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Giovanni Marchetti
Una notte di Dante
Canto primo
Su pel selvaggio dorso d’Apennino
In quella parte ove di sè fa schermo
Dal torbid’Austro al glorïoso Urbino,
Chi tre miglia affatichi il piè mal fermo
Vede al fin, sotto a bianco scoglio alpestre,
Le vecchie mura nereggiar d’un ermo.
Anime belle e di virtù maestre
Giunte in vincol di legge e di concordia,
Se furor scellerato armi le destre
E spiri al mondo l’infernal Discordia,
Lassù co’ preghi, col digiun, col pianto
Chiama dal regno suo misericordia.
Già dal remoto monistero santo
Che nome tien dell’Avellana fonte
Alto suonava e non bugiardo il vanto
Fra le italiche genti, che sì pronte
Torcean le maledette armi in lor danno;
Quando solingo testimon fu ’l monte
Di ciò che le mie rime oggi diranno.
Dopo mille e trecento dal fecondo
Virgineo grembo, il diciottesim’anno,
Era del quinto mese il dì secondo,
L’ora appressava del silenzio amica,
E il vespertino zefiro giocondo
Movea le chiome della selva antica,
Quand’uom di dolce maestate adorno,
Cui visibil pensier grave affatica,
Parve in sull’uscio di quel pio soggiorno:
Il volto sollevò pallido e scarno,
E lentamente girò gli occhi intorno.
S’affise là dove sue fonti ha l’Arno,
Qual chi mesto saluti di lontano
Cosa gran tempo lacrimata indarno.
Poi, sospirando, pel sentier montano,
Fra’ colorati dal cadente Sole
Lugubri abeti, s’avviò pian piano.
Non era lungi ancor quanto trar suole
Rustica fionda, che rattenne i passi
E disse in chiaro suon queste parole:
"Tra due liti d’Italia surgon sassi..."
Indi, tenendo le pupille intente
Al Catria, sommo di quegli ardui massi,
Alquanto seguitò sommessamente:
Ma di fuor manifesto trasparia
L’imaginar della spirata mente
E riprendendo la silvestre via,
Ecco un bianco eremita d’anni grave
Che passo passo incontro gli venia.
Come pura, o Signor, come soave,
Disse il monaco, è l’aere, e mite il vento!
Così quest’ermo a te faccian men grave
Le placid’aure che tornar già sento.
E lo stranier a lui: Frate, che giova
Di fuor la pace, se la guerra è drento?
La benigna stagion ch’or si rinnova
Vestì sedici volte il bel colore
Dal dì ch’io fui sommesso a dura prova,
Nè ancor tregua ebbi mai di mio dolore.
Con la dolcezza del natal terreno
Ogni dolce è rapito a gentil core.
Tralusse, a questo dir, come baleno,
Nella faccia del monaco un disio,
Ma non fe’ motto e chinò gli occhi al seno.
L’altro, che lesse in quel sembiante, O pio,
Disse, rettor del consecrato ospizio
Che ignoto peregrin, qual mi son io,
Pronto accogliesti, il tuo cortese uffizio
Vuol ch’io di me, de’ miei crudi pensieri
Meglio ti porga che sì lieve indizio.
Qual chi l’animo intende volentieri,
S’atteggiò l’eremita; e quel soggiunse:
Tu dei saper ch’io son Dante Alighieri.
Tutto visibilmente si compunse
Il sacro veglio d’alta riverenza
Dinanzi a lui che proseguia: Se giunse
Alcuna di mio nome conoscenza
Per ventura quassù, credo saprete
Che a me fu madre e me cacciò Fiorenza.
Fiorenza no, ma le superbe e liete
Della miseria mia belve bramose,
Le quai per arti perfide, secrete,
E scaltri accorgimenti e vie nascose,
Sotto lo strazio delle sanne loro
Trasser quell’egre a cui le membra han rose.
Genti che l’ombra de’ rei gigli d’oro
Vasta ricopre, e a cui soccorso è fido
L’avara che di Cristo fa tesoro.
Quelle m’han chiuso il mio diletto nido,
Perchè a svelar l’insidïosa guerra
Levai primiero arditamente il grido.
Di stagione in stagion, di terra in terra,
Me, me, senza conforto altro che l’arte
Ond’io pur tutto non andrò sotterra,
Me poco tetto mendicando e parte
Scarsa d’amaro pan, stanco, fugace
Manda la guelfa generosa parte.
