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Gabriello Chiabrera
Elogj d'uomini illustri
D. Virginio Cesarini
Italia quanto ella è grande colmossi di maraviglia, quando vedeva D. Virginio Cesarini universale padrone delle scienze pure in quegli anni, ne quali sogliono cominciare gli uomini ad apprenderle; e veramente rare volte videsi quello, che ad ogni ora Roma soleva per lui vedere; ciò era un nobile giovinetto cinto di spada, ed in abito assai leggiadro azzuffarsi nelle letterarie contese con uomini maestri, e nelle scuole diventati tutti canuti; e per vaghezza lasciarli in forse del saper loro su quelle catedre, in cui dell’altrui dottrina soleano trionfare. Egli della filosofia fu espertissimo, della sacra teologia penetrò negli intendimenti più secreti, e niuna finalmente delle scienze gli fu straniera; la gentilezza delle lettere umane ebbe in sua balia; e nella poesia latina, verso la quale egli piegava l’animo, colse il pregio di ogni corona; la toscana non ebbe a vile, anzi in molte maniere scherzovvi dentro, ed avvegnacchè egli l’ingegno solamente trastullasse, fecelo per modo, che gli altrui studj appena adeguavano i suoi trastulli, e di tante e tanto ammirabili eccellenze egli adornossi di quà da trent’anni della sua vita; perciocchè quivi gli diede assalto una male conosciuta infermità, la quale non lasciollo al mondo, ma l’atterrò. Ora di personaggio sì fatto pare soverchio per onorarlo raccontare, ch’egli splendesse di nobiltà chiaramente, e che non gli venisse meno ricchezza, e che nella sembianza gli fiorisse singolare bellezza: in persona di cui l’anima non sfavillasse, apparirebbono questi splendori; ma in D. Virginio la chiarezza eterna dell’intelletto adombrò queste caduche faville. Non è già da porsi in silenzio, che tutte le genti il riverirono, e che sommi Pontefici il vollero appresso, e l’apprezzarono sommamente, e via meno è da tacersi, che il Romano Popolo, ed il Senato con pubblica pompa gli fecero esequie, e comandarono, che nel Campidoglio ne durasse sempiterna memoria. Quale fia dunque lo sconsigliato, che affissandosi in questo specchio non divenga vaghissimo di virtù, essendo certo che nella vita e nella morte ella ne accompagna con altissima pompa di onorevolezza, e ripone i nostri nomi nel tempio desiderato d’eternità?
Giovanni Ciampoli
A ragione siccome amico dell’invidia si additerebbe colui, dal quale negato fosse a Firenze il pregio per chiarezza d’ingegni illustrissimi, ed anco dirittamente appellerebbesi nemico della verità chiunque non riponesse Giovanni Ciampoli infra coloro, ed anzi fra i primi che fra i secondi. Vassene altiera quella Città, nè senza ragione, per lungo numero di singolari cittadini, molti maestri delle scienze profonde, moltissimi forniti di quelle lettere, a cui per eccellenza dassi il nome di belle comunemente da’ popoli. Ora dovunque noi vorremo nominare il Ciampoli, ne fia con nostra loda conceduto. Egli da prima apprese gli ordini dell’idioma Toscano, e del Latino, e del Greco: poscia uscendo di casa dimorò in Pisa per cagione dello studio, nè meno poi in Padova, ed in Bologna. Quivi adornossi della Filosofia; ascoltò ciò che dettano i maestri della legge imperiale: prese conoscenza delle matematiche, e nulla a dietro lasciò di quello, che nelle scuole suole insegnarsi a peregrini intelletti. Sì fattamente fornito egli inviossi nello steccato di Roma per combattere la fortuna, se ella malvagiamente si facesse incontro alla sua chiara virtù; poco penò ad essere conosciuto, ed insieme amato, ma da D. Virginio Cesarinì per modo che di due stelle fecesi un astro, onde tu tutto il Cielo si rischiarò di quella gran corte. Gregorio XV. Sommo Pontefice chiamollo nel Vaticano, e creollo Secretano de’ Brevi, i quali soglionsi scrivere a Principi; succedendo Urbano VIII. lasciollo nelle fatiche medesime; ma gli crebbe onore chiamandolo suo secreto Cameriere. In questo grado e nell’età di trentacinque anni spone la volontà di nostro Signore a Principi, e con amata violenza comanda persuadendo nelle Reggie di tutta Europa; ma dando risposta a reali ambasciatori con tuono soave di voce fa rimbombare tuoni di tale eloquenza, onde scuotonsi gli animi non di timore, ma di maraviglia grandissima. Veramente gli si deono sommi titoli per avere sormontata la gloria di quegli antichi; ma se egli nella vecchiezza sublimerassi sopra le lodi della sua medesima gioventù fia mestieri fra gli uomini trovare nuove note per esprimere il merito dal non più manifestato valore.
