Squadre insuperbite
    Fece cader dal Cielo in grembo a Dite.

    Come gonfio pallon che spesso balza
    Quando è caduto, e vien gettato al piano,
    O che talor verso le stelle incalza
    Di esperto giocator possente mano,
    E da tal forza spinto assai s’inalza
    Verso del cielo, ed il fermarsi è vano,
    Perchè alla terra alfin torna repente
    Precipitevolissimevolmente:

    Così fa l’uom che a sommi gradi aspira,
    E che superbo al merto altrui non cede,
    Come s’avanza, incalza, ascende e gira
    Con desìo di fermare in alto il piede.
    Ma caduto ch’egli é, piange e sospira
    Le perdute grandezze, e alfin si vede
    In vece di portar corona e scetro
    Sotto la più vil veste in un ferètro.

    Videsi anche il superbo Saladino
    Dalla sorte comune esser tradito,
    E perché andò di là senza un quattrino,
    Volle che si trombasse il suo vestito,
    Gridando, ecco l’avanzo del meschino-
    Chi ha da aver da lui or ch’è basito,
    O venga, o mandi carta di procura
    Per darli un po’ di naso in sepoltura.

    Chi spinto dalla sordida avarizia
    Roba e denari accumular procura
    Con inganni, con arte e con malizia,
    Con illeciti mezzi e con l’usura,
    Senza temer di Dio l’alta giustizia;
    Purchè buschi de’soldi, egli non cura,
    Anzi brama dal Cielo, altrui moleste,
    La carestia, la grandine e tempeste.

    E per mostrarsi sempre esser padrone
    Delle sostanze sue, per testamento
    Lascia agli eredi con obbigazione
    Di far citarlo spesso nel Memento,
    E per l’anima sua far orazione,
    Con assegnarli e cento scudi e cento,
    E dice poi, ma con bugiardo suono,
    Che questi lascia, e pur legati sono,

    O razza budellona e maladetta,
    Che non ti cavi mai d’oro la sete,
    Sappi. che in Breve il Diavolo ti aspetta,
    Ed a bever t’invita al fiume Lete.
    Non so se l’oblazione il Cielo accetta,
    Che dopo morto fai, quantunque il Prete
    Requiem eternam dica a tua richiesta,
    Quando che sei defunto, o nobis praesta.

    Avari, io già so ben che a mie parole
    L’ingrossata coscienza non respira,
    E fate quivi quel che dir si suole,
    Come l’asino al suono della lira:
    Bensì del vostro male il cuor mi duole,
    Piange l’animo mio, geme e sospira;
    Sed vana fit effusio mei Sermonis,
    Perchè induratum est cor Pharaonis.

    Alle sostanze altrui voi v’attaccate
    Con le mani viscose, e le tenete ;
    Spesso nel maneggiar pubbliche entrate
    Quelle con penna alleggerir solete;
    E se denari al povero prestate
    Cento per uno guadagnar volete
    Per fas e nefas, e poi per Salviano
    Sempre la roba altrui volete in mano.

    Gridar or mi convien con voce viva
    A voi uomini e donne, che mi udite,
    Che alla natura vostra assai lasciva
    Di mala carne oggi il macello aprite:
    E mentre il senso di ragion vi priva,
    Corrotto il corpo l’anima tradite,
    A tentazion di carne vi piegate,
    E come il visco a quella vi attaccate.

    Carne di vacca omai cibo non sia
    Per voi, lasciva ed impudica gente;
    Sopra di ogni altro poi sbandito sia
    Quel vizio sì nefando che si sente
    Regnare in molti, che trovan la via
    Di convertir la pioggia in fiamma ardente;
    Poichè se Iddio creò si bello il mondo,
    Fa gran peccato chi gli guasta il tondo.

    Ma voi che l’odio e il grave sdegno incita
    Alle vendette ed a crudeli imprese,
    Col nemico a far pace il cielo invita,
    Perchè restin alfin vostr’alme illese;
    Bella guerriera a morte già ferita
    Vi sia d’esempio in perdonar l’offese;
    Udite come in dolci note intuona:
    Amico hai vinto, io ti perdon, perdona.

