Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Giuseppe Parini

    Il Mattino

    Alla Moda

    Lungi da queste carte i cisposi occhi già da un secolo rintuzzati, lungi i fluidi nasi de’ malinconici vegliardi. Qui non si tratta di gravi ministerii nella patria esercitati, non di severe leggi, non di annoiante domestica economia, misero appannaggio della canuta età. A te, vezzosissima Dea, che con sí dolci redine oggi temperi e governi la nostra brillante gioventú, a te sola questo piccolo Libretto si dedica e si consagra. Chi è che te qual sommo Nume oggimai non riverisca ed onori, poiché in sí breve tempo se’ giunta a debellar la ghiacciata Ragione, il pedante Buon Senso e l’Ordine seccaginoso, tuoi capitali nemici, ed hai sciolto dagli antichissimi lacci questo tuo secolo avventurato? Piacciati dunque di accogliere sotto alla tua protezione, ché forse non n’è indegno, questo piccolo Poemetto. Tu il reca su i pacifici altari, ove le gentil Dame e gli amabili Garzoni sagrificano a sé medesimi le mattutine ore. Di questo solo egli è vago, e di questo solo andrà superbo e contento. Per esserti piú caro egli ha scosso il giogo della servile rima, e se ne va libero in versi sciolti, sapendo che tu di questi specialmente ora godi e ti compiaci. Esso non aspira all’immortalità, come altri libri, troppo lusingati da’ loro Autori, che tu, repentinamente sopravvenendo, hai seppelliti nell’oblio. Siccome egli è per te nato, e consagrato a te sola, cosí fie pago di vivere quel solo momento, che tu ti mostri sotto un medesimo aspetto, e pensi a cangiarti e risorgere in più graziose forme. Se a te piacerà di riguardare con placid’occhio questo Mattino, forse gli succederanno il Mezzogiorno e la Sera; e il loro Autore si studierà di comporli ed ornarli in modo, che non meno di questo abbiano ad esserti cari.

    Il Mattino

    Giovin Signore, o a te scenda per lungo
    Di magnanimi lombi ordine il sangue
    Purissimo celeste, o in te del sangue
    Emendino il difetto i compri onori
    E le adunate in terra o in mar ricchezze
    Dal genitor frugale in pochi lustri,
    Me Precettor d’amabil rito ascolta.
    Come ingannar questi noiosi e lenti
    Giorni di vita, cui sí lungo tedio
    E fastidio insoffribile accompagna,
    Or io t’insegnerò. Quali al Mattino,
    Quai dopo il Mezzodí, quali la Sera
    Esser debban tue cure apprenderai,
    Se in mezzo a gli ozi tuo ozio ti resta
    Pur di tender gli orecchi a’ versi miei.
    Già l’are a Vener sacre e al giocatore
    Mercurio ne le Gallie e in Albïone
    Devotamente hai visitate, e porti
    Pur anco i segni del tuo zelo impressi:
    Ora è tempo di posa. In vano Marte
    A sé t’invita; ché ben folle è quegli
    Che a rischio de la vita onor si merca,
    E tu naturalmente il sangue aborri.
    Né i mesti de la dea Pallade studi
    Ti son meno odïosi: avverso ad essi
    Ti feron troppo i queruli ricinti
    Ove l’arti migliori e le scïenze,
    Cangiate in mostri e in vane orride larve,
    Fan le capaci volte eccheggiar sempre
    Di giovanili strida. Or primamente
    Odi quali il Mattino a te soavi
    Cure debba guidar con facil mano.
    Sorge il Mattino in compagnia dell’Alba
    Innanzi al Sol che di poi grande appare
    Su l’estremo orizzonte a render lieti
    Gli animali e le piante e i campi e l’onde.
    Allora il buon villan sorge dal caro
    Letto cui la fedel moglie e i minori
    Suoi figlioletti intiepidîr la notte;
    Poi sul collo recando i sacri arnesi
    Che prima ritrovâr Cerere e Pale,
    Va col bue lento innanzi al campo, e scuote
    Lungo il picciol sentier da’ curvi rami
    Il rudagioso umor che, quasi gemma,
    I nascenti del Sol raggi rifrange.
    Allora sorge il fabbro, e la sonante
    Officina riapre, e all’opre torna
    L’altro dí non perfette, o se di chiave
    Ardua e ferrati ingegni all’inquïeto
    Ricco l’arche assecura, o se d’argento
    E d’oro incider vuol gioielli e vasi
    Per ornamento a nova sposa o a mense.
    Ma che? Tu inorridisci, e mostri in capo,
    Qual istrice pungente, irti i capegli
    Al suon di mie parole? Ah non è questo,
    Signore, il tuo mattin. Tu col cadente
    Sol non sedesti a parca mensa, e al lume
    Dell’incerto crepuscolo non gisti
    Ieri a corcarti in male agiate piume,
    Come dannato è a far l’umile vulgo.
    A voi, celeste prole, a voi, concilio
    Di Semidei terreni, altro concesse
    Giove benigno: e con altr’arti e leggi
    Per novo calle a me convien guidarvi.
    Tu tra le veglie e le canore scene
    E il patetico gioco oltre piú assai
    Producesti la notte; e stanco alfine
    In aureo cocchio, col fragor di calde
    Precipitose rote e il calpestio
    Di volanti corsier, lunge agitasti
    Il queto aere notturno; e le tenébre
    Con fiaccole superbe intorno apristi,
    Siccome allor che il Siculo terreno
    Da l’uno a l’altro mar rimbombar fèo
    Pluto col carro, a cui splendeano innanzi
    Le tede de le Furie anguicrinite.
    Così tornasti a la magion; ma quivi
    A novi studi ti attendea la mensa
    Cui ricopríen pruriginosi cibi
    E licor lieti di Francesi colli
    O d’Ispani, o di Toschi, o l’Ongarese
    Bottiglia a cui di verde edera Bacco
    Concedette corona, e disse: Siedi
    De le mense reina. Alfine il Sonno
    Ti sprimacciò le morbide coltríci
    Di propria mano, ove, te accolto, il fido
    Servo calò le seriche cortine:
    E a te soavemente i lumi chiuse
    Il gallo che li suole aprire altrui.
