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Giovanni Berchet
Il rimorso
ROMANZA
Ella è sola, dinanzi le genti;
Sola, in mezzo dell’ampio convito:
Nè alle dolci compagnie ridenti
Osa intender lo sguardo avvilito.
Vede ferver tripudi e carole,
Ma nessuno la invita a danzar;
Ode intorno cortesi parole.
Ma ver lei neppur una volar.
Un fanciullo che madre la dice
S’apre il passo, le corre al ginocchio,
E coi baci la lagrima elice
Che a lei gonfia tremava nell’occhio.
Come rosa, è fiorente il fanciullo;
Ma nessuno a mirarlo ristà.
Per quel pargolo un vezzo, un trastullo
Per la madre un saluto non v’ha.
Se un ignaro domanda al vicino
Chi sia mai quella mesta pensosa
Che sui ricci del biondo bambino
La bellissima faccia riposa;
Cento voci risposta gli fanno,
Cento scherni gl’insegnano il ver:
« È la donna di un nostro tiranno.
« È la sposa dell’uomo stranier.»
Ne’ teatri, lunghesso le vie,
Fin nel tempio del Dio che perdona,
Infra un popol ricinto di spie,
Fra una gente cruciata e prigiona,
Serpe l’ira d’un motto sommesso
Che il terrore comprimer non può:
« Maledetta chi d’italo amplesso
« Il tedesco soldato beò!»
Ella è sola: — Ma i vedovi giorni
Ha contato il suo cor doloroso;
E già batte, già esulta che torni
Dal lontano presidio lo sposo. —
Non è vero. Per questa negletta
È finito il sospiro d’amor:
Altri sono i pensier che l’han stretta,
Altri i guai che le ingrossano il cor.
Quando l’onte che il dì l’han ferita
La perseguon, fantasmi, all’oscuro;
Quando vagan su l’alma smarrita;
Le memorie, e il terror del futuro:
Quando sbalza da i sogni, e pon mente
Come udisse il suo nato vagir,
Egli è allor che a la veglia inclemente
Costei fida il secreto martir:
« Trista me! Qual vendetta di Dio
Mi cerchiò di caligine il senno.
Quando por la mia patria in obblio
Le straniere lusinghe mi fenno?
Io, la vergin ne’ gaudi cercata,
Festeggiata — fra l’Itale un dì:
Or chi sono? L’apostata esosa
Che vogliosa — al suo popol mentì.
« Ho disdetto i comuni dolori;
Ho negato i fratelli, gli oppressi;
Ho sorriso ai superbi oppressori:
A seder mi sono posta con essi.
Vile! un manto d’infamia hai tessuto
L’hai voluto, — sul dosso ti sta;
Nè per gemere, o vil, che farai,
Nessun mai — dal tuo dosso il torrà.
« Oh! il dileggio di ch’io son pasciuta
Quei che il versan, non san dove scende.
Iacerban l’umil ravveduta
Che per odio a lor odio non rende.
Stolta! il merito, chè il piè non rattengo,
Stolta! e vengo — e rivelo fra lor
Questa fronte che d’erger m’è tolto,
Questo volto — dannato al rossor.
« Vilipeso, da tutti reietto,
Come fosse il figliuol del peccato,
Questo caro, senz’onta concetto,
È un estranio sul suol dov’è nato.
Or si salva nel grembo materno
Dallo scherno — che intender non sa;
Ma la madre che il cresce all’insulto
Forse, adulto — a insultar sorgerà.
« E se avvien che si destin gli schiavi
A tastar dove stringa il lor laccio:
Se rinasce nel cor degl’ignavi
La coscienza d’un nerbo nel braccio
Di che popol dirommi? A che fati
Gli esacrati — miei giorni unirò?
Per chi al cielo drizzar la preghiera?
Qual bandiera — vincente vorrò?
« Cittadina, sorella, consorte,
Madre — ovunque io mi volga ad un fine,
Fuor del retto sentiero distorte
Stampo l’orme fra i vepri e le spine.
Vile! un manto d’infamia hai tessuto;
L’hai voluto; — sul dosso ti sta;
Nè per gemere, o vil, che farai,
Nessun mai — dal tuo dosso il torrà.»