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Giovanni Berchet
I funerali
SATIRA
Est
Gaudia prodentem vultum celare. Sepulchrum
Permissum arbitrio sine sordibus extrue; funus
Egregie factum laudet vicinia . . . . . .
Q. HORAT. Satyr. V. Lib. II.
Poca terra, poca erba e pochi fiori
Che il pianto irriga di fedel consorte
D'inconsolabil duolo il cor ferito
Profondamente, e di più mesti figli
Che funerei giacinti alle devote
Zolle portando, con singulti amari
Chiamano il dolce genitor perduto:
II genitor che co' suoi padri antichi
Dorme tranquillo e benedetto, ell' era
Questa sol, questa un dì la tomba agli avi
Nostri diletta, allor che regno in terra
Innocenza serbava; e non le finte
Colonne, e gli archi, e i serici trapunti,
Né compro lutto, e meditato canto,
De' secoli più guasti insana pompa.
Spesso ancora sorgeva a que' beati
Semplici tempi, in mezzo a' campi un'ara
O stabil cippo sepolcrale, grato
Di dolor monumento e di desio,
Che alle sue care rimembranze acerbe
La non stolta cittade allor poneva.
Né di sì bella ed onorata tomba
Prodiga troppo ella era, e aveanla i soli
Cui l'alta fiamma di virtude il petto
Incendeva e la mente; e venerandi
Magistrati incorrotti; e padri amanti
De' domestici lari, e di privati
Aurei costumi e d'onestà romita;
E ardenti vati dalle Muse eletti
A far miti gli umani, e a cui le corde
Temperava dell'arpa il santo Vero,
E amor di patria generoso, e pio
Timor de'Numi. Oh! (dir parea quel cippo)
Lungi lungi l'aratro o buon cultore,
Lungi il solco devia: che sacra terra
È questa che tu calchi, ed io ricopro
Le reliquie d'un giusto. Onda lustrale
Spandi sull'ossa, e le ginocchia inchina.
Ma tutto volve il tempo, e tutto cangia,
E le bell'opre dell'antica etade
E le usanze divine a noi son mute:
Argomento sol d'eleghi dolenti
A disdegnosi pochi, a cui ben altro
Che la facile danza e l'insensata
Scena, diletta, e l'adulterio e 'l corso —
Di crasso corpo, e di più crasso ingegno
Caro a Frine soltanto ed a Batillo,
Odio d'ogni altro, in ampia casa al parco
Sofo negata, e stanza eterna al tristo
Mimo fecondo di scurrili modi,
Morì Cratero; e d'auro e gemme, e campi
Che gli fruttava de' coloni il pianto,
La cabala o l'usura, egli fa ricco
L'ignaro erede, a cui tutti togliea
Della vita i disagi il buon destino,
Ma una punta nell'alma pur lasciava:
Chè per quanti mandasse ardenti voti,
Perchè dell'avo annoso i dì più brevi
Si facessero omai, le Parche gravi
Sorde alle preci, di troncar lo stame
Non si fur ose; e l'increscevol vita
Ebbe quel corso ch'era in ciel prefisso. —
L'unico giorno al fin che dall'erede
Sì lungamente era veduto, è giunto.
Cessò nell'alte sale il romorìo
De' servi interroganti, e de' pensosi
Medici curvi sull'ignoto polso.
Freddo è il vecchio, e disteso, e la novella
Al nipote ne vien, che impazïente
La si procaccia. Ei d'ambe mani al volto
Fattosi velo, il rio sogghigno asconde,
E chiede alla tristezza un nuvol solo
Che gli scenda sul fronte, intanto almeno
Che al maligno s'involi ed importuno
Sguardo di quei che in cor gli veggon tutti
I pensier più segreti, e alla rimota
Villa rivolga il pio cocchiere istrutto
Ratto la foga de' corsier veloci.
La bell'alma non regge al triste ufficio
Dell'estrema pietà, che raccomanda
A noi natura, o sconosciuto un Dio.
E l'orecchie gentili al suono avvezze
Di molli flauti, il tintinnio non sanno
Melanconico udir de' sacri bronzi.
