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Giacomo Leopardi
Appressamento della morte - Canto I
Era morta la lampa in Occidente,
E queto ’l fumo sopra i tetti e queta
De’ cani era la voce e de la gente:
Quand’i’ volto a cercare eccelsa meta,
Mi ritrova’ in mezzo a una gran landa,
Bella, che vinto è ’ngegno di poeta.
Spandeva suo chiaror per ogni banda
La sorella del sole, e fea d’argento
Gli arbori ch’a quel loco eran ghirlanda.
I rami folti gian cantando al vento,
E ’l mesto rosignol che sempre piagne
Diceva tra le frasche suo lamento.
Chiaro apparian da lungi le montagne,
E ’l suon d’un ruscelletto che correa
Empiea il ciel di dolcezza e le campagne.
Fiorita tutta la piaggia ridea,
E un’ombra vaga ne la valle bruna
Giù d’una collinetta discendea.
Sprezzando ira di gente e di fortuna,
Pel muto calle i’ gia da me diviso,
Cui vestia ’l lume della bianca luna.
Quella vaghezza rimirando fiso,
Sentia l’auretta che gli odori spande,
Mollissima passarmi sopra ’l viso.
Se lieto i’ fossi è van che tu dimande,
Grand’era ’l ben ch’aveva, ed era ’l bene
Onde speme nutria, di quel più grande.
Ahi son fumo quaggiù l’ore serene!
Un momento è letizia, e ’l pianto dura.
Ahi la tema è saggezza, error la spene.
Ecco imbrunir la notte, e farsi scura
La gran faccia del ciel ch’era sì bella,
E la dolcezza in cor farsi paura.
Un nugol torbo, padre di procella,
Sorgea di dietro ai monti e crescea tanto
Che non si vedea più luna né stella.
Io ’l mirava aggrandirsi d’ogni canto,
E salir su per l’aria a poco a poco,
E al ciel sopra mia testa farsi manto.
Veniva ’l lume ad ora ad or più fioco,
E ’ntanto tra le frasche crescea ’l vento,
E sbatteva le piante del bel loco,
E si facea più forte ogni momento
Con tale uno stridor che svolazzava
Tra le fronde ogni augel per lo spavento.
E la nube crescendo in giù calava
Ver la marina, sì che l’un suo lembo
Toccava i monti e l’altro il mar toccava.
Pareva ’l loco d’ombra muta in grembo
Di notte senza lampa chiusa cella,
E crescea ’l buio a lo ’ngrossar del nembo.
Già cominciava ’l suon de la procella,
E di lontan s’udiva urlar la pioggia
Come lupi d’intorno a morta agnella.
Dentro le nubi in paurosa foggia
Guizzavan lampi e mi fean batter gli occhi,
E n’era ’l terren tristo e l’aria roggia.
I’ sentia già scrollarmisi i ginocchi
Ch’i tuoni brontolavano a quel metro
Che torrente vicin che giù trabocchi.
Talora i’ mi sostava e l’aer tetro
Guardava spaurato e poi correa
Sì ch’i panni e le chiome ivano addietro.
E ’l duro vento col petto rompea
Che gocce fredde giù per l’aria nera
Soffiando, sopra ’l volto mi spignea.
E ’l tuon veniami ’ncontra come fera
Rugghiando orribilmente senza posa,
E cresceva la pioggia e la bufera.
E ne la selva era terribil cosa
Il volar foglie e rami e polve e sassi,
E ’l rombar che la lingua dir non osa.
I’ non vedeva u’ fossi ed u’ m’andassi:
Tant’era pien di dotta e di terrore
Che non sapea più star né mover passi.
Era ’l balen sì spesso che ’l bagliore
S’accendea sempre e mai non era spento,
Perch’ al fine i’ ristetti a quell’orrore,
E mi rivolsi indietro; e ’n quel momento
Si stinse ’l lampo e tornò buja l’etra
Ed acquetossi ’l tuono e stette ’l vento.
Taceva ’l tutto, ed i’ era di pietra
E sudava e tremava che la mente
Come ’l rimembra, per l’orror s’arretra;
E ’l palpitar si facea più frequente:
Quando com’astro che per l’aer caggia,
Un lume scese e femmisi presente.
Splendeva in quella tenebria selvaggia
Sì chiaro che vincea vampa di foco,
Qual fornace di notte in muta piaggia,
E splendendo cresceva a poco a poco;
E ’n mezzo vi pareva uman sembiante
Vago sì ch’a ’l ritrar mio stile è roco.
Ed i’ tremava dal capo a le piante,
Ma pur dolcezza mi sentia nel petto
In levar gli occhi a quel che m’era innante.
Bianco vestia lo Spirto benedetto
Raggiante come d’Espero la stella,
E avea ’l crin biondo e giovenil l’aspetto.
Io l’Angel son che tua natura abbella,
Tua guardia, (e su i ginocchi allor cascai)
Cominciò quegli in sua santa favella.
La gran Signora da’ sereni rai
Mandommi ch’ha di te pietade in cielo.
Poco t’è lunge ’l dì che tu morrai.
I’ mi fei bianco in volto e venni gelo,
Attonito rimasi e mi sentia
Ritrarsi ’l core ed arricciarsi ’l pelo.
E muto stetti, e pur volea dir: Sia,
O Signor, quel ch’è fermo in tuo consiglio,
Ma voce de la strozza non uscia.
E sol potei chinar la fronte e ’l ciglio,
E caddi al suol boccone; e quegli allora
Levommi a un tratto e, Fa cor, disse, o figlio.
Non ti dolga di tua poca dimora
In questa piaggia trista, e non ti caglia
Ch’ancor del quarto lustro non se’ fora.
Or ti parrà da quanto aspra battaglia
Voler sia de l’Eterno che for esca,
E come umana gente si travaglia,
E quant’è van quel che le menti adesca,
Ed ammiranda vision vedrai,
Per che gir di qua lunge non t’incresca,
E poi soggiunse: Mira, ed i’ mirai.