    Dritto è perciò, che a te gli stanchi sensi
    Non sciolga da’ papaveri tenaci
    Morfeo, prima che già grande il giorno
    Tenti di penetrar fra gli spiragli
    De le dorate imposte, e la parete
    Pingano a stento in alcun lato i raggi
    Del sol ch’eccelso a te pende sul capo.
    Or qui principio le leggiadre cure
    Denno aver del tuo giorno; e quinci io debbo
    Sciorre il mio legno; e co’ precetti miei
    Te ad alte imprese ammaestrar cantando.
    Già i valetti gentili udîr lo squillo
    Del vicino metal, cui da lontano
    Scosse tua man col propagato moto;
    E accorser pronti a spalancar gli opposti
    Schermi a la luce; e rigidi osservâro
    Che con tua pena non osasse Febo
    Entrar diretto a saettarti i lumi.
    Ergiti or tu alcun poco, e sí ti appoggia
    Alli origlieri i quai, lenti gradando
    All’omero ti fan molle sostegno.
    Poi coll’indice destro, lieve lieve
    Sopra gli occhi scorrendo, indi dilegua
    Quel che riman de la Cimmeria nebbia;
    E de’ labbri formando un picciol arco,
    Dolce a vedersi, tacito sbadiglia.
    Oh se te in sí gentile atto mirasse
    Il duro Capitan qualor tra l’armi,
    Sgangherando le labbra, innalza un grido
    Lacerator di ben costrutti orecchi,
    Onde a le squadre vari moti impone;
    Se te mirasse allor, certo vergogna
    Avría di sé piú che Minerva il giorno
    Che, di flauto sonando, al fonte scorse
    Il turpe aspetto de le guance enfiate.
    Ma già il ben pettinato entrar di nuovo
    Tuo damigello i’ veggo; egli a te chiede
    Quale oggi piú delle bevande usate
    Sorbir ti piaccia in preziosa tazza:
    Indiche merci son tazze e bevande;
    Scegli qual più desii. S’oggi ti giova
    Porger dolci allo stomaco fomenti,
    Sí che con legge il natural calore
    V’arda temprato, e al digerir ti vaglia,
    Scegli il brun cioccolatte, onde tributo
    Ti dà il Guatimalese e il Caribbèo
    C’ha di barbare penne avvolto il crine:
    Ma se noiosa ipocondria t’opprime,
    O troppo intorno a le vezzose membra
    Adipe cresce, de’ tuoi labbri onora
    La nettarea bevanda, ove abbronzato
    Fuma et arde il legume a te d’Aleppo
    Giunto, e da Moca, che di mille navi
    Popolata mai sempre insuperbisce.
    Certo fu d’uopo che dal prisco seggio
    Uscisse un regno, e con ardite vele
    Fra straniere procelle e novi mostri
    E teme e rischi ed inumane fami
    Superasse i confin, per lunga etade
    Invïolati ancora; e ben fu dritto
    Se Cortes e Pizzarro umano sangue
    Non istimâr quel ch’oltre l’Oceàno
    Scorrea le umane membra, onde tonando
    E fulminando, alfin spietatamente
    Balzaron giú da’ loro aviti troni
    Re Messicani e generosi Incassi;
    Poiché nuove cosí venner delizie,
    O gemma degli eroi, al tuo palato!
    Cessi ’l Cielo però, che in quel momento
    Che la scelta bevanda a sorbir prendi,
    Servo indiscreto a te improvviso annunzi
    Il villano sartor che, non ben pago
    D’aver teco diviso i ricchi drappi,
    Oso sia ancor con pòlizza infinita
    A te chieder mercede. Ahimè, che fatto
    Quel salutar licore agro e indigesto
    Tra le viscere tue, te allor farebbe
    E in casa e fuori e nel teatro e al corso
    Ruttar plebeiamente il giorno intero!
    Ma non attenda già ch’altri lo annunzi,
    Gradito ognor, benché improvviso, il dolce
    Mastro che i piedi tuoi, come a lui pare,
    Guida e corregge. Egli all’entrar si fermi
    Ritto sul limitare: indi elevando
    Ambe le spalle, qual testudo il collo
    Contragga alquanto; e ad un medesmo tempo
    Inchini ’l mento, e con l’estrema falda
    Del piumato cappello il labbro tocchi.
    Non meno di costui, facile al letto
    Del mio Signor t’accosta, o tu che addestri
    A modular con la flessibil voce
    Teneri canti, e tu che mostri altrui
    Come vibrar con maestrevol arco
    Sul cavo legno armonïose fila.
    Né la squisita a terminar corona
    Dintorno al letto tuo, manchi, o Signore,
    Il Precettor del tenero idioma
    Che da la Senna, de le Grazie madre,
    Or ora a sparger di celeste ambrosia
    Venne all’Italia nauseata i labbri.
    All’apparir di lui l’itale voci
    Tronche cedano il campo al lor tiranno;
    E a la nova ineffabile armonia
    De’ sovrumani accenti, odio ti nasca
    Piú grande in sen contro a le impure labbra
    Ch’osan macchiarsi ancor di quel sermone
    Onde in Valchiusa fu lodata e pianta
    Già la bella Francese, et onde i campi
    All’orecchio dei Re cantati fûro
    «Lungo il fonte gentil de le bell’acque.»
    Misere labbra che temprar non sanno
    Con le Galliche grazie il sermon nostro,
    Sí che men aspro a’ dilicati spirti,
    E men barbaro suon fieda gli orecchi!
    Or te questa, o Signor, leggiadra schiera
    Trattenga al novo giorno; e di tue voglie
    Irresolute ancora or l’uno or l’altro
    Con piacevoli detti il vano occúpi,
    Mentre tu chiedi lor tra i lenti sorsi
    Dell’ardente bevanda a qual cantore
    Nel vicin verno si darà la palma
    Sopra le scene; e s’egli è il ver, che rieda
    L’astuta Frine che ben cento folli
    Milordi rimandò nudi al Tamigi;
    O se il brillante danzator Narcisso
    Tornerà pure ad agghiacciare i petti
    De’ palpitanti Italici mariti.