Di Vitruvio e Palladio al buon alunno
Commessa intanto è la funerea pompa,
Gran mausoleo s'innalza, a cui gran tempo
Concordemente in mille guise intorno
Vedi l'arti sudanti a far lor prove.
Ve' colei che al pesante alpestre masso
Umane forme adatta, e tanto al vero
L'error somiglia, che non l'occhio solo,
Ma delusa tua mano i tondi fianchi
Crede trattar d'intemerata vergine,
E su gelido marmo ella viaggia.
Evvi quella che l'ombre a' bei colori
Si dotta alterna, che mirando i miIle,
Che alla tela consegna oggetti vaghi,
Natura stessa invidïosa freme;
Chè la gara le spiace. A queste due
L'altra precede a cui di Grecia un giorno
L'antica stanza increbbe, e nell'agreste
Lazio esulando, de' suoi Numi amica
Suscitava dal suolo are e delubri;
Che dopo l'urto delle etadi, e tante
Della terra vicende, ancor sublime
Fan testimonio del verace Bello.
Queste coll'altre lor minor sorelle
S'affaccendan intorno all'alta mole,
A cui diedero vita i lunghi mesi
E vita esser le deve un giorno solo.
Forse anco fia che dell'accorso vulgo
Per le vacue del cerebro cellette
La rimembranza volerà alcun tempo :
Finché il zerbino inzaccherato e liscio,
Cui le segrete ripetute creste
Acre fan la saliva, alle vinose
Mense loquaci de'potenti; e 'l lippo
Barbier correndo la città indolente,
Biasmeran le colonne, o l'epistilio ;
E giudicando con etrusche leggi
L'ïonico elegante o 'I maestoso
Ordine vago che insegnò Corinto,
Curvo il retto vorranno, e retto il curvo.
Questo è pur sempre, o di Vitruvio alunno,
II guiderdon delle vegghiate notti.
E se lode ti suona al cuor lusinga,
Via la tema, l'avrai; ma chi la dona
II perchè ti sa dire? — Ecco la fronte
Spiega superbo l'edificio, e tenta
Sfidar le nubi, se non che l'umíle
Volta del tempio lo contende, e tronca
Severa il passo all'ardimento insano.
Uom scarno il viso e di pallor coverto
Alla tomba s'appressa, e lunghi a brevi
Misti carmi v'affigge. Il vate esperto
Di Cratero prescinde ogni lignaggio;
E dritto è ben: che allo scambiato nome
D'un che al favore del figliuol di Maja
Dal trivio ignoto immantinente emerse,
Mal la paterna lesine sovrasta,
Nè dan lustro le forche; ond'è sì bello
Lo scordarsi dell'avo. I molti invece
Aurei segni racconta, ingombratori
Del vasto petto del defunto, e come
Sotto lucide spoglie immacolati
Della mente i segreti e acuto il senno
E'l saver di profondo egli serbava.
Ahi! di fole maestro, e che ci narri
Tu di virtudi? a noi non noto il vero?
Ma che non può il bisogno in noi mortali ?
Siccome un dì per punimento atroce
Di Cerere divina, a cui recisa
Colla profana scure avea la cara
A lei sacrata selva, estenuato
Piangea di fame (miserando obbietto)
Per i tessali campi Erisittone:
Tal costui dal digiuno perseguito
Pane pane cercava ad ogni patto;
Quando il vizio gli apparve, e oh! meschinello
Vate, disse, spolpato, a che ti struggi ?
Su su mi loda, e di bei panni adorno
Fammi se sai ; chè satollarti io posso.
Egli l'intese, e per li vuoti fianchi
Sentia più fiero stimolarlo il crudo
Di vivande bisogno; allor la macra
Obliava canzone alla recente
Vestale ordita, e Nice invan chiedea
Che pel di di sue nozze, ai già sudati
Tredici versi anco l'estremo unisse.
Que' sublimi argomenti a cui sortillo
L'intonso Nume, ahi! rovinar fur visti
Spietatamente, a nulla cosa il vate
Più non drizzava il divin estro ardente,
Che a scolpir l'epitafio, a finger pianti
Del lietissimo erede, onde poi larga
Al bramoso suo ventre esca venìa.
