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Giovanni Rosini
Fedra
POEMETTO
DEL MEDESIMO
Chi dal sonno mi desta? e chi le corde
Percuote in suon che flebile sospira?
Odo allungarsi un gemito discorde
Simile al vento che nel bosco spira;
E chi sei tu che dalle rive sorde
Alla pietà, che pur tra noi s’aggira,
In questa solitudine tacente
Lamentosa ne vieni ombra dolente?
Perchè sospiri e da me torci i lumi,
E il sen ti scuopri e mostri al collo il laccio?
Fedra sei tu, che rio voler di Numi
Spinse di morte obbrobrìosa in braccio?....
Sì quella io son, nè già cambiai costumi
Se nel regno dell’ombre io peno e taccio;
Di Venere il furor che mi divora
Arder mi sforza oltra la tomba ancora.
Saprai tu già, che non si tacque il grido
Per l’Argive e per l’Itale contrade,
Com’io sposo una volta a Teseo infido,
Infida ardea per giovanil beltade,
Beltà che appena sul Trezenio lido
Nel fior là scorsi della bionda etade,
Preda rimasi de’ begli occhi sui,
Nè il figlio di Teseo conobbi in lui.
Tardi il conobbi, e della Cipria Dea
L’ira m’apparve nella fiamma impura,
E in cor col foco orribile facea
Misero gioco di crudel ventura;
Ma non si soffocò la vampa rea,
Crebbe cogli anni, e non cangiò natura,
Più nol vidi, nè il nome io pur n’udìa,
Ma quel nome purtroppo in cor sentìa.
Per me allor di madrigna odio si finse,
Ed ei n’andò dove guidollo il fato;
Ma l’indomito ardor già non s’estinse,
Qui, dicea, si fermò, qui m’ha parlato,
Con tenera pietà qui al sen mi strinse,
Qui tacque e qui rivolse il viso amato,
E fino per crudel nefando eccesso
Ippolito vedea nel padre istesso.
Alfin tornò: terribil giorno e reo!
E a me notte non surse innanzi sera?
Che non avrebbe il figlio di Teseo
Visto di Teseo l’infedel mogliera;
Ma il vidi, e tal che tutto in cor mi feo
Sorger l’incendio con la fiamma intera,
Ah! pur se a me trar lo volesse, o Dei,
Perchè parve sì caro agli occhi miei?
Da quel dì crude angosce, orridi affanni
Crebbero e sdegni e lagrime dirotte;
Sfogando il duol con innocenti inganni
Notte al giorno chiedea, giorno alla notte;
E carca e sazia di sventure e di anni
Chiamai l’orror de le tartaree grotte,
E strinsi un ferro, ma un altro infelice
M’aperse al guardo della mia nudrice.
Conobbe il tristo fato, e nel mio petto
Vide l’orrendo inusitato ardore,
Pur men crudo sperando il giovinetto
Dolce lusinga m’instillò nel core,
E Teseo intanto fuor del patrio tetto
Estinto divulgò credulo errore,
Crebbe allor la speranza e mi sostenne
Quando il figlio l’annunzio a dar mi venne.
Piangente mi trovò, nè già quel pianto
Versava all’ombra dell’estinto sposo;
Ei mi consola, e la sua voce intanto
Suonò sì dolce nel mio cor doglioso,
Che per un lembo l’afferrai del manto,
E coprendomi il volto lacrimoso,
No che morto non è Teseo gridai,
Sempre Ippolito in te, sempre il trovai!
Io lo vedo, io gli parlo e il cor.... ma oh Dio
Lassa! che ti disvelo un folle ardore....
Ben t’intendo, diss’ei, pel padre mio
Viva è la fiamma che t’accese il core....
Viva sì l’interruppi, e tal ci unìo
Che l’amo ancor nel sempiterno orrore,
Giovin.... leggiadro.... come son gli Dei....
O come ora presente a me tu sei.
Tal era allor quando all’ardita impresa
Degli Eroi sulla prora a Creta giunse,
Perchè compagno alla fatal contesa
Troppo giovine ancor te non aggiunse?
Fedra sola con te farìa discesa
Ove il fil d’Arianna il ricongiunse,
Si farìa d’Arianna allor la suora
O con te ritrovata o persa ancora.
