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Giuseppe Parini
Alla Musa
Te il mercadante, che con ciglio asciutto
Fugge i figli e la moglie ovunque il chiama
Dura avarizia, nel remoto flutto,
Musa, non ama.
Nè quei, cui l’alma ambizïosa rode
Fulgida cura; onde salir più agogna;
E la molto fra il dì temuta frode
Torbido sogna.
Nè giovane, che pari a tauro irrompa
Ove a la cieca più Venere piace:
Nè donna, che d’amanti osi gran pompa
Spiegar procace.
Sai tu, vergine dea, chi la parola
Modulata da te gusta od imita;
Onde ingenuo piacer sgorga, e consola
L’umana vita?
Colui, cui diede il ciel placido senso
E puri affetti e semplice costume;
Che di sè pago e dell’avito censo
Più non presume.
Che spesso al faticoso ozio de’ grandi
E all’urbano clamor s’invola, e vive
Ove spande natura influssi blandi
O in colli o in rive.
E in stuol d’amici numerato e casto,
Tra parco e delicato al desco asside;
E la splendida turba e il vano fasto
Lieto deride.
Che a i buoni, ovunque sia, dona favore;
E cerca il vero; e il bello ama innocente;
E passa l’età sua tranquilla, il core
Sano e la mente.
Dunque perchè quella sì grata un giorno
Del Giovin, cui diè nome il dio di Delo,
Cetra si tace; e le fa lenta intorno
Polvere velo?
Ben mi sovvien quando, modesto il ciglio,
Ei già scendendo a me giudice fea
Me de’ suoi carmi: e a me chiedea consiglio:
E lode avea.
Ma or non più. Chi sa? Simile a rosa
Tutta fresca e vermiglia al sol, che nasce,
Tutto forse di lui l’eletta Sposa
L’animo pasce.
E di bellezza, di virtù, di raro
Amor, di grazie, di pudor natìo
L’occupa sì, ch’ei cede ogni già caro
Studio all’oblìo.
Musa, mentr’ella il vago crine annoda
A lei t’appressa; e con vezzoso dito
A lei premi l’orecchio; e dille: e t’oda.
Anco il marito.
Giovinetta crudel, perchè mi togli
Tutto il mio d’Adda, e di mie cure il pregio,
E la speme concetta, e i dolci orgogli
D’alunno egregio?
Costui di me, de’ genj miei si accese
Pria che di te. Codeste forme infanti
Erano ancor, quando vaghezza il prese
De’ nostri canti.
Ei t’era ignoto ancor quando a me piacque.
Io di mia man per l’ombra, e per la lieve
Aura de’ lauri l’avviai ver l’acque,
Che al par di neve
Bianche le spume, scaturir dall’alto
Fece Aganippe il bel destrier, che ha l’ale:
Onde chi beve io tra i celesti esalto
E fo immortale.
Io con le nostre il volsi arti divine
Al decente, al gentile, al raro, al bello:
Fin che tu stessa gli apparisti al fine
Caro modello.
E, se nobil per lui fiamma fu desta
Nel tuo petto non conscio: e s’ei nodrìa
Nobil fiamma per te, sol opra è questa
Del cielo e mia.
Ecco già l’ale il nono mese or scioglie
Da che sua fosti, e già, deh ti sia salvo,
Te chiaramente in fra le madri accoglie
Il giovin alvo.
Lascia che a me solo un momento ei torni;
E novo entro al tuo cor sorgere affetto,
E novo sentirai da i versi adorni
Piover diletto.
Però ch’io stessa, il gomito posando
Di tua seggiola al dorso, a lui col suono
De la soave andrò tibia spirando
Facile tono.
Onde rapito, ei canterà che sposo
Già felice il rendesti, e amante amato;
E tosto il renderai dal grembo ascoso
Padre beato.
Scenderà in tanto dall’eterea mole
Giuno, che i preghi de le incinte ascolta.
E vergin io de la Memoria prole
Nel velo avvolta
Uscirò co’ bei carmi; e andrò gentile
Dono a farne al Parini, Italo cigno,
Che a i buoni amico, alto disdegna il vile
Volgo maligno.