Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Giosuè Carducci

    Intermezzo

    1.

    Cuore, a che uccelli ne’ miei versi, come
    Quella sgualdrina vecchia
    Là su l’uscio, che al vento dà le chiome
    Grige e al rumor l’orecchia?

    Per questa sera il lume in van risplende
    Da la finestra bassa:
    Vecchia, rientra, e tira pur le tende,
    Ché nessun merlo passa.

    Ma tu ancor non sei stanco, o mio cuor vecchio,
    O vecchio cuore umano,
    Di civettar guardandoti a lo specchio
    Falso del verso vano?

    È un bel pezzo, sai tu?, dal cieco Omero,
    Che tu se’ il caro cuore,
    Ed è un bel pezzo pur che fai ’l mestiero...,
    Via..., di lusingatore,

    E anche di metafora, matura
    Per fin ne’ versi miei:
    Di che cuor, se non fossi una figura,
    Cuore, io ti strozzerei!

    Ma, già che un tropo sei, come la cetra
    La lira o il colascione
    Su cui si può mandar Fillide a l’etra
    O la riparazione,

    E già che la metafora, regina
    Di nascita e conquista,
    È la sola gentil, salda, divina
    Verità che sussista,

    Io ti vo’ ballottar dentro un rovescio
    Di strofe belle e brutte
    Che vadano a diritto ed a sghimbescio,
    Metaforiche tutte,

    Tutte senza orïente o tramontana,
    Senza capo né coda,
    Tanto che la sinistra italïana
    Al paragon ne goda,

    E tutte senza fine e senza scopo,
    Come il mio tedio e il mio
    Dispetto che cominciano da un tropo
    Per naufragare in Dio.

    2.

    O numi, o eroi, che belli e fieri un giorno
    Vi rompevate il grugno
    L’un l’altro! o tori, e voi tra corno e corno
    Abbattuti d’un pugno!

    O terga rosolate e fumiganti
    Lungo il divino Egeo!
    Oggi noi siamo a dieta, e sempre avanti,
    Ci dan questo cibreo:

    Questo cibreo del cuore, in verso e in prosa,
    Co ’l solito guazzetto
    Di quella sua secrezïon muccosa
    Che si chiama l’affetto.

    Un dí, quando Parigi urlò protervo
    Ne la reggia soletta
    Come ansante canea che, preso il cervo,
    I visceri ne aspetta,

    Un buon beccaio rosso ed aitante
    L’entragno d’un vitello
    Infilò s’una picca; e gocciolante,
    Con tanto di cartello

    Ove “Cuor d’aristocrate„ in grandioso
    Caratter nero scrisse,
    Se lo portava intorno glorïoso,
    Con le pupille fisse.

    Io, se potessi vincer la molestia
    Del grasso e de lo schifo,
    Vorrei pigliare il cuor di quella bestia
    Che ha lungo e nero il grifo

    E si distende seria nel pantano
    Con estetica molta
    Come fosse un poeta italïano
    Entro una stanza sciolta:

    Su’ l lauro che più lieto i rami spanda
    Al dolce italo sole
    Affigger lo vorrei, tra una ghirlanda
    Di rose e di vïole,

    Con la penna d’acciaio d’un cantore
    Da la fronte ideale.
    Venite, o buona gente: al cuore, al cuore,
    Che al meno è di maiale!

    3.

    Quanto a me, cuore mio, batti pur su,
    Ch’io ti do poco retta.
    Ebbi una volta un pendolo a cucú
    Dentro la sua cassetta;

    E lo tenevo in camera; ma, quando
    Mi rompeva insolente
    I sonni giovanili, io bestemmiando
    Molto liricamente

    Scaraventavo al vigile scortese
    Due classici latini,
    Seneca e Fedro, ristampa olandese
    De gli in usum Delphini.

    Strideva come protestando, e poi
    Il pendolo taceva:
    Io, ripigliato sonno, ancora voi,
    Miei colli, rivedeva,

    Miei dolci colli, ove tra’ lauri move
    L’arte serena l’orme,
    Ove Lionardo vide il sole ed ove
    Il mio fratello dorme.

    Dorme anzi sera, e dorme a lungo e solo:
    Aulisce il biancospino
    Intorno al cimitero, e ferma il volo
    Cantando un cardellino.

    Ma poi svegliati, o confidente cuore,
    Lavoravam di buono,
    Ed al cucú pe ’l fluttuar de l’ore
    Rassettavamo il suono.