E fora in prima di pietà capace
Alma, cred’io, d’ircana tigre o d’angue;
Chè il guelfo vincitor, lupo rapace.
In cui l’ingorda voglia mai non langue,
Dà nell’aver di piglio... All’improvviso
Sclamò ’l romito: e il ghibellin nel sangue .
Dante ristette e, lui guatando fiso,
Disse: Che parli tu? Frate, chi sei?
Ma il vecchierel, già ricomposto in viso,
Di subito a dir prese: Io non saprei
Qual altra, o signor mio, più di tua vista
Giugner cara potesse agli occhi miei.
Ch’or del gran carme tuo pasco la trista
Anima, e piango con la gente umile
Che il ciel sospira e il ciel penando acquista.
Volea più dir, ma del novello stile
L’alto maestro, le severe gote
Alquanto raddolcendo: Alma gentile,
Se a fidanza allettar fidanza puote,
Prego che a me significar ti piaccia
Donde e perchè quelle sdegnose note.
E l’altro: Indarno uom rinnovar procaccia
Se stesso tutto quanto; in lui l’antico
Uom vive, e sempre non avvien ch’ei taccia.
Non ti maravigliar di quel ch’io dico;
Io mi son tal che non avria sofferto
In pace un tempo il tuo parlar nimico.
Ma il celeste favor, gli anni e il deserto
Di tanto questo cor disacerbaro
Che, in pria che sappi come scusa io merto,
Perdon ti chieggio di quel detto amaro:
E poichè udir di qual fiamma procede
Questa favilla, come par, t’è caro,
Sì m’aggrada il rispondere a tua fede,
E sì d’incomparabile martìre
Trovar mi giova in alto cor mercede
Ch’io volentier mi rendo al tuo desire.
E già ’l buon veglio, a cui dolenti stille
Velarono le luci, era il sul dire,
Quando s’udì la voce delle squille
Che a sera invita a salutar Maria;
Ed amendue chinando le pupille
S’agginocchiaro in mezzo della via.
Canto secondo
Datasi al fin delle parole sante
Mutua salute, per l’orme segnate
In verso la badia mosser le piante.
Il poeta gentil, cui di pietate
Subito parve intenerirsi il volto,
Porgea l’orecchio desioso al frate.
Ma questi, a viso chino e in sè raccolto,
Taciturno venia, quasi repente
Altrove avesse ogni pensier rivolto.
Quale è colui che a ceneri già spente
Sovra por crede in securtà le dita
E da supposta brace arder si sente;
Per simil guisa il povero eremita,
In cui da lungo e queto volver d’anni
L’acerba rimembranza era sopita,
Come prima narrar volle suoi danni,
Tutta nel cor, che si parea già scarco,
Sentì la piena degli antichi affanni.
Al fin per gli occhi il doloroso incarco
Traboccò quell’oppressa anima; e ’l pianto
Ad un lungo sospiro aperse il varco.
Egli alle guance allor l’ispido manto
Recossi, in atto che dicea: Perdona;
E cominciò con fioca voce intanto:
Colà ov’Adda il bel lago abbandona
Per lo cui mezzo nel suo corso è tratta
E dell’onda del Brembo ancor non suona,
D’antica gente e per ingegno fatta
Lieta d’auro e di campi io nato fui:
Degli Angiolini s’appellò mia schiatta.
Una stirpe superba e grave altrui,
Detta i Ronchi, albergava indi vicino,
Pari di stato ed avversaria a nui.
Brivio la nostra si chiamò, Caprino
L’avversa terra ha nome; ambo comprese
Nella fertil vallea di San Martino.
Poscia che a’ nostri cor l’ira s’apprese
Che dagli alpini termini a Peloro
Arde miseramente il bel paese,
Pe’ ghibellini parteggiâr coloro,
Pe’ guelfi noi: la popolosa valle
Parte a noi fu seguace, e parte a loro.
Spesso con man d’armigeri alle spalle
Quinci e quindi movemmo, e i ferri acuti
Menammo sì che ne fu rosso il calle.
