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Francesco Petrarca
Triumphus Eternitatis
(Trionfo dell'Eternità)
Da poi che sotto ’l ciel cosa non vidi
stabile e ferma, tutto sbigottito
mi volsi al cor e dissi: - In che ti fidi? -
Rispose: - Nel Signor, che mai fallito
non ha promessa a chi si fida in lui;
ma ben veggio che ’l mondo m’ha schernito,
e sento quel ch’i’ sono e quel ch’i’ fui,
e veggio andar, anzi volare il tempo,
e doler mi vorrei, né so di cui;
ché la colpa è pur mia, che più per tempo
deve’ aprir gli occhi, e non tardar al fine,
ch’a dir il vero omai troppo m’attempo.
Ma tarde non fur mai grazie divine:
in quelle spero che ’n me ancor faranno
alte operazïoni e pellegrine. -
Così detto e risposto: or, se non stanno
queste cose che ’l ciel volge e governa,
dopo molto voltar che fine avranno?
Questo pensava; e mentre più s’interna
la mente mia, veder mi parve un mondo
novo, in etate immobile ed eterna,
e ’l sole e tutto ’l ciel disfar a tondo
con le sue stelle, ancor la terra e ’l mare,
e rifarne un più bello e più giocondo.
Qual meraviglia ebb’io, quando ristare
vidi in un punto quel che mai non stette,
ma discorrendo suol tutto cangiare!
E le tre parti sue vidi ristrette
ad una sola, e quella una esser ferma
sì che, come solea, più non s’affrette,
e quasi in terra d’erbe ignuda et erma,
né «fia» né «fu» né «mai» né «inanzi» o «’ndietro»
ch’umana vita fanno varia e ’nferma.
Passa il penser sì come sole in vetro,
anzi più assai, però che nulla il tene:
o qual grazia mi fia, se mai l’impetro,
ch’i’ veggia ivi presente il sommo bene,
non alcun mal, che solo il tempo mesce,
e con lui si diparte e con lui vene!
Non avrà albergo il sol Tauro né Pesce,
per lo cui varïar nostro lavoro
or nasce, or more, et or scema, or cresce.
Beat’i spirti che nel sommo coro
si troveranno o trovano in tal grado
che sia in memoria eterna il nome loro!
O felice colui che trova il guado
di questo alpestro e rapido torrente
ch’ha nome vita et a molti è sì a grado!
Misera la volgare e cieca gente,
che pon qui sue speranze in cose tali
che ’l tempo le ne porta sì repente!
O veramente sordi, ignudi e frali,
poveri d’argomenti e di consiglio,
egri del tutto e miseri mortali!
Quei che governa il ciel solo col ciglio,
che conturba et acqueta gli elementi,
al cui saver non pur io non m’appiglio,
ma li angeli ne son lieti e contenti
di veder de le mille parti l’una,
et in ciò stanno desïosi e ’ntenti....
O mente vaga, al fin sempre digiuna,
a che tanti penseri? Un’ora sgombra
quanto in molt’anni a pena si raguna.
Quel che l’anima nostra preme e ’ngombra,
dianzi, adesso, ier, diman, mattino e sera,
tutti in un punto passeran com’ombra;
non avrà loco «fu» «sarà» ned «era»,
ma «è» solo, in presente, et «ora» et «oggi»,
e sola eternità raccolta e ’ntera.
Quasi spianati dietro e ’nanzi i poggi
ch’occupavan la vista, non fia in cui
vostro sperare e rimembrar s’appoggi;
la qual varïetà fa spesso altrui
vaneggiar sì che ’l viver par un gioco,
pensando pur: - che sarò io? che fui? -
Non sarà più diviso a poco a poco,
ma tutto insieme; e non più state o verno,
ma morto il tempo e varïato il loco;
e non avranno in man li anni il governo
de le fame mortali, anzi chi fia
chiaro una volta fia chiaro in eterno.
O felici quelle anime che ’n via
sono o seranno di venire al fine
di ch’io ragiono, quandunque e’ si sia!
E tra l’altre leggiadre e pellegrine,
beatissima lei che Morte occise
assai di qua del natural confine!
Parranno allor l’angeliche divise,
e l’oneste parole, e i pensier casti
che nel cor giovenil Natura mise.
Tanti volti, che Morte e ’l Tempo ha guasti,
torneranno al suo più fiorito stato;
e vedrassi ove, Amor, tu mi legasti,
ond’io a dito ne sarò mostrato:
- Ecco chi pianse sempre, e nel suo pianto
sovra ’l riso d’ogni altro fu beato! -
E quella di ch’ancor piangendo canto,
avrà gran maraviglia di se stessa,
vedendosi fra tutte dar il vanto.
Quando ciò fia, nol so; se fu soppressa
tanta credenza a’ più fidi compagni,
a sì alto segreto chi s’appressa?
Credo io che s’avicini, e de’ guadagni
veri e de’ falsi si farà ragione,
ché tutti fien allor opre d’aragni.
Vedrassi quanto in van cura si pone,
e quanto indarno s’affatica e suda,
come sono ingannate le persone;
nessun segreto fia chi copra o chiuda;
fia ogni conscïenza, o chiara o fosca,
dinanzi a tutto ’l mondo aperta e nuda;
e fia chi ragion giudichi e conosca.
Ciascun poi vedrem prender suo viaggio
come fiera scacciata che s’imbosca;
e vedrassi quel poco di paraggio
che vi fa ir superbi, e oro, e terreno,
esservi stato danno e non vantaggio;
e ’n disparte color che sotto ’l freno
di modesta fortuna ebbero in uso,
senz’altra pompa, di godersi in seno.
Questi trionfi, i cinque in terra giuso
avem veduto, et a la fine il sesto,
Dio permettente, vederem lassuso;
e ’l Tempo, a disfar tutto così presto,
e Morte in sua ragion cotanto avara,
morti inseme seranno e quella e questo.
E quei che Fama meritaron chiara,
che ’l Tempo spense, e i be’ visi leggiadri
che ’mpallidir fe’ ’l Tempo e Morte amara,
l’obblivïon, gli aspetti oscuri et adri,
più che mai bei tornando, lasceranno
a Morte impetuosa, a’ giorni ladri;
ne l’età più fiorita e verde avranno
con immortal bellezza eterna fama.
Ma inanzi a tutte ch’a rifar si vanno,
è quella che piangendo il mondo chiama
co la mia lingua e co la stanca penna;
ma ’l ciel pur di vederla intera brama.
A riva un fiume che nasce in Gebenna
Amor mi diè per lei sì lunga guerra
che la memoria ancora il cor accenna.
Felice sasso che ’l bel viso serra!
ché, poi ch’avrà ripreso il suo bel velo,
se fu beato chi la vide in terra,
or che fia dunque a rivederla in cielo?