    Poiché cosí gran pezzo a’ primi albori
    Del tuo mattin teco scherzato fia,
    Non senz’aver licenzïato prima
    L’ipocrita pudore, e quella schifa
    Cui le accigliate gelide matrone
    Chiaman modestia, alfine o a lor talento,
    O da te congedati escan costoro.
    Doman si potrà poscia, o forse l’altro
    Giorno a’ precetti lor porgere orecchio,
    Se meno ch’oggi a te cure dintorno
    Porranno assedio. A voi, divina schiatta,
    Vie piú che a noi mortali il ciel concesse
    Domabile midollo entro al cerébro,
    Sí che breve lavor basta a stamparvi
    Novelle idee. In oltre a voi fu dato
    Tal de’ sensi e de’ nervi e degli spirti
    Moto e struttura, che ad un tempo mille
    Penetrar puote, e concepir vostr’alma
    Cose diverse, e non però turbarle
    O confonder giammai, ma scevre e chiare
    Ne’ loro alberghi ricovrarle in mente.
    Il vulgo intanto, a cui non dessi il velo
    Aprir de’ venerabili misteri,
    Fie pago assai, poi che vedrà sovente
    Ire e tornar dal tuo palagio i primi
    D’arte maestri, e con aperte fauci
    Stupefatto berrà le tue sentenze.
    Ma già vegg’io che le ozïose lane
    Soffrir non puoi piú lungamente, e in vano
    Te l’ignavo tepor lusinga e molce,
    Però che or te piú glorïosi affanni
    Aspettan l’ore a trapassar del giorno.
    Su dunque, o voi, del primo ordine servi
    Che degli alti Signor ministri al fianco
    Siete incontaminati, or dunque voi
    Al mio divino Achille, al mio Rinaldo
    L’armi apprestate. Ed ecco in un baleno
    I tuoi valetti a’ cenni tuoi star pronti.
    Già ferve il gran lavoro. Altri ti veste
    La serica zimarra ove disegno
    Diramasi Chinese; altri, se il chiede
    Piú la stagione, a te le membra copre
    Di stese infino al piè tiepide pelli.
    Questi al fianco ti adatta il bianco lino
    Che sciorinato poi cada, e difenda
    I calzonetti; e quei, d’alto curvando
    Il cristallino rostro, in su le mani
    Ti versa acque odorate, e da le mani
    In limpido bacin sotto le accoglie.
    Quale il sapon del redivivo muschio
    Olezzante all’intorno, e qual ti porge
    Il macinato di quell’arbor frutto,
    Che a Ròdope fu già vaga donzella,
    E chiama in van sotto mutate spoglie
    Demofoonte ancor Demofoonte.
    L’un di soavi essenze intrisa spugna
    Onde tergere i denti, e l’altro appresta
    Ad imbianchir le guance util licore.
    Assai pensasti a te medesmo; or volgi
    Le tue cure per poco ad altro obbietto
    Non indegno di te. Sai che compagna
    Con cui divider possa il lungo peso
    Di quest’inerte vita il ciel destina
    Al giovane Signore. Impallidisci?
    No, non parlo di nozze: antiquo e vieto
    Dottor sarei se cosí folle io dessi
    A te consiglio. Di tant’alte doti
    Tu non orni cosí lo spirto, e i membri,
    Perché in mezzo a la tua nobil carriera
    Sospender debbi ’l corso, e fuora uscendo
    Di cotesto a ragion detto Bel Mondo,
    In tra i severi di famiglia padri
    Relegato ti giacci, a un nodo avvinto
    Di giorno in giorno piú penoso, e fatto
    Stallone ignobil de la razza umana.
    D’altra parte il Marito ahi quanto spiace,
    E lo stomaco move ai dilicati
    Del vostr’Orbe leggiadro abitatori
    Qualor de’ semplicetti avoli nostri
    Portar osa in ridicolo trïonfo
    La rimbambita Fe’, la Pudicizia,
    Severi nomi! E qual non suole a forza
    In que’ melati seni eccitar bile,
    Quando i calcoli vili del castaldo
    Le vendemmie, i ricolti, i pedagoghi
    Di que’ sí dolci suoi bambini altrui,
    Gongolando ricorda; e non vergogna
    Di mischiar cotai fole a peregrini
    Subbietti, a nuove del dir forme, a sciolti
    Da volgar fren concetti onde s’avviva
    Da’ begli spirti il vostro amabil Globo.
    Pèra dunque chi a te nozze consiglia,
    Ma non però senza compagna andrai,
    Che fia giovane dama, e d’altrui sposa;
    Poiché sí vuole invïolabil rito
    Del Bel Mondo onde tu se’ cittadino.
    Tempo già fu, che il pargoletto Amore
    Dato era in guardia al suo fratello Imene;
    Poiché la madre lor temea che il cieco
    Incauto Nume perigliando gisse
    Misero e solo per oblique vie,
    E che, bersaglio agl’indiscreti colpi
    Di senza guida e senza freno arciero,
    Troppo immaturo alfin corresse il seme
    Uman ch’è nato a dominar la terra.
    Perciò la prole mal secura all’altra
    In cura dato avea, sí lor dicendo:
    «Ite, o figli, del par; tu piú possente
    Il dardo scocca, e tu piú cauto il guida
    A certa meta». Cosí ognor compagna
    Iva la dolce coppia, e in un sol regno
    E d’un nodo comun l’alme stringea.
    Allora fu che il Sol mai sempre uniti
    Vedea un pastore ed una pastorella
    Starsi al prato, a la selva, al colle, al fonte;
    E la Suora di lui vedeali poi
    Uniti ancor nel talamo beato
    Ch’ambo gli amici Numi a piene mani
    Gareggiando spargean di gigli e rose.
    Ma che non puote anco in divino petto,
    Se mai s’accende ambizïon di regno?
    Crebber l’ali ad Amore a poco a poco,
    E la forza con esse; ed è la forza
    Unica e sola del regnar maestra.
