Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Giambattista Bazzoni

    Magaruffo Venturiero o La corte del duca Filippo Maria Visconti

    Portano a’ lor cappucci le visiere
    E mantelline a la cavalleresca
    E capezzali, e strette alle ventriere
    Coi petti vaghi alla guisa inghilesca
    Qualunque donna è più gaja e più fresca
    Più tosto il fa per esser fra le belle
    .
    PECOR. Giorn. XVIII


    Se come vennero personificate altre città e nazioni nascesse in capo ad un poeta epico o lirico o a chi si voglia, di personificare Milano onde far narrare da lui stesso le proprie vicende dal suo nascere sino ai nostri dì, egli è certo che s’aprirebbe un campo di cui non vi sarebbe il più vasto per esaurire tutti gli stili, tutte le immagini, le figure, i giuochi d’affetto, insomma tutto quanto è possibile ottenere coll’arte del dire. Esso infatti avrebbe nel suo amplissimo monologo a descrivere i Romani in tutte le fasi della loro grandezza; farebbe passare in mostra i Galli e i Germani quì discesi, prima seminudi colle barbe arruffate, armati di clavi e di scuri; poi ricoperti di fitte maglie e pesanti armature colle lancie e le mazze; indi calati di nuovo con penne agli elmi, loriche dorate, conducendo pesanti bombarde; ritornati in seguito con cappelli a tre punte e larghi stivali, portando moschetti e colubrine; e discesi finalmente colle assise succinte, la bajonetta al fucile, le artiglierie volanti. Avrebbe eziandio a ragionare a lungo della baldanza spagnuola, e far cenno persino delle aquile russe e delle lancie cosacche.

    Il proposto soggetto dovrebbe poi essere specialmente fecondo di quelle pagine che la moderna scuola oltremontana chiama palpitanti, poichè racchiudono descritte con tutta evidenza le angoscie della disperazione, gli strazj della tortura, del fuoco e dei patiboli. Poche città per vero dire ebbero nei fasti de’ tormenti a vantarne del genere della quaresima di Galeazzo o dei forni di Monza, senza parlare delle gabbie di ferro, delle tenaglie, degli aculei, delle ruote, ch’erano leggiadrìe sociali, un giorno comuni a tutti i popoli europei. - E chi potrebbe in tale argomento dimenticare i mastini del duca Giovan Maria, che venivano unicamente nutriti onde squarciassero gli uomini, e coi quali inseguiva di notte i cittadini nelle contrade a guisa di animali feroci? - Il solo nome di lui faceva inorridire, eppure (ch’il crederebbe!) egli contava appena ventiquattr’anni quando cadde esanime sotto il ferro de’ congiurati.

    Non erano trascorsi che due giorni da che aveva resa l’anima quel giovine sanguinario, secondo fra i Visconti nella linea Ducale1, allorchè l’eroe di questa narrazione, Macaruffo, veniva di buon mattino alla volta di Milano con un drappello de’ suoi commilitoni, tutti soldati venturieri, appartenenti alle bande di Facino Cane, il più celebre e possente condottiero di ventura che fosse allora in Italia.

    Il loro numero era di diciotto o venti; marciavano a piedi, disgiunti e senz’ordine. Portavano gli elmi, le corazze, i cosciali, ma scorgevasi che non curavano gran fatto il pulimento e la lucentezza di quegli arnesi, poichè oltre d’essere pieni d’intacchi e d’ammaccature apparivano tutti neri e irruginiti. Tenevano le spade a bandoliera e recavano neglettamente abbandonate sulle spalle all’indietro chi le alabarde e chi le partigiane.

    Macaruffo fra quegli uomini d’armi poteva chiamarsi primus inter pares, vale a dire, che sebbene non avesse un grado speciale, poichè quella milizia non ammetteva distinzioni subalterne, pure a causa della predilezione del Conte Facino e della confidenza che gli era accordata, godeva verso gli altri di una supremazìa che sapeva esercitare a tempo debito, e, vuolsi dirlo, con profitto di tutti. Le sue forme però erano poco vantaggiose; una rilevata prominenza che aveva sul dosso lo faceva apparire tozzo della persona; il suo volto abbrunito dal sole mostrava lineamenti irregolari e rozzi sebbene i suoi occhi fossero sommamente vivi e penetranti. Era dotato di grande scaltrezza; instancabile nella fatica, d’un coraggio senza limiti, e consacrato con tutta l’anima agli interessi del suo Capo, di cui la moglie, la contessa Beatrice di Tenda, era stata sua antica signora.