Gio: Batista Strozzi
Gio: Batista Strozzi nacque di Lorenzo Strozzi, e di Lucrezia Tornaboni, e di qui appare, che sua patria fu Firenze, e siccome fu il sangue gentile, così le ricchezze furono mezzane. Lasciò che un fratello si maritasse, ed egli consegnossi intieramente alle lettere; fa alto di persona, e di riguardevole aspetto; gli occhi ebbe sempre deboli, e crescendo gli anni fu nella vecchiezza abbandonato dalla vista; per altro di complessione gagliarda. Di quest’uomo ho da dir brevemente qui alcuna cosa, e se quei ragionamenti sogliono desiderarsi, i quali cose leggiadre raccontano, ed agli ascoltatori fan giovamento, parmi averne per le mani un sì fatto. Egli ancor giovine ascoltò maestri di Filosofia in Pisa tanto, quanto alle belle lettere dovessero dare splendore, alle quali egli studiando, rivolse l’animo affatto; e nelle prose divenne grande, nè punto picciolo volse rimanere nei versi. Di questo fece varie sperienze, ed in molte maniere trattonne; perciocchè lesse nelle Accademie sovente, e disse nelle chiese assai volte; in verso compose sonetti, madrigali, e canzoni, ed anco epistole spargendole di concetti morali, e delle lodi de’ Signori, ch’egli onorò; e fu di buon grado sentito in Firenze da sublimi intelletti, ed in Roma da personaggi, ed ingegni illustrissimi; e veramente in poche parti o verseggiando, o proseggiando lasciò che alcuno gli fosse superiore; ma nella candidezza, e nella gentilezza della favella egli si fece superiore a ciascuno. Avrebbe volentieri tentato il poema eroico, il cui peso egli sentivasi forte a sostenere; ma l’infermità degli occhi, e gli sconci, che l’accompagnano, ne lo distolsero; non per tanto sopra l’onore, il quale egli acquistò dai volumi scritti, fu commendato di questo ch’egli averebbe saputo scrivere. Qui farei punto, se io ragionassi d’uomo semplicemente letterato; ma per lo Strozzi fa bisogno ritornare da capo tali furono suoi costumi, e le virtù dell’animo suo. Non fu cittadino sì ricco, il qualo possa darsi vanto di averlo soverchiato di liberalità; giovinetti di buon talento egli raccolsegli in casa, e procacciò, che si formassero di dottrina, ed alcuni chiarissimi ne son divenuti; peregrino di fama non trapassò per Firenze, che egli non gli desse albergo, o almeno alle sue tavole non l’onorasse, prontissimo a spendere suo favore co’ Principi per chiunque gliene facesse ragionevole preghiera; e conosciuti appena da lui, amogli siccome amici, e gli amici siccome se stesso; ed è vero che di sua bocca non esce parola, la quale altro non sii che loda di ognuno; il suo animo sempre fu, ed apparve cristiano, e nell’afflizione degli occhi infermi mantiensi non solamente con pazienza, ma con franchezza; argomento ne sia la giocondità; poichè seco non può compagno dimorare salvo che lieto. Per tutto questo amato fu, e conosciuto da pari suoi singolarmente, ed i grandi, e principi di titolo lo pregiano, ed i sommi Pontefici l’ebbero caro. Egli al presente è sul settantesimo sesto anno, e vivesi con intiera sanità, e ci promette, che anco lungamente farà godere della sua presenza, conciòsiacchè suoi modi temprati gli fanno schermo da ogni assalto di malattia. Ho parlato di uomo sì fatto poco, e scarsamente, e ne abbia colpa il mio piccolo sapere, e fui per non farne ragionamento pure perciò; ma da altra parte non è giusta, nè ragionevole cagione tacere degli uomini solo perchè delle loro qualità a compimento non possa parlarsi; che in tal maniera all’altrui valore, quanto egli fosse più sovrano, si verrebbe maggiormente meno, e darebbesi bando allo scrivere, essendo pari fatica lodare coloro, i quali per nulla adoperare al mondo son sicuri e mal conosciuti, e coloro, che con nobili operazioni si son rischiarati; che per gli uni mancano degne parole, e per gli altri degne azioni. Ora dello Strozzi fassi memoria, acciò abbiasi esempio, in cui riguardando gli uomini, possano non pure farsi savj, ma con felicità divenire più buoni.