    E non mi state a dire, o Padre, io sono
    Di tal natura, che se vengo offeso
    Non mi posso ridur con il perdono
    A dar la pace a quel da cui son leso;
    Non mi spaventa il folgore nè il tuono,
    Della morte al timor mai mi son reso:
    So che nel mondo, che di matti è gabbia,
    Tant’è morir di amor, quanto di rabbia.

    Non dite, no, non dite questa cosa,
    Perchè la morte non è d’acqua un sorso,
    Sebben sicuro ciaschedun riposa
    Sia tanto ch’ella non si mette in corso:
    Solo si spaccia d’alma coraggiosa
    Chi provato non ha di lupo il morso;
    Ma credo al certo, quando giunta è l’ora
    Che rincresca il morire ai bravi ancora.

    Adesso io parlo, e dico a voi ghiottoni,
    Che per la gola tante industrie usate,
    E per condire e far buoni bocconi
    Del pan unto le regole studiate:
    Con questo libro di meditazioni
    Per vostro Dio il ventre contemplate;
    D’Averno il fuoco poi nella cucina,
    E dentro al fiasco la bontà divina.

    Colui che troppo attende al crapulare,
    Per l’Inferno s’ingrassa, o miei Signori;
    E chi sino alla gola immerso stare
    Fra gli intingoli cerca ed i sapori,
    Giammai si puol con mente al ciel’alzare,
    Ma sol di denti proverà i stridori:
    Chi troppo mangia, e vuol tre pan per coppia,
    Con il ventre ripien più presto scoppia.

    Alcuni osservo poi di strano umore
    Mirar con occhio livido e invidioso
    Chi la fortuna tiene in suo favore,
    Vivendo inquieti nell’altrui riposo:
    Conturba in lui l’altrui contento core,
    L’altrui viver felice è a lor noioso:
    Ma fa chi porta invidia all’altrui bene
    Con gli avanzi di quel magre le cene.

    E voi, che come bestie da vettura,
    Che in gran viaggio han fatta la condotta,
    O come un cavallaccio che non cura
    Lo spron, perchè restìo e mai non trotta,
    Oziosi e pigri siete per natura,
    Da voi giammai al bene oprare indotta:
    Un cavallo spallato, or ve l’avviso,
    L’alme non può condurre in Paradiso.

    Fuggite dunque i vizi, e da cristiani
    I precetti di Dio tutti osservate:
    Col ferro il sangue dalli corpi umani,
    Se non siete chirurghi, non cavate:
    Con unghie acute e con adunche mani
    Nemmen toccar la roba altrui bramate,
    E come dice la divina Deca,
    Lasciate stare ancor l’altrui Ghineca.

    Nella Legge di Dio vostra salute
    Si trova bene, e il vizio sol vi danna,
    Mentre di questo l’anime imbevute
    Il fragil senso l’intelletto appanna.
    Per impedirvi il far cose dovute,
    Amore è cieco, e l’interesse inganna;
    Debole è l’uomo, e forte è il tentatore;
    Ma pur la vince il confessar l’errore.

    Concludo in somma, che il peccato è un tutto
    Che costa caro e pur si stima un nulla;
    Ma chi nulla lo stima perde il tutto,
    E vende il tutto per comprare un nulla:
    Un nulla è poi per cui rovina il tutto,
    E toglie il tutto per donare un nulla;
    Toglie il ben, dona il mal: or se vi piace,
    Pensateci ben sopra, e andate in pace.

    Or ecco già che il nostro Gesuita
    Ha la Predica sua finita; ed io
    Mentre la Musa a riposar m’invita,
    Voglio qui tralasciare il canto mio;
    Non perchè qui la storia sia finita,
    E mi abbandoni la benigna Clio,
    Ma prendo lena per dar poi le mosse
    Alla lingua per dir cose più grosse.


    Cortona convertita




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