    Nato egli nelle alpi marittime entro il castello del Lascari conti di Tenda, era cresciuto insieme alla Contessa, e fanciullo soleva prestarle ufficio di palafreniero, di guida, di porta-astore, quand’ella seguiva la caccia nei monti nativi, solendo ella trasceglierlo fra gli altri valletti, quantunque deforme, siccome il più pronto in ubbidire e il più destro di tutti. Divenuta sposa di Facino Cane, Beatrice ottenne dal padre che Macaruffo facesse parte del suo seguito; onde questi le stette lungo tempo ancora d’appresso, e palesava per lei in ogni incontro, misto alle memorie di patria e di famiglia, un sentimento di riconoscenza indistruttibile. Da ciò più grande sembrava rendersi il suo attaccamento verso lo stesso condottiero Facino, pel quale sentiva eziandìo sentiva quell’enfatica venerazione che sempre ispira nel soldato avido di gloria un capitano esperto, ardimentoso, che lo conduce spesso alla vittoria.

    Camminava quella mattina Macaruffo di buon passo innanzi agli altri, e sembrava assorto in pensieri di tale natura che tutta gli occupassero la mente. La novella dell’uccisione del Duca era pervenuta al suo orecchio nella rocca di Canturio in Brianza, ove Facino lo aveva spedito coi compagni tre mesi addietro a rinforzo dei signori di quel paese, di fazione ghibellina, minacciati dai guelfi d’Incino, e quasi contemporaneamente aveva ricevuto avviso da parte di Facino stesso, il quale trovavasi ammalato in Pavia, d’abbandonare quella rocca e recarsi nel castello di Milano, lo che appunto eseguiva.

    Dopo avere alquanto meditato tra sè allentò il passo, e lasciatosi raggiungere dal soldato che gli veniva subito dietro, gli disse a mezza voce:

    "Che ne pensi, Uguccio, di queste novita?".

    "Io per me ci ho un gusto pazzo (rispose l’altro) ch’abbiano fatta la festa a quel ragazzaccio frenetico di Giovan Maria".

    "Sì: meritava veramente di finir male i suoi giorni. Ha fatto ammazzare tanti bravi signori e cavalieri che a dirlo è incredibile".

    "Per lui far morire un cristiano se lo aveva come una bagatella. E’ arrivato persino a dare il tossico alla stessa sua madre in Monza".

    "Lo so, e poi uccise il Pusterla come se ne fosse stato il reo".

    "Altro che uccidere! lo fece mangiare dai cani insieme coi suoi figli. Ma per provare s’era un’anima scellerata, senti che brutto giuoco si prese un giorno di me. Trovandomi io colle squadre a Milano, il nostro conte Facino mi comandò lo seguissi al palazzo negli appartamenti della Duchessa, ch’egli si recava a visitare. Entrati colà m’appostò per guardia in un camerone a cui mettevano capo due scale. Io passeggiava quivi sbadatamente con questa partigiana così in spalla, gettando un’occhiata di quando in quando entro i vetri della finestra d’una stanza ove stavano alcune damigelle che attendevano a varii lavori. Ad un tratto sento un abbajamento infernale e vedo comparire da una scala e corrermi addosso sei o sette mastini che sembravano lupi affamati. Balzarono per addentarmi al collo, alle braccia, alle gambe e gran mercè ch’aveva l’armatura intiera colla buffa al viso e le manopole, altrimenti non avanzava di me neppure un osso; intanto ch’io mi dibatteva a tutte forze contro quelle bestie inferocite, indovina? ... il Duca stava ad uno spiatojo e mi guardava ridendo smascellatamente insieme a quel satanasso di Squarcia Giramo. Liberatomi appena dai mastini tornò il nostro Conte, e vedendomi ansante e rabbuffato mi domandò che fosse avvenuto; io glielo narrai, ed egli portossi tosto tosto dal Duca e lo minacciò di unirsi ai guelfi e di assediarlo nel suo castello, se non rendeva tostamente ragione dell’ingiuria a me fatta che prendeva come fatta a se stesso, ed ebbe termine la faccenda con dieci fiorini d’oro dati a me, e cento colpi di curlo al canattiere che non aveva una colpa al mondo".

    "Se non fosse stato il nostro Conte avrebbero invece appiccato te per avere malconci i cani del Duca, e sarebbe stato dato un premio a quell’altro. Questi principi della razza del biscione sono tutti d’una pasta velenosa, ed io li odio a morte, e ne vorrei vedere distrutta la stirpe. Quando spirò Giovan Galeazzo primo Duca, che fu padre di questo Giovan Maria, le nostre bande trovavansi a Parma e mi ricordo che il nostro Conte ragionando colla signora Beatrice manifestò certi pensieri sopra Milano, che mi davano la più gran consolazione del mondo, e sì che a quel tempo il Conte non era padrone di Pavia, Alessandria, Novara e tante altre città che possiede adesso e da cui può trarre molto maggior numero d’uomini e di danari".

    "Per San Matteo! (esclamò Uguccio) quello era un colpo degno di lui: oh! perchè non l’ha tentato?".