    Questa è, vecchio mio cuor, la vecchia storia,
    Far, disfare, rifare:
    Per l’ozio, per la fame o per la gloria,
    È tutto un lavorare.

    È un lavorare faticoso e pazzo
    Da pentirsene un giorno.
    Ecco, a metterti in versi io mi strapazzo,
    E non m’importa un corno

    De le tue smorfie, o a la grand’arte pura
    Vil muscolo nocivo;
    Ma non so a quanti versi do la stura,
    E vedrò dove arrivo.

    4.

    E canterò di voi, gente finita
    Dal pathos ideale,
    Che riduceste a clinica la vita
    E il mondo a un ospitale.

    S’alza il poeta a mezzodí, sbadiglia,
    — Buon giorno, o cor mio lasso — ,
    Se lo sdigiuna bene e se lo striglia,
    E se lo mena a spasso.

    Dice al sole e a gli uccelli, a l’erbe e a’ fiori,
    Che trova su ’l sentiero:
    - Mirate, o creature, il re de’ cuori,
    Il mio cuore, il cuor vero.

    Egli è tenero e duro, e dolce e forte,
    Arïete ed agnello:
    Come tortora tuba, e rugge a morte,
    Peggio d’un lioncello.

    Vero è, santa natura, che il mio cuore
    È un po’ delicatuzzo:
    Ma io lo tiro su, povero amore,
    A olio di merluzzo;

    A olio di merluzzo, temperato
    Con l’essenze odorose
    Che mi mandan la sera co ’l bucato
    Le vergini e le spose;

    Le vergini e le spose del giocondo
    Italico giardino:
    Però ch’io sono, e lo sa tutto il mondo,
    Un poeta divino — .

    Sbottonato cosi, scuote le chiome.
    Guarda i fiori e la mèsse
    E gli alberi e gli uccelli e il cielo, come
    S’egli li proteggesse.

    Due rospi intanto a l’orlo de la strada
    Benefici e modesti
    Seguitan liberando la contrada
    Da gl’insetti molesti.

    L’un dice — Ne l’età che molte e lente
    Ci passâr su ’l groppone
    Vedestú mai, fratel mio pazïente,
    Un tal fior di cialtrone? —

    5.

    Il poeta barcolla e ha il capo grosso:
    L’ulcere del suo core
    Ei mette in mostra, come un nastro rosso
    De la legion d’onore.

    — Quest’ulcera è al suo punto — ei dice, e questa
    Mi dee nobilitare.
    L’asinità de la vil gente onesta
    Si sgroppi a lavorare.

    Noi angeletti de’ liberi amori,
    Noi liriche farfalle
    Create a svolazzar su’ cavolfiori
    E lambirne le palle,

    Oggi al secol del ferro e del carbone
    Mutati in calabroni
    Con l’assenzio facciam la reazione,
    E sputiamo i polmoni.

    Cosí, feriti al cuor, figli de l’arte,
    Siamo privilegiati:
    Dal facchinaggio uman stiamo in disparte
    Noi, sublimi ammalati.

    Nostro lavoro è di portare in petto
    La questïon sociale.
    O contemplazïon del lazzaretto!
    Datemi un serviziale....

    Un serviziale rosso. Il contadino
    Bea ne la maledetta
    Risaia l’acqua marcia: io bevo il vino
    Per far la sua vendetta.

    Canti sol chi la voce ha cavernosa,
    E pèste a la salute!
    Fiutate qua, canaglia vigorosa,
    Quest’ulcera che pute! —

    Cosí urla, al mattin scialbo, su ’l canto
    D’una sudicia via;
    E tosse e rece fuor del petto affranto
    Vino, tabe, elegia;

    E l’asino, che vien, de l’ortolano
    Lo fiuta con dimesso
    L’orecchio, e pensa — O idealismo umano,
    Affógati in un cesso. —

    6.

    Io, per me, no, non sono un organetto
    Che suoni a ogni portone
    De i soliti ragazzi nel conspetto
    La solita canzone.

    Quando l’idea ne l’anima rovente
    Si fonde con l’amore,
    Divien fantasma, e a’ regni de la mente
    Vola fendendo il core;

    E la ferita stride aperta al vento,
    Geme cruenta al sole:
    Io non vi gitto le filacce drento
    Di rime e di parole.

    E vommene co ’l mio cuor così fesso
    Per questo viavai;
    E il mio canto miglior sempre è quel desso,
    Quel che non feci mai.