Ma come fummo in sul cader venuti
Del travagliato secolo, a tal crebbe
Quell’ira in noi, ne’ fidi nostri aiuti,
Che mal tutte narrar lingua saprebbe
Quante e quai fur le sanguinose gare,
A cui nulla fra noi modo più s’ebbe:
Era questo gentil tempo che pare
Di nova gioventù ridan le cose
E tutte amando invitino ad amare;
Quando l’odio crudel l’arti nascose
Contra me volse, e miserabil segno
Di quanto ei possa in uman cor, mi pose.
Me di due figli il ciel fatto avea degno:
Un giovinetto a cui di casto amore
Da sei lune era dato il primo pegno,
E una donzella a lui d’anni minore,
Leggiadra, che cred’io non invermiglia
Gote più belle il verginal pudore.
Raniero, padre dell’ostil famiglia,
Cresciuto avea fra numerosa prole
Un orfanel che nacque di sua figlia.
In quell’età che a dolci affetti suole
L’anima aprirsi e in avvenenti spoglie
Non vide ingegno più ferace il Sole;
Tutte il garzon le scellerate voglie
Sempr’ebbe a danno ed a ruina intente
Di me, de’ miei, di mie paterne soglie.
Ma perchè a guardia continuamente
Del castel vigilavano e di noi
Eletto stuol di mia privata gente,
Visti indarno oggimai gl’impeti suoi,
Ecco qual fe’ disegno empio, nefando,
Se ridir tel poss’io, se udir tu il puoi.
In cotal guisa il monaco narrando
E tra per gli anni e pel crudel pensiero
Tacendosi affannato a quando a quando,
Giunsero al limitar del monistero,
E quivi, lungo le sacrate mura,
Sovra marmoreo scanno ambi siedero,
Sorgea l’astro che molce ogni sventura
E specchiavasi allor tutto nel fonte
Della luce che informa la natura.
Fra gli ardui pini onde il ciglion del monte
Sta foscamente incoronato e cinto
Già trasparia la luminosa fronte.
Dell’alta solitudin, dell’estinto
Giorno i silenzi interrompea d’un fiume
Il cader lontanissimo, indistinto.
Vorace augello, con le negre piume
Ferme al petroso nido, attraversava
L’aere non tocco dal crescente lume,
Rada nebbia dall’imo si levava,
Che, giunta ove percossa era dal raggio,
Biancheggiando per ciel si dileguava.
Al suol s’affise l’eremita; e il saggio
Gli occhi levò pensosamente mesti
Del bel pianeta al tacito viaggio.
Poi l’altro proseguì: Sappi che questi
(lo cui nome esecrabile fu Gerra),
O sia mercè di simulate vesti,
O d’incognito calle di sotterra,
O di vil traditor che a lui sovvenne,
Furtivamente penetrò mia terra.
Audace intorno al fido albergo ei venne
E, non visto, a cangiar guardi e parole
Con l’innocente figlia mia pervenne.
Furon le chete mura e l’ombre sole
Testimoni dell’arti onde colui,
Qual da malvagio ingannator si suole,
Compose i detti ed i sembianti sui.
Lasso! io questo ben so, che il vergin petto
Di miserabil fiamma arse per lui.
Da quella tigre in mansueto aspetto
Fors’anco alla meschina in cor fu posto
(Che non crede fanciulla al suo diletto?)
Come ambeduo le genti, non sì tosto
Lor nodo marital fosse palese,
Avria le sanguinose ire deposto.
La poverella mia, senza difese
Contro forza d’amore e di pietade,
Ella che sempre a comun pace intese,
Ella nel fior della ridente etade,
Ella che nova in tutto si rimase
Del falso mondo e di sue torte strade,
Dal menzogner che sì la persuase,
Tutta rapita in sua dolce speranza,
Trar si lasciò delle paterne case.
Pensa quand’io, per amorosa usanza
Nè presago in mio cor di nostro danno,
Riposi il piè nella deserta stanza!
Che val ch’io dica lo stupor, l’affanno
E l’inchiedere e ’l correre e ’l chiamare,
Di sventura temendo e non d’inganno?
Cerchiam tutti il castello; e quando pare
Che quivi nulla omai speme rimagna
Di riscontrar quelle sembianze care,
Io forsennato e il più della compagna
Gente, di tutto obliviosi allora,
Fuori ci disperdiam per la campagna.
Ahi ch’era questa la terribil ora
Apparecchiata dalle inique frodi!