    "Nacquero in quell’incontro altri trambusti gravissimi e dovette recarsi altrove. Il bel momento (proseguì Macaruffo più piano con un sorriso significante e aggrottando le ciglia) il bel momento, caro Uguccio, sarebbe questo! Chi ha forze bastevoli per poterglisi opporre? i ghibellini sono per lui; Ottobon Terzo, il Casati e gli altri guelfi se li mangia come la balena i pesciolini. Filippo Maria ch’è fratello di quegli che hanno scannato e che dovrebbe diventar Duca, se lo tiene in Pavia nelle sue unghie. Tutto presentemente andrebbe a meraviglia, ma farebbe d’uopo muoversi alla spedita onde non lasciar campo ai partigiani di Filippo d’unirsi e farsi ospiti".

    "Ti giuro che per un’impresa di questa sorta non vi sarebbe uno solo de’ nostri uomini che non ci metterebbe allegramente la pelle. Diventare padroni di Milano! d’una cittadina sì splendida, ricca, così piena di belle donne!".

    "E salutare per duca il nostro Conte, e per duchessa la signora Beatrice. Ella sì saprebbe bene occupare quel posto come si deve. Io darei il sangue per vederle in capo la corona ducale. Mi punge però il pensiero che pare che il demonio vi ci si caccia per entro, poichè il messo venuto jeri sera mi disse che appunto in questi giorni il nostro Conte assalito dalla sua doglia al fianco, giace tormentato senza potersi levare".

    "E’la doglia che lo prende di consueto. Ma sai che suole presto sparire, e giuocherei che a quest’ora è al tutto risanato e cammina e cavalca come potremmo far noi".

    "Così fosse, che non frapporrebbe indugio a porsi a capo alle squadre, per venire a dar l’ultimo scacco alla malnata vipera divoratrice".

    Facendo tali simili discorsi erano a vista di Milano, ed appressatisi alla Porta Comasina trovarono chiuso il ponte e calata la saracinesca, onde dovettero pensare assai a farsi aprire ed intromettere coi compagni nella città.

    Nelle contrade era un subuglio, una confusione, un movimento di popolo straordinario. Pressochè tutti, i signori, gli artieri, la plebe mostravansi muniti d’armi e ve n’aveva d’ogni specie; parte di essi n’andavano in compagnie ordinate; parte movevano in turba per le vie. Gli uni passavano gridando - Viva Estore; vivano i figli di Bernabò; viva Baggi e il Pusterla che ci hanno vendicati2 -. Altri seguivano imprecando invece morte a questi ed acclamando - Filippo Maria legittimo Signore - Alcuni volevano s’andasse ad assalire il castello per ammazzare il Marliano che lo teneva per Filippo, altri all’incontro facendo sventolare le bandiere cercavano di formare grossa massa onde muovere alla volta di Pavia a prendere il nuovo Duca e quì condurlo in trionfo. Ve n’avevano eziandio di quelli che non andavano esclamando che - Viva Milano - e volevano si proclamasse la repubblica come nei primi tempi, ma questi essendo in pochissimo numero non esercitavano sulla moltitudine alcuna influenza. Per le piazze e pei crocicchii, sui gradini delle colonne o sovra carri e trabacche eranvi frati, magistrati, cavalieri che arringavano a tutta voce il popolo; ciascuno però oppostamente ed a norma soltanto dell’interesse di quei capi il cui dominio poteva essere per loro una fonte di migliori speranze. Or qua ol là udivansi urli furiosi ed acutissime grida, e le campane di questa o di quella parrocchia suonare a stormo, e ciò perchè scontrandosi le contrarie fazioni nascevano risse sanguinose, e si moltiplicavano gli ammazzamenti. Insomma tutto concorreva a presentare il quadro d’una città senza alcun regime, abbandonata al furore dei partiti e nella quale l’ambizione, la forza, l’astuzia gareggiano con ogni mezzo onde afferrare il potere.

    Il nostro venturiere Macaruffo sebbene durasse non poca fatica ad aprirsi la via col suo drappello frammezzo a tanto tumulto, pure godeva internamente alla vista di quel disordine ch’ei sperava propizio al progetto che aveva supposto volersi eseguire dal suo signore. Due o tre volte fu serrato d’appresso dalla plebe che lo inseguiva gridando - Dàlli al gobbo co’ suoi sgherri; ammazza, ammazza - me le punte delle partigiane abbassate a tempo, le fisionomie intrepide e risolute, il non avere assise che indicassero a quale delle parti appartenevano li sottrassero dal periglio.

    Pervenuti al castello di Porta Giobia, n’andarono lungo la fossa sino al Portello detto del Pozzo; quivi Macaruffo diede alla scolta che stava sul battifolle la parola d’ordine; questa comunicò l’avviso al Castellano e fu indi a poco calata la trave a que’ soldati ricevuti dentro.

    Il dì seguente Macaruffo avido ed impaziente di conoscere a qual termine inclinassero le cose andò con arte interrogando or questo or quell’altro de’ capitani di masnada ch’erano nel castello, ma tutti ignoravano al pari di lui la somma delle vicende, nè potevano che abbandonarsi a fantastiche congetture. Vedendo riuscire vana l’opera sua, salì sul vallo, e quivi appoggiato neghitosamente alla torre fisava sulle campagne che gli si stendevano alla vista, uno sguardo acuto per iscoprire se mai qualche vessillo spuntasse sulla via dalla parte di mezzodì, o si vedessero luccicare punte di lancie od elmi, ch’ei teneva per fermo che il suo conte Facino non dovesse star guari a presentarsi sotto le mura di Milano e non dubitava, a causa di quanto aveva veduto il giorno passato, che compresse le fazioni, si sarebbe prontamente impossessato della città.