    Questo cor, questa piaga e la filaccia
    Vuol dir, lettor mio buono,
    Che di tropi barocchi anch’io vo a caccia
    E che un poltrone io sono.

    Il primo è da gaglioffi, ma il secondo
    Un buon mestier mi pare.
    Io non pretendo illuminare il mondo,
    Né il buffon gli vo’ fare.

    Or, l’una cosa o l’altra si propone
    Chi scrive al tempo nostro.
    Faccia chi vuol l’apostolo o il buffone;
    Costa poco l’inchiostro,

    E la parola meno, e l’onor nulla,
    E la menzogna è il vero,
    E tutto è falso. Oh via, che mai mi frulla
    Adesso nel pensiero?

    Io sento in me qualcosa di Nerone,
    Ma piú puro e giocondo:
    Non sangue o teste, io voglio, in conclusione,
    Vo’ schiaffeggiare il mondo.

    Detto fatto. Ogni strofe, alta, animosa,
    Vola via senza guanti;
    Ogni strofe è uno schiaffo a, qualche cosa:
    Avanti, avanti, avanti.

    7.

    Potessi pianger sur un campanile
    Come il mio dolce Edmondo,
    Sí che scendesse il pianto mio, gentile
    Battesimo, su ’l mondo!

    Arido mondo, che non crede a nulla,
    Né meno a le guanciate!
    Per disperazïon fino Fanfulla
    Mi s’è rifatto frate.

    Fra’ cavalier gerosolimitano.
    Monta Bucifalasso,
    E contro ogni baron poco cristiano
    Tiene, sfidando, il passo.

    Pe ’l medio evo il passo ei tiene, al ponte
    De l’asino: cimiero,
    Due belli orecchi d’asino la fronte
    Ombrano al cavaliero,

    Vóto di penitenza ond’ei racquista
    La salita al Calvario:
    Però che un tempo ei fu razionalista
    E rivoluzionario.

    Or ne lo scudo porta iscritto — Dio,
    Il re, la donna mia —
    Non senza qualche medievale e pio
    Error di ortografia.

    Ahi fra’ Fanfulla! non son piú quegli anni,
    Sfiorí la primavera:
    Non cantan piú cuculi, i barbagianni
    Guardan la tua bandiera.

    Non piú la gente cerca in Dio conforto,
    O del diavol si accora:
    Ahi, Pantalon de’ Bisognosi è morto,
    Ed Arlecchino ancora.

    I preti han guasta la Vergin divina
    Per fin dentro le chiese:
    Päol Ferrari diede a Colombina,
    Pur troppo, il mal francese.

    Quanto al re — frate mio, vi vengo schietto —
    Questa è l’età de l’oro;
    Quanto al re, l’hanno dato a Benedetto
    E si ammiran tra loro.

    8.

    Va’, ditirambo mio triste e giocondo,
    Vola dove ti frulla.
    Nulla tu cerchi per l’immenso mondo,
    E non ci trovi nulla.

    Nuova terra altri chieda o nuovo polo
    E lontani orizzonti:
    Sol ch’io potessi riposare il volo
    Su’ miei paterni monti!

    Al sol che tra le selve snelle mira
    Co ’l tremolar de’ raggi,
    Nel suol molle di musco che respira
    Desii di fior selvaggi,

    Giacciono i sogni miei, fanciulli stanchi
    Che s’addormîr piangenti:
    Cantan tra verdi faggi e marmi bianchi
    I ruscelli e i torrenti.

    Per quell’angol di terra, ecco io darei
    Quale piú benedetto
    Lembo di cielo occorra a’ versi miei
    Quando faccio un sonetto;

    E ci fare’ un sonnetto. A l’ombra amica
    De le memori piante
    Mi cullerebbe ne la strofe antica
    La rima miagolante.

    gravi rime sbadiglianti in are,
    O tenui rime in io,
    Dite voi com’è dolce riposare
    Su ’l terreno natío.

    I patrii sassi vi pungon le schiene
    Con accoglienza onesta,
    Ed i mosconi de le patrie arene
    Vi fan dintorno festa.

    Zu, zu, cari mosconi. Come stanno
    Le vespe e i calabroni?
    Ci fûr di molte vipere quest’anno
    Giú pe’ patrii burroni?

    E gli amici? e i parenti? Oh nuove gioie!
    Oh quanti fidi cuori!
    Oh bel portare a spasso le sue noie
    Tra cotanti sudori!

    9.