Chè i Ronchi dell’agguato uscendo fuora,
Visto libero il varco e sì di prodi
Scema la terra, dentro s’avventaro,
Come lupi in ovil senza custodi.
Al subito furor nullo riparo:
Primo Ranier, non più degli anni afflitto,
Brandia con polso giovanil l’acciaro,
Baldo, il mio figlio, già nell’arme invitto
Che pronto accorse al mal guardato loco,
Da cento colpi vi restò trafitto.
Di faci armata e di coltelli, in poco
D’ora la turba furiosa orrendo
Fe’ di strage il terren, l’aere di foco.
Sul minacciato limitar correndo
Intanto a quello strepito feroce
E le man supplichevoli stendendo,
Del mio Baldo la sposa, ad alta voce
Lui richiamava dal mortal periglio,
Quand’ecco dall’albergo uscir veloce,
Col ferro in man, con affocato ciglio,
Il trionfante Gerra, che pel collo
Afferrandola, grida: Ov’è ’l tuo figlio?
Ove si cela il novellin rampollo
Di quest’arbore illustre? Assai già spazio
Corsi tue case, ed or da te saprollo,
La donna esterrefatta a tanto strazio,
Udito il vano suo cercar, d’un riso
Lampeggiando, sclamò: Dio ti ringrazio.
D’ira a que’ detti sfavillante in viso
Lo scellerato del pugnal le diede,
E a lei mostrollo di suo sangue intriso.
Parla, il fero le dice: ed ella vede
Quel sangue e non fa motto; ei dell’acuta
Punta più crudamente il sen le fiede.
Parla, che vita e libertà renduta
Ti fia, soggiunse con dolcezza accorta;
Ma quella bocca, come pria, fu muta.
L’empio, cui rabbia furial trasporta,
Vibrò gran colpo; e l’animosa e pia
Cadde fra cento morti corpi morta.
Io, che la valle discorrendo gia
In traccia della figlia, ed ahi! pur molta
Già reputando la sventura mia,
Incontro a me per una selva folta
Alcun velocemente venir sento,
A cui, Sosta, diss’io, sosta ed ascolta.
Parvemi Gerra, che passò qual vento;
Tal che in maggior sospetto oltre più corsi,
Fin ch’agli orecchi miei giunse un lamento.
I passi là, precipitando torsi
Ed ahi! su l’erbe, che allagava un rio
Del sangue suo, quella infelice io scorsi.
Mezza di sè già fuor, me non udio
La moribonda, che fra dolci lai,
Che t’ho fatt’io, dicea, che t’ho fatt’io?
Or m’uccidesti tu perch’io t’amai?
Ah qual crudel, qual barbaro t’ha ucciso,
O mia Bianca, o mia vita? allor sclamai.
Lentamente si volse e il guardo fiso
Ella alcun tempo in me tenne a quel suono,
Poscia ad un tratto si coperse il viso,
Padre mio, padre mio, disse, perdono!
Il rimembrar di me deh non ti gravi,
Ch’io fui tradita, ed innocente io sono!
Ahi! Gerra al certo, ahi! che tu Gerra amavi,
Dissi, e quell’empio... Ed ella: Il tuo furore
Sovr’esso, padre mio, deh non s’aggravi!
Ch’io gli perdono: E in questo dir, sul core
La man fredda posando, nel mio seno
Il debil suo capo abbandona e muore.
Io, che sentii me tutto venir meno,
Lena cercai nell’angoscioso petto
Tanta che a’ miei mi riducessi almeno.
Oh quante volte il mio figliuol diletto
Tra via chiamo per nome, e nelle care
Braccia da lungi col pensier mi getto!
Quando, giunto anelante in su l’entrare
Della mia terra dimandando aita,
Quel fero universal scempio m’appare!
S’ivi morto non caddi, l’infinita
Pietade i falli miei sì gravi e tanti
A terger nel dolor mi tenne in vita.
Per mezzo le ruine arse e fumanti
Vidi Nastagio, il mio buon servo antico,
Mal vivo strascinarmisi davanti.
Quel tristo avanzo del furor nimico
Narrommi le vedute atroci cose
Con duol di padre e con pietà d’amico.
Qual chi a dura novella il cor dispose
Pur sente innanzi alla risposta un gelo,
Io del fanciul l’inchiesi; ei non rispose.