    Ogni qual volta questo pensiero gli si affacciava alla mente, i bruni e ruvidi tratti del suo viso esprimevano una soddisfazione, un contento singolarissimo. Ed in ciò, all’opposto di quello che naturalmente arguire si dovea, l’orgoglio e la brama delle prede o degli onori avevano lievissima o nulla parte. Un sentimento indiviso, senza speranze, celato all’aria stessa, pur sempre vivo e profondo quanto essere lo può in anima umana, formava da lunghi anni la cura assidua e l’unico movente di quel Venturiero, il cui sformato aspetto, i costumi e la vita sprezzata e soldatesca facevano rassembrare il più duro ed insensibile degli uomini.

    Mentre pure guardando dall’elevato baluardo nei sottoposti piani lasciava errare lo spirito fra le sue consuete idee, che casi recenti vestivano di più lusinghieri colori, ode venire dalla parte della città rumore di grida festose e di plausi vivissimi. Discende frettoloso dal vallo, e scontra nel cortile varii cittadini pervenuti a fatica a ricoverarsi nel castello, i quali circondati da una folla d’uomini d’armi narravano, che all’alba di quello stesso giorno era venuto a Milano da Monza Estore Visconti con molti armati ed aveva sconfitto i ghibellini che parteggiavano per Filippo Maria; e che sendo già gli animi disposti in favore di Estore dalle calorose ed incessanti prediche di frate Bartolomeo Caccia, presso i popolari avuto in estimazione di santo, venne il medesimo accolto e proclamato signore di Milano insieme al nipote Giovan Carlo Visconti nato dal sangue di Bernabò.

    A tale notizia Macaruffo indispettì gravemente, ma pure non depose la lusinga che da un istante all’altro potessero arrivare le masnade del conte Facino a rovesciare quella nuova signorìa, priva d’ogni valido appoggio ed alla quale rimaneva a compiere la più ardua impresa ch’era quella d’impadronirsi del castello.

    Assiso la sera con Uguccio sopra un pancone presso la porta dello stemma (la maggiore della fortezza, dalla larga volta della quale pendeva accesa un’affumicata lucerna), andava ragionando sui fatti stati riportati là dentro, ed esponeva con fervore gli argomenti che s’aveva per non dubitare che il loro Condottiero avrebbe mosso il campo ed ottenuta la vittoria. Interruppe quell’animato dialogo la voce della sentinella che s’udì dallo spalto annunziare che s’appressava al castello un soldato a cavallo. Tosto l’araldo s’affaccia alla feritoja del ponte, e vedendo giungere vicino il cavaliere, gli grida chi sia, e cosa voglia. "Sono messaggiero e reco dispacci da Pavia" fu la risposta che venne data. Il capitano d’armi fece disporre gli arcieri di guardia in ordinanza, poi ordinò s’abbassasse il picciolo ponte levatojo laterale, e il messaggiero entrò.

    Appena ebb’egli posto piede a terra, e consegnato all’araldo un involto suggellato di carte dirette al Castellano, il nostro Venturiero e il compagno gli balzarono con tutta cupidigia d’intorno, giacchè in lui riconobbero un commilitone, un uomo delle loro bande a cavallo.

    "E così vengono i nostri?" - gli domandarono sommessamente ad una voce

    "Chi diavolo volete che sappia se si va o si viene; per me credo che sia tutto finito."

    "Il Conte non vorrebbe forse..."

    "Oh! Con lui a quest’ora già si sarebbero fatte gran cose".

    "Ma dunque perchè non si muove?"

    "Perchè non si muove? ... Oh bella! ... domandate a un morto perchè si sta fermo".

    "Che? ... dici tu il vero? ..." (chiesero pure entrambi colpiti come da un fulmine).

    "E voi non lo sapete? ... Pur troppo è la verità! ... il nostro povero Conte chiuse gli occhi per sempre l’altro jeri a sera".

    "Io non posso persuadermene" (esclamò Uguccio).

    "L’ho veduto io nel suo palazzo in Pavia disteso sopra un catafalco col padiglione di broccato oscuro ricoperto delle sue armi più ricche. Tutti gli uomini recavansi a rimirarlo, e vi dico ch’era una compassione a pensare che un battagliero come il nostro Conte dovesse essere serrato giù a marcire fra quattro pietre. Per noi la sua perdita è la più grande delle disgrazie. Egli era la perla de’ condottieri di ventura; il soldato con esso lui doveva bensì menare delle braccia, ma poteva poi essere certo del fatto suo, e le correggie si foderavano spesso di buoni zecchini. I principi, le città andavano a gara onde trarlo dalla loro, e per averlo bisognava che mettessero lì pile d’oro e d’argento da riempire la staja".