    Perciò a poc’aere prima, indi piú ardito
    A vie maggior fidossi, e fiero alfine
    Entrò nell’alto, e il grande arco crollando,
    E il capo, risonar fece a quel moto
    Il duro acciar che la faretra a tergo
    Gli empie, e gridò: Solo regnar vogl’io!
    Disse, e volto a la madre: «Amore adunque,
    Il piú possente infra gli Dei, il primo
    Di Citerèa figliuol, ricever leggi,
    E dal minor german ricever leggi,
    Vile alunno, anzi servo? Or dunque Amore
    Non oserà fuor ch’una unica volta
    Ferire un’alma, come questo schifo
    Da me vorrebbe? E non potrò giammai,
    Dappoi ch’io strinsi un laccio, anco slegarlo
    A mio talento, e, qualor parmi, un altro
    Stringerne ancora? E lascerò pur ch’egli
    Di suoi unguenti impeci a me i miei dardi
    Perché men velenosi e men crudeli
    Scendano ai petti? Or via, perché non togli
    A me dalle mie man quest’arco, e queste
    Armi da le mie spalle, e ignudo lasci
    Quasi rifiuto de gli Dei Cupido?
    Oh il bel viver che fia qualor tu solo
    Regni in mio loco! Oh il bel vederti, lasso!
    Studiarti a tôrre da le languid’alme
    La stanchezza e ’l fastidio, e spander gelo
    Di foco in vece! Or, genitrice, intendi:
    Vaglio, e vo’ regnar solo. A tuo piacere
    Tra noi pàrti l’impero, ond’io con teco
    Abbia omai pace, e in compagnia d’Imene
    Me non trovin mai piú le umane genti».
    Qui tacque Amore, e, minaccioso in atto,
    Parve all’Idalia Dea chieder risposta.
    Ella tenta placarlo, e pianti e preghi
    Sparge ma in vano; onde a’ due figli volta
    Con questo dir pose al contender fine:
    «Poiché nulla tra voi pace esser puote,
    Si dividano i regni. E perché l’uno
    Sia dall’altro germano ognor disgiunto,
    Sieno tra voi diversi e ’l tempo e l’opra.
    Tu che di strali altero a fren non cedi,
    L’alme ferisci, e tutto il giorno impera:
    E tu che di fior placidi hai corona
    Le salme accoppia e coll’ardente face
    Regna la notte». Ora di qui, Signore,
    Venne il rito gentil che a’ freddi sposi
    Le tenebre concede, e de le spose
    Le caste membra; e a voi beata gente
    Di piú nobile mondo il cor di queste,
    E il dominio del dí, largo destina.
    Fors’anco un dí piú liberal confine
    Vostri diritti avran, se Amor piú forte
    Qualche provincia al suo germano usurpa:
    Cosí giova sperar. Tu volgi intanto
    A’ miei versi l’orecchio, et odi or quale
    Cura al mattin tu debbi aver di lei
    Che, spontanea o pregata, a te donossi
    Per tua Dama quel dí lieto che a fida
    Carta, non senza testimoni, fûro
    A vicenda commessi i patti santi,
    E le condizïon del caro nodo.
    Già la Dama gentil, de’ cui bei lacci
    Godi avvinto sembrar, le chiare luci
    Col novo giorno aperse; e suo primiero
    Pensier fu dove teco abbia piuttosto
    A vegliar questa sera, e consultonne
    Contegnosa lo sposo il qual pur dianzi
    Fu la mano a baciarle in stanza ammesso.
    Or dunque è tempo che il piú fido servo
    E il piú accorto tra i tuoi mandi al palagio
    Di lei, chiedendo se tranquilli sonni
    Dormío la notte, e se d’imagin liete
    Le fu Morfeo cortese. È ver che ieri
    Sera tu l’ammirasti in viso tinta
    Di freschissime rose; e piú che mai
    Vivace e lieta uscío teco del cocchio,
    E la vigile tua mano per vezzo
    Ricusò sorridendo allor che l’ampie
    Scale salí del maritale albergo:
    Ma ciò non basti ad acquetarti, e mai
    Non oblïar sí giusti ufici. Ahi quanti
    Geni malvagi tra ’l notturno orrore
    Godono uscire, ed empier di perigli
    La placida quïete de’ mortali!
    Potría, tolgalo il cielo, il picciol cane
    Con latrati improvvisi i cari sogni
    Troncare a la tua Dama; ond’ella, scossa
    Da subito capriccio, a rannicchiarsi
    Astretta fosse, di sudor gelato
    E la fronte bagnando e il guancial molle.
    Anco potría colui che sí de’ tristi
    Come de’ lieti sogni è genitore,
    Crearle in mente di diverse idee
    In un congiunte orribile chimera;
    Onde agitata in ansïoso affanno
    Gridar tentasse, e non però potesse
    Aprire ai gridi tra le fauci il varco.
    Sovente ancor ne la trascorsa sera
    La perduta tra ’l gioco aurea moneta,
    Non men che al Cavalier, suole a la Dama
    Lunga vigilia cagionar: talora
    Nobile invidia de la bella amica
    Vagheggiata da molti, e talor breve
    Gelosia n’è cagione. A questo aggiugni
    Gl’importuni mariti, i quali in mente
    Ravvolgendosi ancor le viete usanze,
    Poi che cessero ad altri il giorno, quasi
    Abbian fatto gran cosa, aman d’Imene
    Con superstizïon serbare i dritti,
    E dell’ombre notturne esser tiranni,
    Non senza affanno de le caste spose
    Ch’indi preveggon tra pochi anni il fiore
    De la fresca beltade a sé rapirsi.
    Or dunque ammaestrato a quali e quanti
    Miseri casi espor soglia il notturno
    Orror le Dame, tu non esser lento,
    Signore, a chieder de la tua novelle.
    Mentre che il fido messaggier si attende,
    Magnanimo Signor, tu non starai
    Ozïoso però. Nel dolce campo
    Pur in questo momento il buon cultore
    Suda, e incallisce al vomere la mano,
    Lieto che i suoi sudor ti fruttin poi
    Dorati cocchi, e peregrine mense.