Ogni cosa compiuta, un ordin lungo
Di negri sacerdoti, e bianchi e bigi,
Con intricato rito, allo feretro
Vedi andarne e venirne e circuirlo,
Treni lugubri susurrando, e pace
Sovra l'ossa pregando; a lor più pingue
Oggi il fumo s'estolle entro le case
Dalle diverse dagri, onde robusta
Più dell'usato per l'aperta gola
Oggi tuona la voce. E tal sarebbe,
Se di Cratero invece oscuro un Dama
Nella tomba giacesse? — Il vano fasto
Quant'oro assorbe in questo giorno! E invano
Stende la destra il poverello, e prega
E plora; e un pure, un pur non v'ha che il pianto
Oggi, almeno quest'oggi, asciugar tenti
Della tremante vedovella oppressa
Dalla squallida inopia; o di quel padre
Cui molta prole lurida per fame
Nel tugurio circonda, ed ei dolente
Muto muto la guarda, e non sa come
Soccorra agli infelici, e in cor l'estremo
Disperato voler gli si solleva.
Ma non da pace all'ombre il ciglio terso
Ai prostrati viventi, e non è bella
Pietà segreta a nessun conta. È d'uopo
Alto meriggio, e folta plebe accorre
Che densa in su la soglia s'arrabatta
Del desïato tempio. Il cupid'occhio
Ognuno intende, e con aperte bocche
Mira i fulgidi arredi e l'infinito
Delle tede splendore a oscuri panni
Mestamente commisto; e beve intanto
L'ingordo orecchio il variato e dolce
Modular delle tibie, e il lezïoso
Degli immani evirati eterno trillo;
Ma neppure una lagrima, un sospiro
Accompagna il defunto, e non è core
In cui furtiva la pietà discenda
Sicché dica : Posate mollemente
Ossa, e dissopra vi sia lieve il suolo. —
Ben altro inno che questo a lui risuona.
Il maledicon molti a cui la ricca
Prepotenza rapìa gli scarsi campi;
Lui maledice in disperati accenti
Lo spogliato pupillo. Ahi! tardi al fine
Quanto ti costi l'immaturo fato
Del severo parente, e la bramata
Intempestiva libertà conosci.
Molti piangono ancora i tolti dritti,
II falsato chirografo, e le poche
Malfidate sostanze; ed a quel pianto
Un maledir che non ha fine, è misto.
Oh! tu pur anco all'urna negra intorno
Mal accorta donzella ! a te natura
Infausto dono di beltà concesse
Sotto povere vesti, e non ti valse,
Misera! usbergo di materno seno,
Né di padre consiglio. In tante guise
Con tant'arti le fea sì fero assalto
Di Cratere l'oscena onnipotenza,
Che l'ostello solingo al parco desco
Più seder non la vide, e l'innocente
Letto divider con la madre. Il falso
Esercitato amante, alle lontane
Case la trasse, e premio a lei ne venne
II non tardo rifiuto e l'abbandono.
Or del cupo bordello in su la via
Necessità l'incalza, ed alla tomba
Del disonesto seduttor, ne viene
Dalle vergini spinta anguicrinite.
Qui d'infamia coverta e di vergogna
L'onor tolto domanda, e sulla spoglia
Esecrata, ella prega avversi i venti
Ed irata la pioggia. Il breve nummo
Duramente negato il contadino
Brutto di polve e di sudor rammenta;
E la tarda di Dio alta vendetta
Sul cener freddo, e sulla tomba implora.
Un susurrar sommesso, un mormorare
Di tante imprecazioni, e l'incessante
Inutil salmeggiar di sacerdoti,
Forman sì cupo e si profondo un suono,
Che il cor ti stringe, e negli alberghi errare
Parti di Pluto. Avidamente intanto
L'allegro erede entro gli avari scrigni
La man pronta ravvolge, e l'oro infame
Largo con Bacco e Citerea divide.
Milano. Per Cairo e Compagno, 1808