Edizione Italiana
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    Giovanni Verga

    I dintorni di Milano

    L’impressione che si riceve dall’aspetto del paesaggio prima d’arrivare a Milano, per quaranta o cinquanta chilometri di ferrovia, è malinconica. La pianura vi fugge dinanzi verso un orizzonte vago, segnato da interminabili file di gelsi e di olmi scapitozzati, uniformi, che non finiscono mai; cogli stessi fossati diritti fra due file di alberelli, colle medesime cascine sull’orlo della strada, in mezzo al verde pallido delle praterie. Verso sera, allorché sorge la nebbia, il sole tramonta senza pompa, e il paesaggio si vela di tristezza.

    D’inverno un immenso strato di neve a perdita di vista, costantemente rigato da sterminate file d’alberi nudi, tirate colla lenza, a diritta, a sinistra, dappertutto, sino a perdersi nella nebbia. Di tratto in tratto, al fischio improvviso della macchina, vi si affaccia allo sportello, e scappa come una visione un campanile di mattoni, un fienile isolato e solitario. Sicché finalmente appena nella sconfinata pianura bianca, fra tutte quelle linee uniformi, vi appare del cielo smorto la guglia bianca del Duomo, il vostro pensiero si rifugia frettoloso nella vita allegra della grande città, in mezzo alla folla che si pigia sui marciapiedi, davanti ai negozi risplendenti di gas, sotto la tettoia sonora della Galleria, nella luce elettrica del Gnocchi, nella fantasmagoria di uno spettacolo alla Scala, dove sboccia come in una serra calda la festa della luce, dei colori e delle belle donne.

    I dintorni di Milano sono modellati sulle linee severe di questo paesaggio. Basta salire sul Duomo in un bel giorno di primavera per averne un’impressione complessiva. È un’impressione grandiosa ma calma. Al di là di quella vasta distesa di tetti e di campanili che vi circonda, tutta allo stesso livello, si spiega la pianura lombarda, di un verde tranquillo, spianata col cilindro, spartita colle seste, solcata da canali diritti, da strade più diritte ancora, da piantagioni segnate col filo, senza un’ondulazione di terreno e senza una linea capricciosa in gran parte. L’occhio la percorre tutta in un tratto sino alla cinta delle Alpi ed alle colline della Brianza. E se rimaneste un giorno intero lassù non ne avreste un’impressione nuova, né scoprireste un altro dettaglio. È la stessa cosa percorrendo i dintorni immediati della città. Sempre le stesse strade più o meno diritte, fiancheggiate dagli stessi alberi; il medesimo fossato da una parte, o il medesimo canale dall’altra, lo stesso muro grigio, rotto di tanto in tanto dal portone di una fabbrica, sormontato da un fumaiuolo nero che sporca il cielo azzurro, gli stessi orti chiusi tra filari di gelsi e divisi in scompartimenti di cavoli e lattughe senza mutar di prospettiva. Sicché la cosa più difficile per un viandante pare che dovrebbe essere di riconoscere la sua strada fra quelle altre cento strade che si somigliano tutte, e per un proprietario di ritrovare il suo podere fra tutti quei poderi fatti sul medesimo stampo.

    Nondimeno il milanese ha la passione della campagna. Bisogna vederlo a San Giorgio o in qualche altra festa campestre per farsene un’idea. Appena la stagione comincia a farsi mite e il ciglio dei fossati a verdeggiare, tutti corrono fuori del dazio, a godersi il verde sminuzzato a quadretti, e ad empirsi i polmoni di polvere. Codesto è il motivo di tante osterie di campagna, di tante isole, di tanti giardini piantati in botti da petrolio. Allora le strade melanconiche, i ciglioni intristiti, i quadrelli di verdura pallida formicolano di un’altra vita, risuonano di organetti, di chitarre, di allegria chiassosa e bonaria.

    L’uniformità del fondo dà alcunché di piccante alla varietà delle macchiette. Qui il paesaggio, in un orizzonte sconfinato, è circoscritto costantemente fra due file di alberi, lungo due muri polverosi, fra le sponde di un canale diritto, smorto, che sembra immobile, ombreggiato dacché spuntano i primi germogli sinché cadano le ultime foglie, e i raggi del sole non hanno più colori né festa. La mucca che leva il muso grondante d’acqua, un gruppo di contadine che lavorano nei campi, e mettono sul prato la nota gaia delle loro gonnelle rosse, la carretta che va lentamente per la stradicciuola, un desco zoppicante sotto il pergolato di un’osteria, coll’operaio in maniche di camicia, e la sua donna coi gomiti sulla tovaglia e gli occhi imbambolati, due cavalli da lavoro accanto a una carretta colle stanghe in aria, davanti a una porta chiusa, sono tutti i quadri della campagna milanese, su di un fondo uniforme. Lo spettacolo grandioso di un tramonto bisogna andare a vederlo in Piazza d’Armi, su quella bella spianata che corre dal Castello all’Arco del Sempione; e tuttavia l’effetto più grandioso gli viene dalle linee stupende del monumento, sul fondo opalino, e da quei cavalli di bronzo che si stampano come una visione del bello dell’arte, in alto, nella gloria degli ultimi raggi.