    Ora per te l’industre artier sta fiso
    Allo scalpello, all’asce, al subbio, all’ago;
    Ed ora a tuo favor contende o veglia
    Il ministro di Temi. Ecco te pure,
    Te la toilette attende: ivi i bei pregi
    De la natura accrescerai con l’arte,
    Ond’oggi uscendo, del beante aspetto
    Beneficar potrai le genti, e grato
    Ricompensar di sue fatiche il mondo.
    Ma già tre volte e quattro il mio Signore
    Velocemente il gabinetto scórse
    Col crin disciolto e su gli omeri sparso,
    Quale a Cuma solea l’orribil maga
    Quando agitata dal possente Nume
    Vaticinar s’udía. Cosí dal capo
    Evaporar lasciò de gli oli sparsi
    Il nocivo fermento, e de le polvi
    Che roder gli potríen la molle cute,
    O d’atroce emicrania a lui le tempie
    Trafigger anco. Or egli avvolto in lino
    Candido siede. Avanti a lui lo specchio
    Altero sembra di raccôr nel seno
    L’imagin diva: e stassi agli occhi suoi
    Severo esplorator de la tua mano
    O di bel crin volubile Architetto.
    Mille d’intorno a lui volano odori
    Che a le varie manteche ama rapire
    L’auretta dolce, intorno ai vasi ugnendo
    Le leggerissim’ale di farfalla.
    Tu chiedi in prima a lui qual piú gli aggrada
    Sparger sul crin, se il gelsomino, o il biondo
    Fior d’arancio piuttosto, o la giunchiglia,
    O l’ambra prezïosa agli avi nostri.
    Ma se la Sposa altrui, cara al Signore,
    Del talamo nuzial si duole, e scosse
    Pur or da lungo peso il molle lombo,
    Ah fuggi allor tutti gli odori, ah fuggi!
    Ché micidial potresti a un sol momento
    Tre vite insidïar: semplici sieno
    I tuoi balsami allor, né oprarli ardisci
    Pria che su lor deciso abbian le nari
    Del mio Signore, e tuo. Pon mano poscia
    Al pettin liscio, e coll’ottuso dente
    Lieve solca i capegli; indi li turba
    Col pettine e scompiglia: ordin leggiadro
    Abbiano alfin da la tua mente industre.
    Io breve a te parlai; ma non pertanto
    Lunga fia l’opra tua; né al termin giunta
    Prima sarà, che da piú strani eventi
    Turbisi e tronchi a la tua impresa il filo.
    Fisa i lumi allo speglio, e vedrai quivi
    Non di rado il Signor morder le labbra
    Impazïente, ed arrossir nel viso.
    Sovente ancor, se artificiosa meno
    Fia la tua destra, del convulso piede
    Udrai lo scalpitar breve e frequente,
    Non senza un tronco articolar di voce
    Che condanni e minacci. Anco t’aspetta
    Veder talvolta il mio Signor gentile
    Furïando agitarsi, e destra e manca
    Porsi nel crine; e scompigliar con l’ugna
    Lo studio di molt’ore in un momento.
    Che piú? Se per tuo male un dí vaghezza
    D’accordar ti prendesse al suo sembiante
    L’edificio del capo, ed oblïassi
    Di prender legge da colui che giunse
    Pur ier di Francia, ahi quale atroce folgore,
    Meschino! allor ti pendería sul capo?
    Ché il tuo Signor vedresti ergers’in piedi;
    E versando per gli occhi ira e dispetto,
    Mille strazi imprecarti; e scender fino
    Ad usurpar le infami voci al vulgo
    Per farti onta maggiore; e di bastone
    Il tergo minacciarti; e vïolento
    Rovesciare ogni cosa, al suol spargendo
    Rotti cristalli e calamistri e vasi
    E pettini ad un tempo. In cotal guisa,
    Se del Tonante all’ara o de la Dea,
    Che ricovrò dal Nilo il turpe Phallo,
    Tauro spezzava i raddoppiati nodi
    E libero fuggía, vedeansi al suolo
    Vibrar tripodi, tazze, bende, scuri,
    Litui, coltelli, e d’orridi muggiti
    Commosse rimbombar le arcate volte,
    E d’ogni lato astanti e sacerdoti
    Pallidi all’urto e all’impeto involarsi
    Del feroce animal che pria sí queto
    Gía di fior cinto, e sotto a la man sacra
    Umilïava le dorate corna.
    Tu non pertanto coraggioso e forte
    Soffri, e ti serba a la miglior fortuna.
    Quasi foco di paglia è il foco d’ira
    In nobil cor. Tosto il Signor vedrai
    Mansuefatto a te chieder perdono,
    E sollevarti oltr’ogni altro mortale
    Con preghi e scuse a niun altro concesse;
    Onde securo sacerdote allora
    L’immolerai qual vittima a Filauzio,
    Sommo Nume de’ Grandi, e pria d’ognaltro
    Larga otterrai del tuo lavor mercede.
    Or, Signore, a te riedo. Ah non sia colpa
    Dinanzi a te s’io travviai col verso
    Breve parlando ad un mortal cui degni
    Tu degli arcani tuoi. Sai che a sua voglia
    Questi ogni dí volge e governa i capi
    De’ piú felici spirti; e le matrone,
    Che da’ sublimi cocchi alto disdegnano
    Volgere il guardo a la pedestre turba,
    Non disdegnan sovente entrar con lui
    In festevoli motti allor ch’esposti
    A la sua man sono i ridenti avori
    Del bel collo e del crin l’aureo volume.
    Perciò accogli, ti prego, i versi miei
    Tuttor benigno: et odi or come possi
    L’ore a te render grazïose mentre
    Dal pettin creator tua chioma acquista
    Leggiadra o almen non piú veduta forma.
    Picciol libro elegante a te dinanzi
    Tra gli arnesi vedrai che l’arte aduna
    Per disputare a la natura il vanto
    Del renderti sí caro agli occhi altrui.