Allor vid’io, quasi al cader d’un velo,
Per me il mondo una selva orrida e sola,
E volsi l’alma spaventata al cielo.
Qui l’affannoso duol nodo a la gola
Fe’ del monaco sì che muta indietro
Gli tornò fra i singulti la parola.
Una voce in quel punto a lento metro
Laude intonò nel vicin tempio a Dio,
E più voci le tennero poi dietro.
Egli, a Dante con man dicendo addio,
Com’uom, se nova e maggior cura il tocchi,
Tacito e ratto quindi si partio.
Pietosamente seguitò con gli occhi
Dante il misero veglio; indi alle braccia
Facendosi puntel d’ambe i ginocchi
Chiuse nel vano della man la faccia.
Canto terzo
Era già ’l carro della notte al punto
Che l’ore fosche in duo parte ugualmente,
E l’astro che le inalba al sommo giunto,
Quando il poeta sollevò la mente
Gravata, e volse nubiloso il guardo,
Qual chi di buio loco esca repente.
Ed ecco passeggiar pensoso e tardo
A lui dinanzi un cavaliero armato
Di statura e di membra alto e gagliardo.
Però lungi un destriero affaticato,
Con le redini sciolte, la digiuna
Bocca movea pel rugiadoso prato.
Levava il cavalier gli occhi alla bruna
Muraglia venerabile che a stento
Ridea del pieno lume della luna.
A quando a quando il piè sostava, intento
Ad ascoltar del solitario e fioco
Passere della torre alta il lamento.
Com’ebbe errato in cotal guisa un poco
Vide che l’altro i lenti passi sui
Con lo sguardo seguia di loco in loco.
Allor, traendo riverente a lui,
Signor, gli disse, benchè fatto io degno
A vederti da presso unqua non fui,
Tu se’ certo il cantor del trino regno,
Tu lo spirto magnanimo e sovrano
Cui, quasi cervo a puro fonte, io vegno.
Castruccio mi son io che, il suol toscano
Varcato e ’l giogo d’Appennin, cercando
Per occulti consigli a mano a mano
Tutti i miglior di nostra parte, quando
Testè in Agobbio da Bosone appresi
Che ricovrarti a questo venerando
Ermo ti piacque, il sacro monte ascesi,
E per lo patrio amor prego mi sieno
In te labbia ed orecchie al par cortesi.
Dante, che al nome di colui che il freno
Regge di Lucca, e vincitor possiede
Fra Serchio e Magra ’l monte ed il Tirreno,
Surto era già maravigliando in piede,
Rispose: O duce, in te di forti e chiare
Opre è riposta omai tutta mia fede.
E, sì dicendo, parvesi avvivare
D’una gioia simile a debil raggio
Che fuor da rotti nugoli traspare.
Castruccio a lui subitamente: O saggio,
E tu dammi virtù, dammi possanza,
Chè del pari è mestier senno e coraggio.
E ch’altro a noi, fuor che noi stessi, avanza?
Quale oggimai nell’alemanno aiuto
E in due mal fermi cesari speranza,
I quai, mentre ciascun del combattuto
Dïadema spogliar l’altro sol cura,
Fan d’Italia infelice ambi rifiuto?
Dante allor: Nostra colpa, e non ventura,
La tanto lacrimata alba allontana
Di questa notte dolorosa e scura.
E qual dà pegno all’anima germana
Questa che sotto al suo vessil s’accoglie
Gente discorde, ambizïosa e vana?
Malvagi son le cui rapaci voglie
Di patria carità velo si fenno,
Poma corrotte sotto verdi foglie;
O stolti, che si aggirano ad un cenno,
Solo a levar tumulto e a creder presti
Menzogna il vero, e tradimento il senno.
Da questi la vergogna, il mal da questi
Contaminati germi si produce,
Nè degno è ch’altri a noi soccorso appresti.
Ahi che al vero il tuo dir, soggiunse il duce,
Consuona tal che nulla altra cagione
Così peregrinando mi conduce!
Sappi che, poichè a me lunga stagione
Svelate d’ogni danno ebbe le fonti
Là dove il dritto tuo veder le pone,
Alti disegni io fra me volsi, e conti
Quelli poi feci a’ duo maggior Lombardi
Lo Scaligero Cane e il gran Visconti.
