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Giovanni Pascoli
Solon
Triste il convito senza canto, come
tempio senza votivo oro di doni;
chè questo è bello: attendere al cantore
che nella voce ha l’eco dell’Ignoto.
Oh! nulla, io dico, è bello più, che udire
un buon cantore, placidi, seduti
l’un presso l’altro, avanti mense piene
di pani biondi e di fumanti carni
mentre il fanciullo dal cratere attinge
vino, e lo porta e versa nelle coppe;
e dire in tanto grazïosi detti,
mentre la cetra inalza il suo sacro inno;
o dell’auleta querulo, che piange,
godere, poi che ti si muta in cuore
il suo dolore in tua felicità.
— Solon, dicesti un giorno tu: Beato
chi ama, chi cavalli ha solidunghi,
cani da preda, un ospite lontano.
Ora te nè lontano ospite giova
nè, già vecchio, i bei cani nè cavalli
di solid’unghia, nè l’amore, o savio.
Te la coppa ora giova: ora tu lodi
più vecchio il vino e più novello il canto.
E novelle al Pireo, con la bonaccia
prima e co’ primi stormi, due canzoni
oltremarine giunsero. Le reca
una donna d’Eresso — Apri: rispose;
alla rondine, o Phoco, apri la porta —
Erano le Anthesterïe: s’apriva
il fumeo doglio e si saggiava il vino.
Entrò, col lume della primavera
e con l’alito salso dell’Egeo,
la cantatrice. Ella sapea due canti:
l’uno, d’amore, l’altro era di morte.
Entrò pensosa; e Phoco le porgeva
uno sgabello d’auree borchie ornato
ed una coppa. Ella sedè, reggendo
la risonante pèctide; ne strinse
tacita intorno ai còllabi le corde;
tentò le corde fremebonde, e disse:
Splende al plenilunïo l’orto; il melo
trema appena d’un tremolio d’argento...
Nei lontani monti color di cielo
sibila il vento.
Mugghia il vento, strepita tra le forre,
su le quercie gettati... Il mio non sembra
che un tremore, ma è l’amore, e corre,
spossa le membra!
M’è lontano dalle ricciute chiome,
quanto il sole; sì, ma mi giunge al cuore,
come il sole: bello, ma bello come
sole che muore.
Dileguare! e altro non voglio: voglio
farmi chiarità che da lui si effonda.
Scoglio estremo della gran luce, scoglio
su la grande onda,
dolce è da te scendere dove è pace:
scende il sole nell’infinito mare;
trema e scende la chiarità seguace
crepuscolare.
La Morte è questa! il vecchio esclamò. Questo,
ella rispose, è, ospite, l’Amore.
Tentò le corde fremebonde, e disse:
Togli il pianto. È colpa! Sei del poeta
nella casa, tu. Chi dirà che fui?
Piangi il morto atleta: beltà d’atleta
muore con lui.
Muore la virtù dell’eroe che il cocchio
spinge urlando tra le nemiche schiere;
muore il seno, sì, di Rhodòpi, l’occhio
del timoniere;
ma non muore il canto che tra il tintinno
della pèctide apre il candor dell’ale.
E il poeta fin che non muoia l’inno,
vive, immortale,
poi che l’inno (diano le rosee dita
pace al peplo, a noi non s’addice il lutto)
è la nostra forza e beltà, la vita,
l’anima, tutto.
E chi voglia me rivedere, tocchi
queste corde, canti un mio canto: in quella,
tutta rose rimireranno gli occhi
Saffo la bella.
Questo era il canto della Morte; e il vecchio
Solon qui disse: Ch’io l’impari, e muoia.
Poemi conviviali