Ottavio Rinuccini
Gli uomini perchè nascono senza sapere, ed hanno per la brevità della vita poco tempo di apprendere, si diedero intentamente ad osservazioni intorno alle cose, che deono farsi, e così formarono arti, secondo le quali altri operando si affidasse di non errare; e coloro che con sì fatti ammaestramenti si reggono, hanno titolo di savj nel loro mestiere, e reputansi eccellenti. Ciò fu veramente giovevole assai per l’umana generazione; è però da dirsi, che fra gli uomini sorgono alcuni sì singolari, i quali sanno apprendere nelle altrui scuole, e sono maestri a se stessi. Affermasi di Pompeo, ch’egli si era fatto soldato sotto se medesimo capitano; ed anco Lucullo non si intese della guerra, salvo quando egli la esercitò, nè apprese a combattere, salvo sul punto, ch’egli guadagnò le vittorie. Questa maraviglia ne diede Omero parimente, il quale poetando produsse l’artifizio di poetare. Or io col riguardo dovutosi alle persone grandi, ed alle grandissime, io darò loda somigliante ad Ottavio Rinuccini; perciocchè egli non studiò scienza nessuna, ed anco della lingua latina poco fu esperto; non pertanto egli mise mano a diverse maniere di poesia, e fecesi chiaro per tutta Italia, alla quale tutta non mezzanamente fu caro; ebbe una vena di verseggiare sonoramente, e verseggiava con agevolezza non picciola, e con saldo giudizio scorgeva il migliore, ed il fiore coglieva di celebrati componimenti; ed in ciò fare fu da tenace memoria sostenuto; ed anco appigliossi a novelle maniere, e fu il primiero che in sulla scena conducesse a rappresentarsi favole cantate, della quale impresa raccolse gloria, e trasse altri a seguire i suoi trovamenti. Firenze e Mantova con nozze Reali ne feciono testimonianza, la quale tuttavia dura, ed è per non mancare in picciolo tempo; perciocchè in una si cantò la sventura di Euridice, e nell’altra l’abbandonamento di Arianna, quella musicata da Giacomo Peri, e questa da Claudio Monteverde. Nè solo suo pregio furono le poesie, ma suoi costumi furono oltramodo gentili usando fra le persone; nè parve poeta da riporsi fra luoghi solinghi, ma sì da passeggiare per palagi reali, ed altissimi, e da fare con buona accoglienza raccorre le muse nelle stanze degli altissimi Principi. Giunse sull’orlo di sessanta anni, e morì in Firenze là dove nacque di sangue ben chiaro, lasciando non punto vile la memoria della sua vita. Ora avvegnacchè queste cose sien vere, non è già da contrastarsi, che colui farassi sovrano, in cui lo studio solleverà, e la natura non verrà meno allo studio.
