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Giorgio Vasari
Sopra l'albero della Fortuna
Al Reverendissimo Vescovo Iovio, sopra l'albero della Fortuna
...Io mi sto qui in Arezzo in casa, e perché io so ch'egl'è stato scritto al cardinale ch'io ero morto, potrete, leggendo questa, fargli fede ch'io son vivo; tanto più ch'io ho disegnato una carta che sarà in compagnia di questa, che la diate a Sua Signoria Reverendissima per fargli reverenzia più che per altro. Il capriccio della invenzione è d'un gentilomo amico mio, che mi ha in questo male del continuo trattenuto; credo vi piacerà. E perché la Signoria Vostra et il cardinale l'intendiate meglio, dirò qui di sotto il suo significato più brevemente potrò. Quell'albero che è disegnato nel mezzo della storia è l'albero della Fortuna, mostrando per le radici che né in tutto sono sotto terra né sopra terra. I rami suoi intrigati, e dove puliti e dove pieni di nodi, sono fatti per la Sorte, che spesso seguita e molte volte nella vita è interrotta. Le sue foglie, per esser tutte tonde e lieve, sono per la Volubilità. I suoi frutti, come vedete, son mitrie di Papi, corone imperiali e reali, cappelli da cardinali, mitrie da vescovi, berrette ducali e marchesali, e di conti. Sonvi quelle da preti, così i cappucci da frati, cuffie e veli da monache, come anche celate di soldati e portature diverse per il capo di persone seculari, maschi come femmine. Sotto all'ombra di quest'albero sono lupi, serpenti, orsi, asini, buoi, pecore, volpe, muli, porci, gatte, civette, allocchi, barbagianni, pappagalli, picchi, cuculi, frusoni, cutrettole, gazzuole, cornacchie, merle, cicale, grilli, farfalle e molti altri animali, come potrete vedere; i quali spettando che la Fortuna, la quale, serrato gl'occhi con una benda, sta in cima all'albero, con una pertica battendo le frutte dell'albero le fa cadere per sorte in capo agl'animali che sotto l'albero stanno in riposo. E cotal volta casca il regno papale in capo a un lupo, et egli con quella natura che ha vive et amministra la Chiesa. Simile in un serpente l'imperio avvelena, strugge e divora i regni e fa disperati tutti i popoli suoi. La corona d'un re casca in capo a un orso, e fa quello effetto che la superbia e la furia dell'arrabbiata natura sua. I cappelli da cardinali piovano spesso in capo agl'asini, i quali non curando virtù nessuna, ignorantemente vivendo, asinescamente si pascano, et urtano spesso altrui. Le mitrie da vescovi spesso a' buoi son destinate, tenendosi più conto d'una servitù et adulazione che di lettere o di chi lo meriterebbe. Cascano le berrette ducali, marchesali e contigiane alle volpi, a' grifoni, a' leoni, che né dalla sagacità né dagli artigli né dalla superbia si può campare da loro. Cascano similmente cotal volta le berrette da preti in capo alle pecore et ai muli, che l'uno spesso per il nasciere de' figliuoli succedono nel luogo del padre, l'altra per la dappocaggine sua vive, perché la mangia. I cappucci che cascano in capo a' porci di diverse ragioni, frati immersi nella broda e nella lussuria, fanno a' lor conventi comunemente le furfanterie che sapete. I veli e cuffie delle monache cascano in capo alle gatte, ché spesso il governo loro è in mano di donne che hanno poco cervello. De' soldati cascano le celate in capo a' picchi et a' cuculi e pappagalli, e le comuni berrette secolari sono a coprire destinate barbagianni, allocchi, gufi, frusoni e sparvieri, come le acconciature delle femmine investiscano cutrettole, civette e merle, cicale, grilli, parpaglioni e farfalle. Così ogniuno investito della sua dignità, secondo che si trova locato e che cascando lo va a trovare la sorte delle frutte dell'albero, ha mostro quest'amico mio il suo capriccio alla Signoria Vostra, per mezzo del disegno il quale io vi mando; che ancora che la storia sia profana, m'è parsa tanto capricciosa che l'ho giudicata degna di Lei, e perché anco facciate un poco ridere il cardinale. In questo mezzo io attenderò a recuperare la sanità; e farete intendere a Sua Signoria Reverendissima che io ho mandato la sua lettera al signore duca Alessandro, il quale mi ha fatto intendere ch'io me ne vadia a Firenze. Starò qui sino a tutto settembre; poi al principio di ottobre farò il suo comandamento, e di là saprete l'esser mio giornalmente. Salutate per mia parte gl'amici miei della vostra accademia, e basciate le mani al cardinale per mia parte.
Di Arezzo, alli 4 di settembre MDXXXXI.
(1541)