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Giovanni Verga
«Nel carrozzone dei profughi» (frammento III)
Nel carrozzone dei profughi, due povere donne sedute accanto, col fagotto della roba che avevano avuto al Municipio sulle ginocchia, si narravano i loro guai. Anzi una non parlava più; guardava nella folla con certi occhi stralunati, quasi cercando la figlia che le avevano detto fosse stata salvata da un giovanotto quando trassero anche lei dalle fiamme e dalle macerie. Una ragazza bella come il sole, che chi l’aveva vista una volta l’avrebbe riconosciuta fra mille. L’avevano vista rifugiata sotto un portone - tra i feriti del Savoja - alla stazione. Tutti l’avevano vista, fuori che lei! Dalla stazione aveva visto soltanto la sua casa che bruciava, per due ore, sinché il treno stette lì. E ora, mentre cercava la sua creatura fra la gente, da otto giorni, e pensava a lei che forse la cercava e chiamava aiuto, vedeva ancora quella distruzione e quell’incendio come un rifugio, una disperata certezza.
- Ora son sola - diceva l’altra. - Quando incontrai mio marito, qui, per caso, salvo anche lui, non mi pareva vero. Ma avevo tre figli: una maritata, colla grazia di Dio, e il maggiore che mi portava a casa già la sua giornata... Tutti! Tutti!... Io mi ero alzata appunto pel più piccolo ch’era malato, quando successe il terremoto. Il Signore non mi volle -.
Ne parlava tranquillamente, colla faccia gialla e la testa fasciata.
- Ora, quando lui sarà guarito andremo in America -.
L’altra alzò gli occhi, soltanto, e la guardò.
- Certo, che faremo qui?
- In America? - disse un altro profugo. - Non sapete che vita da cani! Peggio dei cani li trattano i cristiani! -
Ella a sua volta guardò sbigottita colui, come a ripetere: - Che faremo qui?
- Qui siamo nati; qui sono le pietre delle nostre case! - dissero gli altri.
Racconti e bozzetti - 1880