Piaccion gagliarde imprese a cor gagliardi:
Onde que’ prodi non mi fur di loro
Consentimento nè dell’opra tardi.
Per mutua fede si legar costoro
Celatamente, e a me giuraron patto
Di bellicose genti e di tesoro.
Poi ciascun d’essi ogni pensiero, ogni atto
E quella che il poter, l’ingegno e l’arte
Somma ad entrambi autoritade han fatto
Tutta converse in ricompor le sparse
Voglie e quetar l’invide gare e gli odi
Fra l’altre signorie di nostra parte:
E quelle, forti de’ ristretti nodi,
Quasi a ceppo comun ramose braccia,
A sè congiunse per diversi modi.
Sebben fortuna ad amendue me faccia
Ancor secondo di possanza e gloria,
Nè l’ala a simil vol ben si confaccia,
Pur la recente di quel dì memoria,
Quando per me Montecatin sentio,
Tanto grido levarsi di vittoria,
Merito e grazia m’acquistò tal ch’io
Quanto per loro oprar là si dispose,
Fede ho qua giù di conseguir pel mio.
Come verrà (questo ad ogni uom s’ascose,
Ed or tu, per altezza d’intelletto,
Quarto sarai nelle segrete cose),
Come verrà che all’arduo mio concetto
Io giunga e veggia di cotal semenza
Tempo a cogliere omai quel che m’aspetto,
Subitamente e fuor d’ogni credenza
Muoverò l’arme impetuoso, e mia
Sarà prima Pistoia e poi Fiorenza.
Segnale a Cane ed a Matteo ciò fia :
Allor contra colui, di guerra esperto
Men che d’ogni arte frodolente e ria,
Contra il guelfo maggior, contra Roberto,
Tutti, in un punto, di ciascun paese
Trarrem precipitosi a viso aperto.
Segno a cotante e non pensate offese
Mal starà fermo quel superbo in campo,
Cui l’odio occulto si farà palese.
Che se muova Filippo indi al suo campo...
Dante racceso negli affetti suoi,
Qui fia cesare, disse, a fargli inciampo.
Cesare? or quale? a lui Castruccio; e poi:
No, l’un l’altro fra lor struggansi intanto;
A noi guardia fia l’alpe, e all’alpe noi.
Non sì tosto ebbe detto che del santo
Ostel s’aperse lentamente il fosco
Uscio, donde fuor venne in sacro manto
Un che disse: Fratei, pace sia vosco.
Poi mosse ad una croce, ivi sorgente
In su l’entrar del tortuoso bosco.
Allor que’ duo, già vinti da un’ ardente
Brama di ragionar libero e chiaro,
Pieni amendue d’alto pensier la mente,
Pel selvaggio cammin si dilungaro.
Canto quarto
Facean ritorno al solitario albergo
Mentre sul balzo orïental parea
Quella che ha l’ombre innanzi e il sole a tergo.
Lieto Castruccio all’Alighier dicea:
Del ciel fu raggio quel pensier che in prima
Tua sapienza ricercar mi fea.
In me sì largamente dalla cima
Dell’intelletto tuo luce discese
Che mia speranza omai cerca s’estima,
Magnanimo signor, Dante riprese,
A’ gran disegni tuoi contro non mova
Quell’avversaria delle sante imprese,
O alquanto il ciel della sua grazia piova,
E qui le genti per età lontane
Il nome tuo benediranno a prova.
Quando grave una voce: O menti umane,
Voi nel tempo futuro edificate,
Nè certo fondamento è la dimane!
L’un ver l’altro, a quel suon, maravigliate
Volser le ciglia e tacquero e fer sosta,
Prestando orecchio il cavaliero e ’l vate.
Quella continuò: Cangia proposta
Tu che la speme a tanto ergi secura;
Troppo da lungi la gran meta è posta.
Oh quanta etade io passar veggio oscura
E calda ancor di civil odio insano
Su la tua derelitta sepoltura!
Ecco più caro secolo ed umano,
Ecco più degna ai cor fiamma s’apprende,
Ecco uscire un guerrier di Vaticano.
Per quanto Italia si dilata e stende
Bramoso dal Tarpeo lo sguardo ei volve,
Poi d’arte armato e di valor giù scende,
Ma un’ ombra che nel gran manto s’involve
A mezzo il corso trionfal l’arresta.