Donna, arrossendo nel gentil sembiante,
Sei dimentica, disse, a lui ch’è morto
Qual esser devi e qual tu fosti innante?
E tu, ripresi, or non mi danni a torto?
Ond’ei: perdona ah! m’ingannò l’istante,
Ma i tuoi sguardi, i tuoi detti, il tuo trasporto....
Mal conoscere il duol certo mi festi,
Addio.... ferma che già troppo intendesti.
Sì, che assai ti diss’io, conosci il diro
Furor di Citerea che m’ange il seno;
Nè innocente mi credo, e tutte spiro
Le vampe in me del più feral veleno;
M’odio più che non t’amo, e se un sospiro
Dal cor mi fugge ch’è di te sol pieno,
Quel sospiro m’è morte, e morte intanto
Trovar non seppi, e l’invocai col pianto.
Ti fuggi, ti cacciai, madrigna invano
Ti parvi, i mali tuoi crebbero i miei,
E a tal giunse il crudel fato inumano
Che innocente non più morir potei.
Qui tacqui, e al ferro già correa la mano
Che sì lenta al ferir non la credei;
Ei mel tolse e fuggì, corsi e gridai,
Ma Teseo sulla soglia io rincontrai.
Pensa qual fossi allor, qual mi comparve
Lo sposo, e qual divenni all’improvviso,
Giuoco il credei di tenebrose larve,
E stetti e tacqui e fei di fiamma il viso;
Ma torva intanto la nudrice apparve
E Ippolito accusò, col cor diviso
Difenderlo non seppi, o nol voll’io,
Ei vindice chiamò dell’onde il Dio.
Com’io caddi tu il sai, sai di qual morte,
Onde pianse Trezene il giorno istesso,
Ma tu cui diede il ciel schiuder le porte
Della memoria sovra il bel Permesso,
Tu d’Ippolito mio dimmi la sorte,
Se d’udirla gli Dei m’han pur concesso,
Chè nella notte ove finor mi vidi
Nuova non giunge da’ beati lidi.
Donna cadesti appena, ed ei dal padre
Abominato ed esule sen gìa:
Sul cocchio assiso con amiche squadre
Prese il sentier dell’Epidauria via;
Squallide eran le sue forme leggiadre,
Parlar non già ma sospirar s’udìa,
Cedenti dalle man le briglie al morso
De’ cavalli ondeggiavano sul dorso.
Non le cupide nari aprìano al vento,
Nè battean le sonanti unghie sul suolo,
Ma imitavan con passo tardo e lento
Dell’amato signor l’angoscia e il duolo;
Quand’ecco uscir dall’umido elemento
Orrido un mugghio e rintronante il polo,
Gonfiansi l’onde e si raddoppia il grido,
Ed ecco un tauro grandeggiar sul lido.
Con quattro corna alto minaccia e schiude
Gran fauci armate di ritorti denti;
Di squamme ha il tergo maculato e crude
Schizzano fiamme le pupille ardenti;
Densa notte lo segue e intorno il chiude
Al carro incontro ed a’ corsier fuggenti,
Dalle squamme percossa al ciel va l’onda,
E d’orribili grida empie la sponda.
Invan l’Eroe stringe le briglie e infrena
Gli anelanti cornipedi feroci,
Che or la testa rizzando ed or la schiena
Spaventati si slanciano e veloci
Fuor di sentier per l’Epidaura arena
Fatti sordi alla man, sordi alle voci
Già un sasso il cocchio col timon percuote,
E infranto l’asse ne schizzar le ruote.
Agilissimo Ippolito dall’alto
Colle redini in man balzando cade,
Mal per la fretta misurando il salto
S’avviluppa alle briglie e il cocchio rade;
Doppian la foga i corridori e all’alto
Colle s’avvian per le dumose strade,
Ei capovolto delle briglie ai nodi
Strascinato morìa.... ma tu non m’odi?
E getti il velo sulla faccia e vai
Piangendo ai lidi ove non splende il sole?
Deh taci o donna lacrimasti assai
Misera più che immaginar si suole;
Nè invan oggi per te forse donai
Pietoso a’ mali tuoi carmi e parole,
E sparger qualche lacrima d’affanno
I posteri per te forse sapranno.
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