    "Quando però egli s’era collocato agli stipendi d’una parte ci si adoperava davvero (disse Uguccio) , e chi l’assoldava poteva incominciare a cantar vittoria; nè egli ritiravasi colle schiere prima che si ponesse capo alla guerra, come fecero il Branda e molt’altri, i quali dopo numerate le caparre passarono co’ loro uomini dal lato del nemico perchè offriva più grosse paghe".

    "No, il conte Facino non commise mai di queste ribalderie. A Novi, Ziaratone che non fece per toglierlo al marchese Teodoro? Soltanto per determinarlo a levarsi dall’assedio gli promise in danaro il carico di quattro muli, e davagli il figlio in ostaggio. Ma tutto fu inutile, anzi ti ricorderai che Ziaratone rimase ucciso nell’assalto da Facino stesso".

    "E fu adunque quella maledetta doglia nel fianco la cagione della morte del nostro Conte?".

    "Ohibò: i singori della veste negra, i dottori, che in Pavia son più numerosi delle zanzare, sostengono che è morto per il colpo nella testa che prese due anni sono qua in Milano, quando a motivo della sommossa del popolo, spingendo a corsa, urtò nell’arco della porta interna del palagio del Duca, e perdette molto sangue. Vogliono che quella botta macinasse dentro dentro, sin che gli diede l’ultima stretta".

    "Qual malavventura! ... Ora che non abbiamo più il nostro capo che faremo noi?" (proferì Uguccio con voce addolorata) ... Staremo quì con questi Visconti a rischio qualche giorno da farci mangiare dai cani, e senza sapere chi di loro comanda? ... Si getteremo alla campagna coi banditi, o andremo ad offrirci a qualch’altro capitano? Vi sarebbero veramente lo Sforza, Braccio, e...".

    "Che osi tu dire? Saresti mai tu un traditore? (l’interruppe esclamando Macaruffo ch’era stato silenzioso sino a quel momento, immerso nè proprii pensieri). Perchè è morto Facino dovremo noi abbandonare vigliaccamente la sua casa, e lasciare che sfumino in un lampo tutte le conquiste che abbiamo fatte seco lui, spendendo tanto sangue e fatica? Non rimane forse Beatrice di Tenda, la nostra Contessa da noi sempre obbedita come Signora? Vorremo noi permettere che la vedova d’un Capo sì glorioso sia scacciata da’ suoi dominii, e venga oppressa ed avvilita come una femmina da trivio?".

    "A quanto pretendi dovremmo noi dunque rimanere sotto il comando d’una donna?".

    "Non vi sono con lei ancora molti capitani ed i migliori d’Italia? Non v’è Castellino? non v’è Carmagnola? questo solo ne vale dieci dei più famosi che vivono al presente".

    "Io credo bene (disse il soldato messaggiero) che la contessa Beatrice abbia prescelto il Carmagnola per comandare le nostre bande. Da che è morto Facino tutti gli ordini vengono dati da lui. Egli fu che ingiunse all’armata ch’era intorno a Bergamo di levare il campo e condursi a Pavia, ed io mi sono quì recato perchè mi vi spedì egli stesso".

    "La signora Beatrice non poteva fare una scelta più lodevole e giudiziosa (disse Macaruffo con satisfazione). Francesco Carmagnola era la mano destra del Conte, ei lo considerava come un altro sè stesso, quindi nessuno rifiuterà di obbedirgli".

    "Quand’è che tu fai ritorno a Pavia?".

    "Ho l’ordine di non retrocedere se non quando mi vien consegnata la risposta dal signor Castellano".

    "Ebbene ora va e bada che il tuo cavallo sia governato a dovere; ma ti prego di non partire di qua senza parlare nuovamente con me". Ciò detto si separarono.

    Macaruffo trovò modo, alcuni giorni dopo, d’abbandonare il castello seguendo il messaggiero, e uscita sull’alba per istrade appartate da Milano, arrivò la sera senz’altri inciampi a Pavia.

    Quella città era ingombra di soldati che appartenevano alle squadre di Facino, ed ivi giungevano da ogni parte, siccome aveva ordinato il Carmagnola, il quale divenuto supremo comandante calcolò tosto essere opportuno di adunare tutte le forze in un punto solo, onde più facilmente dominarle, e dirigerle là dove lo stato degli eventi l’avesse richiesto. Il nostro Venturiero recossi tosto al palazzo dell’estinto Conte. Stanziavano continuamente colà numerose guardie, poichè continuavansi a rendere i principeschi onori alla vedova Contessa, divenuta per la morte del marito sovrana signora di Pavia e di gran numero d’altre città appartenenti prima al Ducato.