    Ei ti lusingherà forse con liscia
    Purpurea pelle onde fornito avrallo
    O Mauritano conciatore o Siro;
    E d’oro fregi dilicati e vago
    Mutabile color che il collo imíti
    De la colomba v’avrà posto intorno
    Squisito legator Batavo o Franco.
    Ora il libro gentil con lenta mano
    Togli; e non senza sbadigliare un poco
    Aprilo a caso, o pur là dove il parta
    Tra una pagina e l’altra indice nastro.
    O de la Francia Proteo multiforme,
    Voltaire troppo biasmato, e troppo a torto
    Lodato ancor, che sai con novi modi
    Imbandir ne’ tuoi scritti eterno cibo
    Ai semplici palati, e se’ maestro
    Di coloro che mostran di sapere;
    Tu appresta al mio Signor leggiadri studi
    Con quella tua Fanciulla agli Angli infesta,
    Che il grande Enrico tuo vince d’assai,
    L’Enrico tuo che non peranco abbatte
    L’Italïan Goffredo, ardito scoglio
    Contro a la Senna d’ogni vanto altera.
    Tu de la Francia onor, tu in mille scritti
    Celebrata Ninon, novella Aspasia,
    Taide novella, ai facili sapienti
    De la Gallica Atene, i tuoi precetti
    Pur dona al mio Signore: e a lui non meno
    Pasci la nobil mente, o tu ch’a Italia,
    Poi che rapîrle i tuoi l’oro e le gemme,
    Invidïasti il fedo loto ancora
    Onde macchiato è il Certaldese, e l’altro
    Per cui va sí famoso il pazzo Conte.
    Questi, o Signore, i tuoi studiati autori
    Fíeno e mill’altri che guidâro in Francia
    A novellar con le vezzose schiave
    I bendati Sultani, i regi Persi,
    E le peregrinanti Arabe dame;
    O che con penna liberale ai cani
    Ragion donâro e ai barbari sedili,
    E diêr feste e conviti e liete scene
    Ai polli ed a le gru d’amor maestre.
    Oh pascol degno d’anima sublime!
    Oh chiara oh nobil mente! A te ben dritto
    È che si curvi riverente il vulgo,
    E gli oracoli attenda. Or chi fia dunque
    Sí temerario che in suo cor ti beffi
    Qualor partendo da sí begli studi
    Del tuo paese l’ignoranza accusi,
    E tenti aprir col tuo felice raggio
    La Gotica caligine che annosa
    Siede su gli occhi a le misere genti?
    Cosí non mai ti venga estranea cura
    Questi a troncar sí prezïosi istanti,
    In cui non meno de la docil chioma
    Coltivi ed orni il penetrante ingegno.
    Non pertanto avverrà, che tu sospenda
    Quindi a pochi momenti i cari studi,
    E che ad altro ti volga. A te quest’ora
    Condurrà il merciaiuol che in patria or torna
    Pronto inventor di lusinghiere fole,
    E liberal di forestieri nomi
    A merci che non mai varcâro i monti.
    Tu a lui credi ogni detto: e chi vuoi ch’osi
    Unqua mentire ad un tuo pari in faccia?
    Ei fia che venda, se a te piace, o cambi
    Mille fregi e giojelli a cui la moda
    Di viver concedette un giorno intero
    Tra le folte d’inezie illustri tasche.
    Poi lieto se n’andrà con l’una mano
    Pesante di molt’oro; e in cor gioiendo,
    Spregerà le bestemmie imprecatrici,
    E il gittato lavoro, e i vani passi
    Del calzolar diserto e del drappiere;
    E dirà lor: «Ben degna pena avete,
    O troppo ancor religïosi servi
    De la necessitade! antiqua è vero
    Madre e donna dell’arti, or nondimeno
    Fatta cenciosa e vile. Al suo possente
    Amabil vincitor v’era assai meglio,
    O miseri, ubbidire. Il Lusso, il Lusso
    Oggi sol puote dal ferace corno
    Versar su l’arti a lui vassalle applausi
    E non contesi mai premi e dovizie».
    L’ora fia questa ancor che a te conduca
    Il dilicato miniator di belle,
    Ch’è de la Corte d’Amatunta e Pafo
    Stipendiato ministro atto a gli affari
    Sollecitar dell’amorosa Dea.
    Impazïente or tu l’affretta e sprona
    Perché a te porga il desïato avorio
    Che de le amate forme impresso ride,
    O che il pennel cortese ivi dispieghi
    L’alme sembianze del tuo viso, ond’abbia
    Tacito pasco, allor che te non vede
    La pudica d’altrui sposa a te cara;
    O che di lei medesma al vivo esprima
    L’imagin vaga; o se ti piace, ancora
    D’altra fiamma furtiva a te presenti
    Con piú largo confin le amiche membra.
    Ma poi che al fine a le tue luci esposto
    Fia il ritratto gentil, tu cauto osserva
    Se bene il simulato al ver risponda,
    Vie piú rigido assai se il tuo sembiante
    Esprimer denno i colorati punti
    Che l’arte ivi dispose. Oh quante mende
    Scorger tu vi saprai! Or brune troppo
    A te parran le guance; or fia ch’ecceda
    Mal frenata la bocca; or qual conviensi
    Al camuso Etiòpe il naso fia.
    Ti giovi ancora d’accusar sovente
    Il dipintor che non atteggi industre
    L’agili membra e il dignitoso busto,
    O che con poca legge a la tua imago
    Dia contorno o la posi o la panneggi.
    È ver, che tu del grande di Crotone
    Non conosci la scuola, e mai tua mano
    Non abbassossi a la volgar matita
    Che fu nell’altra età cara a’ tuoi pari
    Cui sconosciute ancora eran piú dolci
    E piú nobili cure a te serbate.
    Ma che non puote quel d’ogni precetto
    Gusto trionfator che all’ordin vostro
    In vece di maestro il Ciel concesse,
    Et onde a voi coniò le altere menti
    Acciò che possan de’ volgari ingegni
    Oltre passar la paludosa nebbia,
    E d’aere piú puro abitatrici
    Non fallibili scêrre il vero e il bello?
