Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Giacomo Leopardi

    Appressamento della morte - Canto II

    Parve di foco una vermiglia lista
    A l’orizzonte a galla sopra ’l mare,
    Ch’atava in quell’orror la dubbia vista:

    Come di state dopo ’l nembo pare
    Sul mar la notte luce di baleno
    Che lambe l’acqua e l’ombre fa più rare;

    O come ride striscia di sereno
    Dopo la pioggia sopra la montagna,
    Allor che ’l turbo placasi e vien meno.

    Ed i’ vedeva gente molta e magna
    Passar non lunge innanzi a quel chiarore,
    Che n’era piena tutta la campagna.

    E primier vidi sogghignando Amore
    Svolazzar su la gente di suo regno
    Tanta ch’e’ di quaggiù parea signore.

    Iva misera turba che fu segno
    A suoi strali roventi, e parea tutta
    Atteggiata di doglia e di disdegno.

    Questi son que’ che ne la fera lutta
    Di nostra vita vinse la gran possa
    Di quel desio che pianto e morte frutta.

    Quest’è la turba che nel mondo ingrossa
    Al volger d’ogn’istante, e non vien manco
    Per volar d’ora o spalancar di fossa.

    Fermo i’ guardava, e quel che m’era al fianco
    (E ’l potea ben senza mirarmi in viso)
    Scorse il dubbiar de lo ’ntelletto stanco.

    E disse: Questa è gente che di riso
    Non ebbe un’ora in vostra vita lassa,
    Pur sempre ebbe a cercarlo il pensier fiso.

    E nutrì speme pazza e voglia bassa,
    Locando suo desire in cosa vana,
    Ed amò ben che quando giugne, passa.

    Quel vergognoso là che s’allontana,
    È ’l Prence tristo per lo cui delitto
    Tant’alta venne la virtù Romana.

    Appio è quel là che conto a voi fe’ ’l dritto,
    Pel cui malvagio amore un’altra volta
    Roma fu lieta e suo tiranno afflitto.

    Antonio è quel che lamentar s’ascolta,
    E di suo fato no ma par si lagne
    Sol che sua donna scaltra gli sia tolta.

    Vedi Parisse più vicin che piange
    Ilio in faville e la reggia diserta
    E morti i frati e serve le compagne

    E d’erba e sassi la città coverta:
    E fu cagion di tanta doglia Amore.
    E vedi quel ch’ha sì gran piaga aperta.

    È Turno, e per Lavinia è ’l suo dolore,
    Per chi di morti fe’ sì gran catasta
    Quel ch’al Tebro menò le Teucre prore.

    Vedi Sanson colà che mal contrasta
    A Dalila, e ’l gran Re ch’anco si dole
    Che sapienza contr’Amor non basta.

    Mira quell’alme quivi che van sole
    Con la faccia scarnata e ’l ciglio basso,
    E movon lente e senza far parole.

    Vestali furo, e sotto flebil sasso
    Menolle dura legge e crudo foco
    Di per loro a compor lo corpo lasso.

    Vedi quanti ha malconci ’l tristo gioco,
    E perduti ha ’l furor di voglia insana,
    Che tempo lungo a noverargli è poco.

    Guata quel truce là ch’a la Cristiana
    Fede aprì ’l lato, e che nel suol Britanno
    Di giusto sangue fe’ tanta fontana,

    E per Amor, di Re venne tiranno,
    E mandò giù tant’alme a l’aria bruna,
    Sì ch’ancor dura e sarà eterno ’l danno;

    Per chi d’Anglia tal frotta si rauna
    E mugolando s’addossa e si preme
    Qual sozzo gregge a la ’nfernal laguna.

    D’infinita sciaura Amor fu seme,
    Che non sua sol ma van mill’alme ognora
    Per lui ’ve ’l tristo eternamente freme.

    Oh miser’Anglia che tanta dimora
    Fai ne l’Errore, e non ti basta ’l lume
    De la mental tua lampa a uscirne fora,

    E già tutto conosci forchè ’l Nume,
    E cieco nasce e non vi pensa e more
    Tuo popol gramo vinto dal costume.

    Poi sospirando disse: Or vedi, Amore
    Com’è crudele al mondo, e com’è duro
    Far ch’e’ non giunga a palpeggiarti ’l core.

    Sapienza non è sì saldo muro
    Che nol dirompa forza di suo strale,
    E chi men l’ha provato è men sicuro.