    Macaruffo da lunga mano conosciuto da tutti quegli uomini d’armi, scambiò, passando in mezzo a loro, parole di saluto ed entrò liberamente nelle camere inferiori del palazzo. Al vederlo i servi gli furono intorno festeggiandolo, e Matteo, vecchio scalco, uno de’ più antichi suoi compagni, che scendeva in quell’atto dagli appartamenti superiori, venutogli lentamente incontro dimenando il capo, gli strinse la mano, poi s’asciugò gli occhi e disse:

    "Vedi qual cangiamento, Macaruffo? Siamo tutti vestiti a bruno; non regna che lutto nella casa di Facino, quello che ne formava la gloria è andato sotto terra".

    "Pur troppo! (rispose Macaruffo) lo seppi nel castello di Milano con indicibile cordoglio e m’affrettai a qui venire per conoscere quali provvedimenti la signora Beatrice ... "

    "Oggi avrai fatto lungo cammino (l’interruppe lo Scalco) e abbisognerai di refiziamento e di riposo?".
    "No per ora veramente, e vorrei prima udire appunto da te..."

    "Voi altri sfaccendati (gli troncò di nuovo la parola Matteo rivolgendosi ai servi) state quì a guardarlo come babbuini e non gli avrete nemmeno esibito da cena? Sapete pure che questa è la prima offerta che il Conte voleva sempre si facesse a chi arrivava: possibile che s’abbia già da perdere ogni buona usanza? Presto andate a preparare la tavola nel salotto vicino alla mia camera, portatevi l’occorrente poi lasciateci colà tranquilli".

    Invitò Macaruffo a seguirlo, precedendolo col lume su per lo scalone; passò varie loggie e da un andito riuscì in una stanza ove stavano appesi alcuni quadri. Quivi accesa una lucerna sopra un doppiero di ferro gli accennò di sedere e passò in una contigua cameretta. Allorchè fu disposta la mensa Matteo ritornò portando una damigiana che andava spolverando con un pannolino; la depose sulla tavola, quindi chiuse l’uscio a chiave; venne poi a sedersi in faccia a Macaruffo, e nello sturare la damigiana disse:

    "Non ho amato d’entrare in alcun ragionamento là abbasso alla presenza di quelle gazze scilinguate, che ripetono tutto ciò che ascoltano e potrebbero farmi cadere addosso qualche mala tempesta. Ma sappi che ho desiderato ansiosamente il tuo ritorno per comunicarti delle novelle che ti faranno stupire".

    "Ben temeva che la morte del Conte sarebbe stata cagione di molte novità (profferì in tuono dolente il Venturiero). Al certo v’ha discordia tra i capitani, i soldati disertano, od i vassalli minacciano d’insorgere contro la Contessa...?".

    "Nulla di questo (rispose lo Scalco versando il vino in due bicchieri e riempiendo di vivande il piatto di Macaruffo), anzi per grazia del cielo tutte le bande armate e i loro capi rinnovarono il giuramento di fedeltà alla nostra padrona, e questa città ha già protestato della sua devozione, lo che pure faranno prestamente le altre. Alla testa de’ soldati v’è quel sì eccellente ed avveduto..."

    "Il Carmagnola, lo so (disse Macaruffo con impazienza). E dunque quali sono queste novelle che vuoi narrarmi?".

    "Le teneva sepolte quì (ed indicò il gorguzzole), e sono sì importanti che non oserei dirle con alcuno. a tu sei di quelli della vecchia stampa, tu ami sinceramente la casa, con te posso parlare".

    Si guardò d’intorno quasi volesse meglio accertarsi che nessun altro lo stesse ad ascoltare; Macaruffo gli affisò in volto uno sguardo acuto, indagatore, ed ei proseguì con voce bassa in aria misteriosa.

    "Si sta per combinare un matrimonio! (e comprimendo un labbro coll’altro rimase a ciglia inarcate).

    "Un matrimonio ... e con chi?"

    "Sai che nella Rocca quì di Pavia v’è quel giovine che il Conte teneva, non veramente come prigioniero, ma poco meno, perchè lo faceva custodire da Antonio Bogero il cremonese, onde non avesse colle sue pretensioni alla signoria della città a far nascere tumulti".

    "Sì: e Filippo Maria fratello del Duca che hanno ammazzato a Milano. Ebbene?"

    "Si tratta (pronunciò Matteo più pianamente, data di nuovo un’occhiata all’uscio) si tratta di farlo sposare alla contessa Beatrice".

    "Sarebbe ciò possibile?" (esclamò Macaruffo cui salì una fiamma al volto).

    "Non v’ha ombra di dubbio. Facino era appena sepolto quando ne venne fatta la proposta alla Contessa".

    "Ed ella come l’accolse?" (disse con freddezza e impallidendo il Venturiero).

    "Sulle prime esitò, ma poi vi s’inframmise un tale che la trasse ben presto al suo partito".

    "Chi è costui?"

    "Oh! l’uno de’ grandi della cappa pavonazza e la croce di gemme: un Arcivescovo".

    "Quel di Milano?"

    "Sì, quello".

    "E’ un fautore acerrimo de’ ghibellini. Moverà cielo e terra per far trionfare il figlio di Giovan Galeazzo. Chi sa con quali armi assalì il cuore della Contessa, e quali mezzi adoperò per guadagnarla!".