    Perciò qual piú ti par loda, riprendi,
    Non men fermo d’allor che a scranna siedi
    Rafael giudicando o l’altro eguale
    Che del gran nome suo l’Adige onora,
    E a le tavole ignote i noti nomi
    Grave comparti di color che primi
    Fûr tra’ Pittori. Ah s’altri è sí procace
    Ch’osi rider di te, costui paventi
    L’augusta maestà del tuo cospetto,
    Si volga a la parete; e mentre cerca
    Por freno in van col morder de le labbra
    Allo scrosciar de le importune risa
    Che scoppian da’ precordi, vïolenta
    Convulsïone a lui deformi il volto,
    E lo affoghi aspra tosse; e lo punisca
    Di sua temerità! Ma tu non pensa
    Ch’altri ardisca di te rider giammai;
    E mai sempre imperterrito decidi.
    Or l’immagin compiuta intanto serba
    Perché in nobile arnese un dí si chiuda
    Con opposto cristallo, ove tu facci
    Sovente paragon di tua beltade
    Con la beltà de la tua Dama, o agli occhi
    Degl’invidi la tolga, e in sen l’asconda
    Sagace tabacchiera, o a te riluca
    Sul minor dito fra le gemme e l’oro;
    O de le grazie del tuo viso desti
    Soavi rimembranze al braccio avvolta
    De la pudica altrui Sposa a te cara.
    Ma giunta è al fin del dotto pettin l’opra.
    Già il maestro elegante intorno spande
    Da la man scossa un polveroso nembo
    Onde a te innanzi tempo il crine imbianchi.
    D’orribil piato risonar s’udío
    Già la corte d’Amore. I tardi vegli
    Grinzuti osâr coi giovani nipoti
    Contendere di grado in faccia al soglio
    Del comune Signor. Rise la fresca
    Gioventude animosa, e d’agri motti
    Libera punse la senil baldanza.
    Gran tumulto nascea; se non che Amore,
    Ch’ogni diseguaglianza odia in sua corte,
    A spegner mosse i perigliosi sdegni:
    E a quei che militando incanutîro
    Suoi servi impose d’imitar con arte
    I duo bei fior che in giovenile gota
    Educa e nutre di sua man natura:
    Indi fe’ cenno, e in un balen fûr visti
    Mille alati ministri alto volando
    Scoter le piume, e lieve indi fiocconne
    Candida polve che a posar poi venne
    Su le giovani chiome; e in bianco volse
    Il biondo, il nero, e l’odïato rosso.
    L’occhio cosí nell’amorosa reggia
    Piú non distinse le due opposte etadi,
    E solo vi restò giudice il Tatto.
    Or tu adunque, o Signor, tu che se’ il primo
    Fregio ed onor dell’amoroso regno,
    I sacri usi ne serba. Ecco che sparsa
    Pria da provvida man la bianca polve
    In piccolo stanzin con l’aere pugna,
    E degli atomi suoi tutto riempie
    Egualmente divisa. Or ti fa’ core
    E in seno a quella vorticosa nebbia
    Animoso ti avventa. Oh bravo! oh forte!
    Tale il grand’Avo tuo tra ’l fumo e ’l foco
    Orribile di Marte, furïando
    Gittossi allor che i palpitanti Lari
    De la Patria difese, e ruppe e in fuga
    Mise l’oste feroce. Ei non pertanto
    Fuliginoso il volto, d’atro sangue
    Asperso e di sudore, e co’ capegli
    Stracciati ed irti, da la mischia uscío
    Spettacol fero a’ cittadini istessi
    Per sua man salvi; ove tu assai piú dolce
    E leggiadro a vedersi, in bianca spoglia
    Uscirai quindi a poco a bear gli occhi
    De la cara tua Patria, a cui dell’Avo
    Il forte braccio, e il viso almo celeste
    Del Nipote dovean portar salute.
    Ella ti attende impazïente, e mille
    Anni le sembra il tuo tardar poc’ore.
    È tempo omai che i tuoi valetti al dorso
    Con lieve man ti adattino le vesti
    Cui la moda e ’l buon gusto in su la Senna
    T’abbian tessute a gara, e qui cucite
    Abbia ricco sartor che in su lo scudo
    Mostri intrecciato a forbici eleganti
    Il titol di Monsieur. Non sol dia leggi
    A la materia la stagion diverse;
    Ma sien qual si conviene al giorno e all’ora
    Sempre vari il lavoro e la ricchezza.
    Fero Genio di Marte, a guardar posto
    De la stirpe de’ Numi il caro fianco,
    Tu al mio giovane Eroe la spada or cingi,
    Lieve e corta non già, ma, qual richiede
    La stagion bellicosa, al suol cadente,
    E di triplice taglio armata e d’elsa
    Immane. Quanto esser può mai sublime
    L’annoda pure, onde l’impugni all’uopo
    La furibonda destra in un momento:
    Nè disdegnar con le sanguigne dita
    Di ripulire et ordinar quel nodo
    Onde l’elsa è superba; industre studio
    È di candida mano; al mio Signore
    Dianzi, donollo, e gliel appese al brando,
    La pudica d’altrui Sposa a lui cara.
    Tal del famoso Artú vide la corte
    Le infiammate d’amor donzelle ardite
    Ornar di piume e di purpuree fasce
    I fatati guerrieri, onde piú ardenti
    Gisser poi questi ad incontrar periglio
    In selve orrende tra i giganti e i mostri.
    Figlie de la Memoria inclite Suore,
    Che invocate scendeste, e i feri nomi
    De le squadre diverse e de gli Eroi
    Annoveraste ai grandi che cantâro
    Achille, Enea, e il non minor Buglione,
    Or m’è d’uopo di voi: tropp’ardua impresa,
    E insuperabil senza vostr’aíta
    Fia ricordare al mio Signor di quanti
    Leggiadri arnesi graverà sue vesti
    Pria che di se medesmo esca a far pompa.
    Ma qual tra tanti e sí leggiadri arnesi
    Sí felice sarà che pria d’ogn’altro,
    Signor, venga a formar tua nobil soma?