    Non contro te suoni maligno il verso,
    Terra a cui non risposi
    Amor già mai, cui sol vidi traverso
    I sogni lacrimosi

    De l’infanzia. O sedente al tirren lido,
    Poggiata il fianco a i monti,
    A dio, Versilia mia, ligure lido
    Di longobardi conti!

    Se da le donne tue maschia dolcezza
    Tenne il mio tósco accento,
    Io non voglio i tuoi marmi, o Serravezza,
    Per il mio monumento

    Pe ’l monumento che vo’ farmi vivo,
    Lungi da la mia culla
    Cerco altri marmi mentre penso e scrivo,
    Che non costano nulla.

    Altrui le glorie. O dïamante bianco
    Entro gli azzurri egei,
    Paro gentil dal cui marpesio fianco
    Uscían d’Ellas gli dèi,

    Tu, che tra Nasso ove Arïanna giacque
    In seno al bello iddio,
    E Delo errante dove Febo nacque
    Nume de’ greci e mio,

    Archiloco vedesti a i giambi ardenti
    Sciôr fra i tuoi nembi il freno
    E de’ tristi alcïoni in fra i lamenti
    Ir l’elegia d’Eveno,

    A me d’Italia Archiloco omai lasso
    Ed Eveno migliore
    Dona, Paro gentil, tanto di sasso
    Ch’io v’intombi il mio cuore.

    Questo cuore che amor mai non richiese
    Se non forse a le idee
    E che ferito tra le sue contese
    Ora morir si dee,

    Vo’ sotterrarlo, e mi fia dolce pena
    Ne l’opra affaticarmi:
    O Paro, o Grecia, antichità serena,
    Datemi i marmi e i carmi.

    10.

    Marmi di Paro in fulgidezza bianca
    Splendenti a la marina,
    Come la falce de la luna stanca
    Nel ciel de la mattina;

    Carmi di Lesbo sussurranti al vento
    Su molte isole intorno,
    Come d’Apollo il grande arco d’argento
    Nel ciel di mezzogiorno;

    Ricoprano il mio cuore irrigidito
    Da i cristïani tufi,
    Circondino il mio cuore istupidito
    Da i romantici gufi.

    Breve su ’l morto ed ultima s’intoni
    La canzone di doglia,
    Mentre ne l’Odi Barbare deponi,
    Musa, la fredda spoglia.

    — Ahi Lino, ahi Lino! è il mio cuor trapassato,
    Come te, ne l’estate:
    Non giunse a la vendemmia: l’han sbranato
    Molte cagne arrabbiate.

    Ió Peàn, ió Peàn! ma e’ rivive
    Di morte oltre i confini
    Sott’altro cielo e in piú benigne rive:
    Taccian tutti gli Elini. —

    Sepolto or giace in cotest’ urna paria
    S’un travertin del Lazio:
    Nel bianco un’orma di parïetaria
    Segna l’antico strazio.

    Intorno al fregio l’édera seguace
    Co ’l verde che non muore
    Par che nel freddo de la nuova pace
    Ombri l’antico ardore.

    Tra ’l sasso e l’urna una lucertoletta
    Esce e s’affige al sole:
    È la mia vecchia gioventú soletta
    Che sogna e non si duole.

    Ma dietro, in fondo, un bel teschio di morto
    Ride il suo riso eterno:
    A quei che vengon per recar conforto
    Ride l’ultimo scherno.

    NOTA

    Intermezzo o intermedio dicevano i cinquecentisti italiani un breve divertimento di canzonette e balletti figurati, dato tra l’uno atto e l’altro delle rappresentazioni drammatiche; e intermezzo metaforicamente chiamai io questa serie di rime che doveva nel mio pensiero segnare il passaggio dai Giambi ed Epodi alle Rime nuove e alle Odi Barbare. Per ciò che è cantato nel capitolo 2, professori e abati, verseggiatori manzoniani e spie libelliste, signore letterate e cocottes devote, mi vituperarono poeta del maiale; la calunnia, al solito, fu stupida, e non c’è altro che da commiserare la grossolanità della incultura letteraria, cotennosa in Italia anche nelle classi strigliate. È superfluo notare che le strofi 4 e 5 del capitolo 10 alludono ai canti di tristezza (Αἲ λίνος, elini) e di allegrezza (Ιη Παιάν, peani) del popolo greco, deploratorii quelli della morte d’un simbolico giovinetto Lino, celebrativi questi della efficacia gioiosa di Apollo: cfr. Ott. Müller, Storia della letter. Greca, cap. III.




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