Gio: Batista Marino
Volgendo la mente sopra Gio: Batista Marino sovvienimi di Pindaro, quando egli cantava contra Bachilide. Diceva quell’uomo chiarissimo, che tra poeti coloro erano eccellenti, i quali della natura aveano lor movimento; ma se altri pigliava vigore solo dall’arte, egli averebbe gracchiato siccome un corbo. Il Marino, il quale non prima ebbe favella che vena, ed a cui per altro conceduta non fu la lingua, salvo perchè egli cantasse, può farne manifestissima prova fra noi. E come senza largo favor di natura amicissima potevansi mettere insieme cotanti versi, e di cotante maniere, ed addattarsi a cotante generazioni di poemi? Certamente altri guardando al gran numero, dispera della lor gran bontà, ed esaminando la lor gran bontà, non dà fede a se medesimo del loro sì grande numero; e se parlando di poeta altri volesse poeticamente parlare, acconciamente piglierebbe argomento della patria; perciocchè essendo il Marini venuto al Mondo sulle bellissime piagge di Napoli, potremmo dire, ch’egli apprendesse dalle Sirene a mirabilmente cantare, ma non per affogare alcun passaggiere, anzi per far giocondi gli ascoltatori. Visse oltra cinquantacinque anni, caro a chiunque ebbe con lui amistà, celebrato da popoli, diletto a Principi, ed il reame di Francia, ove fece soggiorno non breve, l’ammirò non poco, ed è vero, che ivi fu gradito da Re medesimi: alfine ritornando in Italia vago di rivedere le case paterne e la patria, vi si condusse, e fra le bracia de’ parenti, e degli amici fornì suoi giorni. Fu con molto splendore sepolto, e con tristezza lagrimato; e per molte maniere mostrassi di sua persona desiderio, e rimembranza. Tuttavia possiamo dire veracemente, che il nostro Parnaso non ha lauri abbastanza per coronarlo, e che la sua gloria non ha mestiere alcuno di marmi. Le doti, delle quali fornillo natura, onde egli diede battaglia alla morte, e le porte si aperse all’immortalità, gli fanno cotale sepolcro, che le spoglie non men vaghe che ricche di Signori grandissimi rimangono vile cosa, e solamente segno alle popolari ammirazioni.
Galileo Galilei
Galileo Galilei nacque in Firenze, ed al suo nobile spirito natura non venne meno di nobile patria; ma di somiglianti grazie uomini infiniti sogliono goderne. Di lui si vuole dire proprie glorie, ed alle quali pochi intelletti abbiano ad aspirare con buona speranza. Egli dunque nella gioventù adornossi d’ogni leggiadra letteratura; ma l’animo determinatamente rivolse alle scienze matematiche; lessele in catedra nella città di Pisa, e poscia in quella di Padova, là dove le sue parole furo sì fatte, che messe l’ali se ne volarono di là dall’Alpi, e furono con maraviglia raccolte da quelli uomini grandi, i quali spezzato il chiostro della barbarie, vanno volentieri incontro all’ammirabile gentilezza. Di Padova il trassero i Serenissimi di Toscana, ed ebbono per onore fermare nell’altezza della loro corte il Galilei, il quale aveva nell’altezza del cielo fermato il nome della loro famiglia chiarissima. Quivi gradito da Principi, quantunque abitator della terra, passeggia, a dirlo con parole belle d’Omero, le cime eccelse dell’Olimpo ; e se a nostri giorni fosse l’antichissimo costume concesso di onorare i veri concetti co’ velami di favole, averemmo per lui grande opportunità di proporre altri carichi d’Atlante, ed altre notti sonnachiose d’Endimione. E veramente se deesi credere, che i cieli, ed i loro lumi parte abbiano nel componimento de’ corpi umani sicchè migliori, e peggiori facciano gli stromenti, onde poi l’intelletto si adopera con maggiore forza e con minore, io non mi riterrò di dichiarare intorno al Galilei mia opinione, cioè che a gran ragione apprestarono quei corpi superni a quest’uomo il modo di altamente contemplare; poichè contemplando pur loro, spose quà giuso i movimenti di quelle eterne regioni per via, che fatte più chiare sono agli occhi mortali più caramente manifestate; e però più vivamente s’invogliano i sublimi ingegni di mirarle, ed anco ammirarle. Di qui le Muse, e la Fama non deono d’altro che di stelle coronare la fronte a personaggio sì singolare; grande perchè in gran cose travagliò l’animo, e via più grande, perchè varj mostri non ne lo distolsero; ma siccome Ercole, ebbe a domarli, e poi trionfarne. E se per Cristoforo Colombo ogni rimbombo di lode è fioco siccome a trovatore di nuove terre, in qual modo degnamente loderassi il Galileo discopritore di nuove stelle? Per certo non porransi in paragone le cose caduche con le sempiterne, salvo da coloro, in cui l’anima, se fosse possibile, appagherebbesi di essere mortale. Noi all’incontro mettiamo gridi in celebrando il vigore dell’intelletto, e diamo al suo sapere titolo d’infinito; nè altramente diranno gli uomini forniti di senno, che sono per nascere al mondo; anzi volgendo l’animo a giorni ben spesi, ed alle notti ottimamente impiegate, esalteranno uno intelletto, il quale nè immensa autorità di maestri antichi, nè opinioni per anni innumerabili fatte robuste negli animi altrui, hanno potuto abbassare, nè privarlo della ragionevole libertà; ed è vero ch’egli dando mai sempre l’imperio alle ragioni, ed ai fortissimi argomenti, ha saputo francarsi da plebea, ed indegna di vero filosofo servitù.