L’opra dell’empio innanzi sera è polve!
Tacque; e i duo che venian per la foresta,
Giunti colà donde quel suon procede,
Parean tacendo dir: Che cosa è questa?
Videro allor dell’alta croce al piede
Il fraticel che in pria pace lor disse,
D’un incognito ardor che lo possiede
Acceso in volto venerando, e fisse
In alto le pupille, immoto starsi,
Qual se parlar l’Onnipossente udisse.
Intanto, alla sua voce, ecco gli sparsi
Accorrer consapevoli fratelli
E quivi intorno a lui tutti affollarsi.
Uscendo il buon rettor di mezzo ad elli,
Mira, o Dante gridò, come il ciel pregia
Gli umili spirti e si compiace in quelli!
Questo santo romito, a cui non fregia
Altro che fede e carità la mente,
Spesso dell’avvenir Dio privilegia.
E se vicina allor cosa o presente
D’una secreta sua virtù lo sproni,
Ivi spande il profetico torrente.
O dolce padre che colà ragioni,
Ripigliò l’ispirato, a tal che fia
Tra breve un nome che in eterno suoni,
Vien’ qua, vien’ qua, che per la lingua mia
Al penitente tuo viver votivo
Conforto il ciel non aspettato invia.
Quel pargoletto che di vita privo
Piangi, mercè della fedel nutrice
(Sappilo e godi e Dio ringrazia) è vivo.
Fia di casta donzella oggi felice,
Che, spente l’ire, i tuoi nimici a lui
Disposeranno: e di cotal radice
Verrà pianta onde fia germe colui
Che, dopo cinque secoli, di questa
Notte dirà con non vil carme altrui.
Oh come il veggio, oh come manifesta
M’è nel cospetto quell’età sì tarda!
Oh quanta un vivo Sol luce le presta!
Un Sol, cui stupefatto il mondo guarda,
Tutta di bel disio, tutta di speme
Fa che la gente si ravvivi ed arda.
Qui ferve, dopo lui, più largo seme
Di gentilezza, di saver, d’onore,
E d’agghiacciati venti ira non teme.
Qui tien mansuetudine ogni core,
Dolce negli atti e ne’ sembianti amica,
E parla caritade e spira amore,
Ma fortuna vegg’ io, sempre nimica,
Che dentro le molli anime allenti
Il santo ardor della gran fiamma antica.
Del fior vegg’ io delle novelle menti
Poche seguir quel benedetto raggio
Sol per cui si rallignano le genti.
Altri l’intera dell’uman legnaggio
Felicitate di lontan saluta,
E per lei vagheggiar torce il vïaggio.
Parte, anelando all’arduo ver, perduta
Sovra l’ali fantastiche la traccia,
Torna di nebulose aure pasciuta.
Parte gl’ingegni d’allettar procaccia
Dietro all’arte che il Figlio di Maria
Sgombrò dal tempio, divampando in faccia.
O intenzïon, forse benigna e pia,
Indarno, indarno che riesca aspetti
A meta liberal cupida via.
Rendete il vital cibo agl’intelletti,
Non ismarrite la verace stella,
Rinnovellate di fortezza i petti.
Ve’ come sorge maestosa e bella
Più da lungi una donna che con voce
Formidabile esclama: Ancor son quella!
E cinta di virtude ecco un feroce
Con la destra rispinge ingordo mostro,
Con la sinistra man leva una croce.
O immortal segno del trionfo nostro,
Lume su l’onde tempestose immoto,
Io ti veggio, io t’inchino, io mi ti prostro.
E ginocchion gettandosi devoto,
Con la faccia che a un tratto discolora,
Cadde in su l’erbe senza senso e moto.
Alto un silenzio, un meditar che adora
Le arcane vie di Lui che sè consiglia,
Seguì d’intorno a quel giacente allora.
Di gioia il duce della pia famiglia
Bagna le guance: l’Alighieri atterra
Castruccio tien nell’Alighier le ciglia.
Aura consolatrice della terra
Piovuta all’ime valli era da’ monti
La pura luce che i color disserra.
Già percotea quelle pensose fronti
Il Sol, che omai l’ispide cime avanza,
E co’ suoi raggi, di letizia fonti,
Giù discender parean lena e speranza.
Fine