    E se l’alma infermò di tanto male
    E sente l’aspra punta, ov’è la pace?
    E se pace non è, viver che vale?

    Sì come chi per poi soggiunger tace,
    Quel tacque, ed i’ mi vidi un mesto avante
    Giovane e tal che d’ello anco mi spiace.

    Tanto mi vinse suo flebil sembiante
    Che l’Angel di suo nome interrogai,
    Benchè mio dir sonava ancor tremante.

    E quel rispose: Da sua bocca udrai
    Contar suo fallo e di suo fallo i danni.
    E l’approcciammo, ed i’ l’addimandai.

    Ugo fui detto, e caddi in miei verd’anni,
    E me Ferrara tra suoi forti avria,
    Se non fosse ’l mio padre infra’ tiranni,

    Disse e ristette e quasi si pentia,
    Poi seguitò: Mi trasse al punto estremo
    Non so se di mio fato o colpa mia.

    I’ membro l’ora, ed in membrarla fremo,
    Che prima vidi le sembianze ladre
    Per ch’in eterno fra quest’alme gemo.

    Vidi la donna misera che ’l padre
    Erasi aggiunta, ma che ’l tristo letto
    non fe’ bello di prole e non fu madre.

    E cura inquieta mi sentii nel petto
    Che parea dolce, ma la voglia rea
    Vanezza e tedio femmi ogni diletto.

    Io fea contesa e forse ch’i’ vincea,
    Ma un dì fui sol con quella in muto loco,
    E bramava ir lontano e non volea,

    E palpitava, e ’l volto era di foco,
    E al fine un punto fu che ’l cor non resse,
    Tanto ch’i’ dissi: t’amo, e ’l dir fu roco.

    Vergogna allor sul ciglio mi s’impresse,
    E la donna arrossar vidi e gir via
    Senza far motto, come lo sapesse.

    Poi nulla i’ fei, ma tanto più che pria
    Divampò ’l foco al soffio di speranza,
    Ch’arder le vene e i polsi i’ mi sentia.

    Allor che tratto di mia queta stanza
    Fui d’armato drappello in su la sera
    Con ferità ch’ogni mio dire avanza,

    E dentro muta torre in prigion nera
    Chiuso che ’ndarno il genitor chiamava,
    Immobil tra catene come fera.

    Stupido e sol rimasi in quella cava
    Ricercando mia colpa, ed oh dolore
    In ricordarmi di mia voglia prava!

    Era giunta la notte a le tard’ore
    Che tace e per le vie gente non passa,
    Quando fioco romor sentii di fore.

    (O Italia mia dolente, o patria lassa
    Che quant’alta a’ bei giorni tanto cruda
    Fosti a’ più neri, e tanto ora se’ bassa,

    Ben sei di luce muta e d’onor nuda,
    Che tigre fosti quando era tua possa,
    E or se’ pietosa ch’uom per te non suda!)

    Orrendo un gel mi sdrucciolò per l’ossa,
    E mancar sentii ’l fiato e ’l cor serrarse
    Quand’a l’uscio udii dar la prima scossa.

    Sonaro i ferri al suo dischiavacciarse,
    E seguì di persona un calpestio,
    E di lontana fiamma un chiaror parse.

    Come chi vide ’l lampo che fuggio,
    Aspetta lo fragore e sta sospeso,
    Tal senza batter ciglio mi stett’io.

    E ’l genitore entrar che tenea steso
    Il destro braccio e ne la man mirai
    Un ferro e ’n la sinistra un torchio acceso.

    Morta è, disse, tua druda e tu morrai.
    Su le ginocchia i’ caddi in quel momento:
    Piagneva e volea dir: mio padre, errai.

    Ma la punta a mia gola e’ ficcò drento,
    E caddi con la bocca in su rivolta,
    E ’l vital foco tutto non fu spento.

    Parvemi che l’acciaro un’altra volta
    Alzasse, e di vibrarlo stesse in forse;
    Poscia com’uom che di lontano ascolta,

    L’udii cercar de l’uscio: indi ritorse
    Il passo, e ’n cor piantommi e lasciò ’l brando,
    Perchè l’ultimo ghiaccio là mi corse.

    E svolazzò lo spirto sospirando.




    POTRESTI ANCHE ESSERE INTERESSATO A


    © 1991-2024 The Titi Tudorancea Bulletin | Titi Tudorancea® is a Registered Trademark | Condizioni d'uso
    Contact