Sperone Speroni
Se lo Scrittore si acquistasse titolo di eloquente per una pura proprietà di favella, e per mostrarsi padrone di certi modi, che con gentilezza carissima escono di bocca naturalmente agli uomini, che sono idioti, io mi lascerei condurre a credere, che nel linguaggio Toscano l’uomo nato in terra Toscana malamente potesse vincersi, ed a fatica pareggiarsi nell’opera dello scrivere. Ma altramente in ciò è da giudicarsi secondo me; anzi colui, il quale solamente sa ben favellare, non merita loda scrivendo; ben gli si dee biasimo, se egli scrivendo, favellare non sapesse. L’uomo eloquente dee potere con la forza degli argomenti persuadere altrui, e col turbare le passioni dell’animo, e con l’apparire di costumi sì fatti, che l’uditore si rechi a vergogna non gli dar fede. E se ciò è vero, io prendo ardimento di porre Sperone Speroni a paro di qualunque scrittore sia stato, non consentendo che alcuno gli vada innanzi neppure un poco; e quando per le sue scritture non se ne facesse prova abbastanza, sarebbe ragionevole darselo ad intendere per le riguardevoli sue qualità; perciocchè egli visse ottanta otto anni e sempre mai fra persone ben dottrinate, e per natura egli fu d’intelletto nobilissimo, e tale fu la sua memoria, che nè anco nella gran vecchiezza non menomò. E però se egli ebbe desiderio di avanzarsi nelle lettere e modo non gli venne meno di questo desiderio compire, e dalla natura fu ottimamente disposto, che cosa poteva divietargli il pervenire a pregi sommi, ed ammirabili? Scrisse dunque con ogni eccellenza, e spezialmente dialoghi, ove possiamo affermare che per lo valore de’ suoi non ha la lingua Italiana di che invidiare l’altrui. In questa scrittura cotanto è il numero degli argomenti, e tale è la robustezza nel vibrarli, e sì fatta l’accortezza nell’allegarli, e sì grande finalmente la gentilezza nel dispiegarli, che l’uditore crede e discrede pure, secondo che ascolta, e di buon grado consente alla violenza, che gli vien fatta, in modo che dassi vinto, e dilettasi nella vittoria, sempre ammirando la forza di chi lo soggioga. Ora che dee volersi dagli Scrittori? e che ne vuole il mondo pur fino a qui? Certamente l’arte del persuadere con ogni fortezza fu pregio di Sperone e gloria. Compose la tragedia Canace, ed ella fu sottilmente esaminata, ed acerbamente ripresa; ma egli difendendola, fecesi maraviglioso fuor di misura senza dubbio; perciocchè è vero, che leggendosi la tragedia, non scorge il lettore come in alcune parti possa scusarla, ma sentendo le scuse, confessa che in ogni parte è costretto di commendarla. Scrisse similemente una Apologia per li dialoghi, e scrisse di maniera, che obbligo dobbiamo a quei Saggi, i quali tentarono, che essi rimanessero condannati, per la nobile scrittura, che egli distese, acciò fossero prosciolti. Ed in questo grande uomo fu strana cosa, che egli non seppe altro che scrivere Toscanamente, e Padovanamente parlare. Ben è vero, che egli favellava in guisa che più nobile idioma non si desiderava ascoltandolo, e le corti di Padova, ed i tribunali di Venezia ne serbavano memoria, e ne fanno alta testimonianza. Non mai scemò la sua gloria nel corso lunghissimo della vita, e dopo la morte gli crebbe. Che più? Padova per decreto pubblico alzogli statua onorando il cittadino, da cui tanti erano a lei pervenuti onori. Veramente fu lo Sperone grande ornamento all’Italia; negar non si può; è all’incontro da dubitarsi, che egli in alcuna parte sarà per nocerle; perciocchè molti, i quali per se chiari nel tempo a venire l’averebbono illustrata, rimanendo dal fulgore di lui quasi senza alcun lume, non averanno di che adornarla grandemente. Non pertanto è bene che in fra le stelle sparga i raggi, splenda il Sole sovranamente.