    Ma la ineffabile melanconia di quell’ora non l’ho mai provata come in una delle Certose dei dintorni di Milano. Colà, in mezzo a mirabili pagine d’arte, la luce muore nelle invetriate dipinte, vi sorprende uno strano sentimento della vanità dell’arte e della vita, un incubo del nulla che vi si stringe attorno da ogni parte, dalla campagna silenziosa e uniforme. Io non ho mai passata un’ora più tetra come quella che provai in uno di quei cortiletti di verdura cupa della Certosa di Pavia, chiusi fra quattro mura di cimitero, e allietati da quattro file di bosso, nel caldo meriggio d’aprile, in cui non si udiva il ronzare delle mosche.

    Di cotesta impressione alquanto melanconica del paesaggio milanese ne avete un effetto anche ai Giardini pubblici, dove mettendo sottosopra il tranquillo suolo lombardo sono riesciti a rendere un po’ del vario e pittoresco che è la bellezza della campagna. Il popolo però li ha cari, e nei giorni di festa e di sole ci reca in folla la sua allegria e la sua vita. Tutto ciò infine prova che Milano è la città più città d’Italia. Tutte le sue bellezze, tutte le sue attrattive sono nella sua vita gaia ed operosa, nel risultato della sua attività industre. Il più bel fiore di quella campagna ricca ma monotona è Milano; un prodotto in cui l’uomo ha fatto più della natura. Che importa a Milano se non ha che 3 o 400 metri di passeggiata, da Porta Venezia al ponte della via Principe Umberto? I suoi equipaggi non sono splendidi quanto quelli della Riviera di Chiaja e delle Cascine? e la prima domenica di quaresima, quando il sole scintilla sugli arnesi lucenti, e sui colori delicati, per tutte quelle file di cocchi e di cavalli, in mezzo a quella folla elegante che formicola nei viali, col fondo maestoso di quelle Alpi ancora bianche di neve, il cielo trasparente e gli ippocastani già picchettati di verde, lo spettacolo non è bello? e quando il teatro alla Scala comincia ad essere troppo caldo anche per le spalle nude, e l’alba imbianca troppo presto sulle finestre delle sale da ballo, Milano non ha la sua Brianza per farvi trottare i suoi equipaggi? non ha i laghi per rovesciarvi la piena della sua vita elegante? non ha Varese per farvi correre i suoi cavalli? Le passeggiate e i dintorni di Milano sono un po’ lontani, è vero; ma sono fra i più belli del mondo.

    Io mi rammento ancora della prima gita che feci al Lago di Como, in una giornata soffocante di luglio, dopo una di quelle estati di lavoro e di orizzonti afosi che vi mettono in corpo la smania del verde e dei monti.

    La prima torre sgangherata che scorsi in cima alla montagna posta a guardia del lago mi si stampò dinanzi agli occhi come un faro di pace, di riposo, di freschi orizzonti. Il paesaggio era ancora uniforme. Tutt’a un tratto, dalle alture di Gallarate, vi si svolge davanti un panorama che è una festa degli occhi. Allorché vi trovate per la prima volta sul ponte del battello a vapore, rimanete un istante immobile, e colla sorpresa ingenua del piacere stampata in faccia, né più né meno di un contadino che capiti per sorpresa in una sala da ballo. L’ammirazione è ancora d’impressione, vaga e complessiva. Non è lo spettacolo grandioso del Lago Maggiore, né quello un po’ teatrale del Lago di Lugano visto dalla Stazione. È qualche cosa di più raccolto e penetrante. Tutto il Lago di Como a prima vista è in quel bacino da Cernobbio a Blevio, e la prima idea netta che vi sorga è di sapere da che parte se n’esca.

    A poco a poco comincia a sorgere in voi come un’esuberanza di vita, quasi un’esultanza di sensazioni e di sentimenti, a misura che lo svariato panorama si va svolgendo ai vostri occhi. Sentite che il mondo è bello, e se mai non l’avete avuta, principia a spuntare in voi, come in un bambino, la curiosità di vederlo tutto, così grande e ricco e vario, di là di quelle cime brulle, oltre quei boschi che si arrampicano come un’immensa macchia bruna sui dossi arditi, dopo quei campanili che sorgono da un folto d’alberi, di quelle cascate che biancheggiano un istante nella fenditura di un burrone, di quelle ville posate come un gingillo, su di un cuscino di verdura, che vi creano in mente mille fantasie diverse, e la vostra immaginazione popola di figure leggiadre, dietro le stoie calate ed i vetri scintillanti, in quelle barchette leggiere che battono il remo silenzioso come un’ala, e si dileguano mollemente, con un cinguettìo lontano di voci fresche, strascinandosi dietro delle bandiere a colori vivaci. È come un sogno in mezzo a cui passate, e vi sfila dinanzi Villa d’Este elegante, Carate civettuolo, Torno severo, e Balbianello superbo. Poi come tutt’a un tratto vi si allarga dinanzi la Tremezzina quasi un riso di bella fanciulla, nell’ora in cui sulla Grigna digradano le ultime sfumature di un tramonto ricco di colori e Bellagio comincia a luccicare di fiammelle, e il ramo di Colico si fa smorto, di là di Varenna, e Lenno e San Giovanni vi mandano le prime squille dell’Avemaria, voi vi chinate sul parapetto a mirare le stelle che ad una ad una principiano a riflettersi sulla tranquilla superficie del lago, e appoggerete la fronte sulla mano sentendovi sorgere in petto del pari ad una ad una tutte le cose care e lontane che ci avete in cuore, e dalle quali non avreste voluto staccarvi mai.


    Racconti e bozzetti - 1880




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