    "Domilda che le sta sempre al fianco, mi accertò che non gli fu d’uopo usare grande fatica a farla persuasa; s’arrese ai primi assalti. Quest’è una prova dell’amore che portava al suo sposo!".

    "Ma Filippo Maria conta poco più di venti anni ed ella ne oltrepassa quaranta ..."

    "Ecco forse la ragione che l’ha più fortemente e più presto convinta (s’espresse lo Scalco con sorriso sdegnoso e maligno) D’altronde quel giovine è di sangue ducale, ha faccia bianca, pelle fina, begli occhi, tutto ciò insomma che vale ad appagare i capricci d’una donna".

    "Non credo che la signora Beatrice possa essere stata sedotta da così semplici e leggiere apparenze, che son frascherie da pulcella (rispose con risentimento Macaruffo). Ella ha pensato ognora nobilmente e fu degna compagna dell’uomo potente e famoso che venne a sceglierla in moglie nel castello paterno".

    "Sia come tu vuoi, ma, diciamolo in estrema confidenza, essa mostra soverchia inclinazione pei giovinetti ch’hanno visi leccati e capigliature che sembrano di lino".

    "Matteo tu eccedi(esclamò fremendo il Venturiero e vibrandogli un’occhiata minacciosa). Pensa che le tue parole offendono l’onestà della nostra padrona, e se non fosse l’amore che portavi al Conte ch’ora a torto ti slega la lingua ..."

    "Se parlo è perchè le veggo le cose (replicò lo Scalco più piano ma in tuono d’asseveranza). Non ha ella sempre tra i piedi quel Michele Orombello qui mandato dai Conti di Ventimiglia onde divenisse valente cavaliero alla scuola di Facino? invece di lasciare che si eserciti nel maneggio delle armi e che il poltroncello studi e s’addestri col cavallo e la lancia, se lo tiene tutto il giorno vicino a strimpellare il liuto e canticchiare alla provenzale".

    "Sono i suoni e le canzoni del suo paese nativo e vuoi fargliene accusa se dopo tanto tempo ama sentirle ripetere da un fanciullo? chi sarà sì temerario d’immaginarsi che in ciò vi sia colpa? Ella non ebbe il diletto di dirsi madre e quindi predilige l’età di chi le potrebbe essere figlio".

    "Anche Filippo Maria, quanto agli anni, potrebbe essere suo figlio, eppure se lo prende per isposo, e non è quasi freddo ancora il letto di Facino".

    "Se ciò avvenisse mai, egli è, mi credi, per la forza degli intrighi e della violenza esercitata sul di lei animo dal Ghibellino venuto appositamente da Milano. - E dopo essere rimasto alquanto taciturno riprese: - "L’astuzia sua è profonda; ben m’avveggo ch’egli pensò che collo stringere le nozze tra Filippo Maria e la contessa Beatrice, i sudditi e le bande armate ch’ella possiede diventeranno del marito, e questi potrà con tali mezzi ricuperare lo Stato e farsi proclamare nuovo Duca, mentre da solo, misero e derelitto come egli è, non sarebbe mai divenuto in grado di farlo".

    "Che la nostra padrona fosse vittima d’una trama sì iniqua? ... Ma, or che ci penso, ella a fine del conto diverrebbe duchessa di Milano, e caspita è tal leccarderìa da stuzzicare il palato d’ogni cristiano".

    "Per diventare signora di quella città ella non abbisogna di farsi moglie o piuttosto schiava d’un suo proprio prigioniero!... (e piegandosi verso di lui, proseguì con tuono di voce più basso ed accentato). Tenga il Visconte rinchiuso nella torre della Rocca dov’è stato sin ora, faccia intendere le sue volontà al Carmagnola, e lasci poi operare da esso lui e da noi soldati. Buone parole a tutti, una tagliata alle gabelle, dar bando ai guelfi sanguisughe dei poveri cittadini, e noi saremmo accolti a larghe braccia dal popolo milanese".

    "Oh se fosse al mondo il signor Facino!..."

    "A quest’ora era cosa fatta. Ma non disperiamo (disse Macaruffo animandosi in volto), il matrimonio non è finora celebrato, nè forse concluso. La volpe ghibellina può ancora cogliere in falso, vi possono nascere di mezzo ostacoli impreveduti... Ma che rumore è quello che s’ode abbasso?".

    "Sarà qualche visita" (disse Matteo votando l’ultimo bicchiero).

    Alzatisi entrambi osservarono da una finestra nel cortile, e videro accorrere i servi coi lumi intorno ad una lettica che entrava dalla porta con seguito di stambecchieri armati. Apertasi la lettica ne uscì un personaggio d’alta levatura, in età avanzata, coperto da grande cappa di colore violato come la sua ampia veste, il quale avviandosi verso la scala maggiore compartì colla mano benedizioni ai servi stessi ed alle sentinelle, ch’eransi alineate sul suo passaggio.