Torquato Tasso
Parlando di Torquato Tasso, hassene, secondo me, a parlare intorno a pregio di poesia, per la quale tutta Europa ha altamente di lui parlato, nè senza ragione; che dire del sangue, e della sua patria, e di cose simili, non si racconterebbono lodi, onde egli andasse più su che gli altri; quantunque egli perciò sia stato riguardevole nel mondo, come ciascuno ben nato: ma di personaggio fatto sì singolare dalle altre persone per sommo studio, sarebbe una fatica dire qualità, nelle quali non è, salvo pari agli altri. Ora sembrami che il Tasso in fra i poeti volgari si rappresenti, quale presentossi Virgilio fra suoi Latini; conciosiachè Virgilio dottrinossi nelle scuole de’ Filosofanti, e nel suo poema fu vago di far mostra della dottrina imparata; ed avvegnacchè più maniere di poesia egli trattasse, non pertanto vedesi ch’ei nacque alle grandi, e per celebrare pure gli Eroi, e nel poema suo rivolgendosi verso la sublimità, non fissò la mente ad alcuna condizione di favola, nè a porre minutamente sotto gli occhi a’ Lettori con le parole le cose narrate si travagliò, ma sempre mai vola per l’alto, e verseggiando fa rimbombo, ed empie fortemente le orecchie con infinita soavità. Similmente Torquato non attaccossi alla singolarità della favola, nè minutamente fece la sua narrazione; ma intento a sollevare il verso Toscano, tuona, e colma l’uditore co’ versi suoi d’insuperabil dolcezza, e dove gli viene in acconcio, non schifa di mostrarsi ben dotto, e domestico delle scuole; ne perchè in varie maniere egli poetasse, fu mai miglior poeta che faticandosi nell’Epopea. Possiamo similmente contare come Virgilio lasciò l’Eneida imperfetta per morte importuna, ed il Tasso non diede a suo grado fine alla Gerusalemme per accidente peggiore che morte: ambidui rimasero poco soddisfatti di loro scrittura; ma nondimeno i secoli corsi da poi hannola stimata se non senza paragone, tuttavia senza errore; e veramente specchiandosi in questi poeti, tutti i poeti, se fieno poeti, affisserannosi; per tal maniera suo studio, e natura fece il Tasso a Virgilio somigliante; ma per altro mostra, ch’egli somigliante sia ad Omero. Non voglio cominciare da alto, e dire che uno si nacque molto poverello, come si sa, e l’altro sul cominciamento della vita vide al padre togliersi tutto il suo avere, onde siccome ad Omero a Torquato convenne sostenersi dell’altrui cortese amorevolezza. Ben dirò, che Omero datosi a poetare rimase senza la luce degli occhi, e Torquato poetando vide abbarbagliarsi la luce dell’intelletto assai spesso. Inoltre i poemi di Omero dispersi e lacerati ebbono a raccozzarsi e porsi insieme; e quello del Tasso trapassando per le altrui mani, ed in molti modi mal concio ebbe mestieri della diligenza altrui. Che più? Di Omero molte città vollero esser patria, ed il Tasso di più d’una può cittadino dirsi non falso; perciocchè in Napoli nacque, e di Bergamo trasse origine, ed in Ferrara menò più parte de’ giorni. Fu Omero assai per la Grecia peregrinando ora per vaghezza, ora per necessità; e Torquato per l’Italia non poco per molte cagioni trascorse; e l’uno e l’altro finalmente di più grande splendore adornossi dopo vita, e più maravigliosi apparvero al mondo, quando non più rimirando le sembianze del loro corpo, egli ebbe solamente a riguardare le opere de’ loro ingegni. Ora pare a me accidente da non tralasciarsi con maraviglia, che nel volgare poeta sieno le qualità tanto a numero, onde egli al Latino, ed al Greco possa per varie cagioni paragonarsi. Ha voluto la natura far credere, che formando il Tasso, ella aveva dinanzi Omero, e Virgilio, e volle sottilmente dare ad intendere per questa via in quale stima egli debba tenersi dagli uomini, veggendolo rappresentare sulla scena dell’Universo somigliante a due personaggi, i quali sono per tanti secoli trascorsi reputati ammirabili. Ha dunque la nostra Italia di che ben avventurata appellarsi, e dee con ogni sforzo onorare Torquato Tasso, ed onorarlo supremamente; perciocchè sommi pregi onorare mezzanamente, è far sembiante di averli in dispregio manifestamente.
FINE.