    "Ecco è adesso: è l’Arcivescovo che recasi dalla Contessa Beatrice (disse Matteo ritraendosi dalla finestra). Fa d’uopo ch’io discenda, poichè ei non viene mai qui senza che s’abbiano a mescolare anfore e tazze. Andiamocene che al suo partire potrai collocarti in modo da vederlo vicino".

    Macaruffo dopo avere mormorate tra sè alcune parole, rispose in tuono di noncuranza:"Ciò poco m’importa; anzi se non t’è discaro additami la camera che me ne andrò a dormire".

    "La camera per te è la consueta sotto la galleria. Prendi il lume e implora da Dio che abbiano buon termine queste faccende".

    "Se tu sapesti i miei voti ..." - pronunciò il Venturiero con fervida espressione, ma troncati bruscamente i detti, gli diè un addio, ed uscito da quella stanza s’avviò pel lungo androne al luogo di riposo.

    Era Arcivescovo di Milano Bartolomeo Della Capra, personaggio dotato di non comune ingegno, il quale accoppiava modi arditi, imperiosi ad una somma solerzia. Sendo partigiano caloroso dei ghibelliniaveva tosto considerato che pel trionfo della sua fazione era necessario rimanesse il sovrano potere nella casa di Giovan Galeazzo, poichè quella famiglia s’era sempre dimostra implacabile nemica de’ guelfi, i quali venivano all’incontro favoreggiati dall’opposto partito. Appena quindi restò vacuo il ducal seggio, si dichiarò per Filippo Maria, la cui sovranità era eziandio per nascita dovuta, e si mise a tutt’uomo nell’impresa. Non lo disanimò lo stato di totale impotenza a cui il giovine Visconte trovavasi ridotto, giacchè per fornirgli armi e ricchezze pensò trarre profitto dell’avvenimento quasi contemporaneo della morte di Facino, e formò sulla Vedova di lui quel disegno di nozze, il vero e importante scopo del quale non fu difficile al nostro accorto Venturiero di penetrare.

    Trasferitosi l’Arcivescovo a Pavia aveva partecipato il progetto a Filippo, il quale mostrandosi in tutto a lui sottomesso tostamente l’accolse, poscia s’adoperò con ogni possibile mezzo per ottenere l’assentimento della contessa Beatrice, importandogli particolarmente di concludere in breve le cose, poichè necessità voleva si accelerasse la mossa dell’esercito, affine di non lasciar prendere radice nella Signorìa ad Estore Visconte ed al nipote Bernabò, che già padroneggiavano Milano. Mercè molte sollecite cure e le più pressanti parole, pervenne quel Mitrato, nel giro di pochi giorni, a far accogliere a Beatrice la proposizione delle nozze, cui susseguì da vicino il primo abboccamento col giovine fidanzato. Stabiliti i preliminari volle che senza indugio venisse prefissa l’epoca in cui si dovessero formalmente segnare i patti matrimoniali. Il Carmagnola, i capitani d’armi, i rappresentanti della città, non che molte altre cospicue persone, ricevettero invito d’assistere a quella conferenza, poichè il Prelato s’aveva di mira di rendere solenne l’atto delle stipulazioni nuziali, onde riuscisse pubblico, per così dire, e irresolubile l’impegno. Il dì ch’ebbe luogo l’adunanza, più numerose e scelte dell’usato erano state poste le guardie a quel palazzo, sulla fronte del quale sventolava sola ancora e sovrana la bandiera di Facino.

    Lo splendido convegno fu tenuto entro la sala maggiore del palazzo, ch’era sostenuta in giro da archi e colonne di longobardica forma. Ad ognuna delle quattro porte d’ingresso stavano colle lancie due soldati coperti d’armature di ferro lucentissimo dalla sommità del capo alle piante. I seggi fra gli archi erano occupati dai più distinti patrizii di Pavia, dietro i quali si sospingevano a gara le genti della casa della Contessa onde mirare nella sala. Innanzi ai patrizii stavano que’ del Consiglio coi pomposi lucchi magistrali e fra loro varii de’ capitani d’armi in diverse, ma eleganti assise. Nei più avanzati e ricchi sedili vedevasi il giovine sposo, Filippo Maria Visconte, alla cui destra stava assiso sulla porpora l’Arcivescovo della Capra, allato del quale, benchè alcun poco all’indietro, v’aveva uno de’ suoi vicarii; così pure poco indietro ed a mancina del Visconte stava Zanino Riccio già suo precettore ed allora suo intimo consigliere.

    Ad equa distanza, di prospetto al Visconte, sedeva Beatrice Tenda in una dorata scranna a bracciuoli; le stavano a diritta il Carmagnola, ed a sinistra Domilda de’ Ferrieri, signora d’Albenga sua confidente.

    Note

    1. Fu nel 16 maggio 1412. N.d.A.

    2. Andrea Baggi e GIovanni Pusterla, nipote di quello sopra rammentato, erano stati capi della congiura ed uccisori del duca Giovan Maria. N. d. A.




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