    Tutti importan del par. Veggo l’Astuccio
    Di pelle rilucente ornato e d’oro
    Sdegnar la turba, e gli occhi tuoi primiero
    Occupar di sua mole: esso a mill’uopi
    Opportuno si vanta, e in grembo a lui
    Atta agli orecchi, ai denti, ai peli, all’ugne
    Vien forbita famiglia. A lui contende
    I primi onori d’odorifer’onda
    Colmo Cristal che a la tua vita in forse
    Rechi soccorso allor che il vulgo ardisce
    Troppo accosto vibrar da la vil salma
    Fastidïosi effluvi a le tue nari.
    Né men pronto di quello all’uopo istesso
    L’imitante un cuscin purpureo Drappo
    Mostra turgido il sen d’erbe odorate
    Che l’aprica montagna in tuo favore
    Al possente meriggio educa e scalda.
    Seco vien pur di cristallina rupe
    Prezïoso Vasello onde traluce
    Non volgare confetto ove agli aromi
    Stimolanti s’unío l’ambra o la terra
    Che il Giappon manda a profumar de’ Grandi
    L’etereo fiato; o quel che il Caramano
    Fa gemer latte dall’inciso capo
    De’ papaveri suoi, perché qualora
    Non ben felice amor l’alma t’attrista,
    Lene serpendo per le membra, acqueti
    A te gli spirti, e ne la mente induca
    Lieta stupidità che mille aduni
    Imagin dolci e al tuo desio conformi.
    A questi arnesi il Cannocchiale aggiugni,
    E la guernita d’oro anglica Lente.
    Quel notturno favor ti presti allora
    Che in teatro t’assidi, e t’avvicini
    Gli snelli piedi e le canore labbra
    Da la scena rimota, o con maligno
    Occhio ricerchi di qualch’altra loggia
    Le abitate tenèbre, o miri altrove
    Gli ognor nascenti e moribondi amori
    De le tenere Dame, onde s’appresti
    Per l’eloquenza tua nel dí vicino
    Lunga e grave materia. A te la Lente
    Nel giorno assista, e de gli sguardi tuoi
    Economa presieda, e sí li parta,
    Che il mirato da te vada superbo,
    Né i malvisti accusarti osin giammai.
    La Lente ancora all’occhio tuo vicina
    Irrefragabil giudice condanni
    O approvi di Palladio i muri e gli archi
    O di Tizian le tele: essa a le vesti,
    Ai libri, ai volti feminili applauda
    Severa o li dispregi. E chi del senso
    Comun sí privo fia che opporsi unquanco
    Osi al sentenzïar de la tua Lente?
    Non per questi però sdegna, o Signore,
    Giunto a lo specchio in gallico sermone
    Il vezzoso Giornal; non le notate
    Eburnee Tavolette a guardar preste
    Tuoi sublimi pensier fin ch’abbian luce
    Doman tra i begli spirti; e non isdegna
    La picciola Guaína ove a’ tuoi cenni
    Mille stan pronti ognora argentei spilli.
    Oh quante volte a cavalier sagace
    Ho vedut’io le man render beate
    Uno apprestato a tempo unico spillo!
    Ma dove, ahi dove inonorato e solo
    Lasci ’l coltello a cui l’oro e l’acciaro
    Donâr gemina lama, e a cui la madre
    De la gemma piú bella d’Anfitrite
    Diè manico elegante ove il colore
    Con dolce varïar l’iride imíta?
    Opra sol fia di lui se ne’ superbi
    Convivi ognaltro avanzerai per fama
    D’esimio Trinciatore, e se l’invidia
    De’ tuoi gran pari ecciterai qualora,
    Pollo o fagian con la forcina in alto
    Sospeso, a un colpo il priverai dell’anca
    Mirabilmente. Or ti ricolmi alfine
    D’ambo i lati la giubba, ed oleosa
    Spagna e Rapé, cui semplice Origuela
    Chiuda, o a molti colori oro dipinto;
    E cupide ad ornar tue bianche dita
    Salgan le anella in fra le quali assai
    Piú caro a te dell’adamante istesso
    Cerchietto inciso d’amorosi motti
    Stríngati alquanto, e sovvenir ti faccia
    De la pudica altrui Sposa a te cara.
    Compiuto è il gran lavoro. Odi, o Signore,
    Sonar già intorno la ferrata zampa
    De’ superbi corsier che irrequïeti
    Ne’ grand’atrii sospigne, arretra e volge
    La disciplina dell’ardito auriga.
    Sorgi, e t’appresta a render baldi e lieti
    Del tuo nobile incarco i bruti ancora.
    Ma a possente Signor scender non lice
    Da le stanze superne infin che al gelo,
    O al meriggio non abbia il cocchier stanco
    Durato un pezzo, onde l’uom servo intenda
    Per quanto immensa via natura il parta
    Dal suo Signore. I miei precetti intanto
    Io seguirò; ché varie al tuo mattino
    Portar dee cure il varïar dei giorni.
    Tal dí ti aspetta d’eloquenti fogli
    Serie a vergar che al Rodano, al Lemano
    All’Amstel, al Tirreno, all’Adria legga
    Il libraio che Momo e Citerea
    Colmâr di beni, o il piú di lui possente
    Appaltator di forestiere scene
    Con cui, per opra tua, facil donzella
    Sua virtú merchi, e non sperato ottenga
    Guiderdone al suo canto. O di grand’alma
    Primo fregio ed onor, Beneficenza,
    Che al merto porgi ed a virtú la mano!
    Tu il ricco e il grande sopra il vulgo innalzi
    Ed al concilio de gli Dei lo aggiugni.
    Tal giorno ancora, o d’ogni giorno forse
    Dên qualch’ore serbarsi al molle ferro
    Che il pelo a te rigermogliante a pena
    D’in su la guancia miete, e par che invidi
    Ch’altri fuor che lui solo esplori o scopra
    Unqua il tuo sesso. Arroge a questi il giorno
    Che di lavacro universal convienti
    Bagnar le membra, per tua propria mano,
    O per altrui, con odorose spugne
    Trascorrendo la cute. È ver che allora
    D’esser mortal ti sembrerà; ma innalza
    Tu allor la mente, e de’ grand’avi tuoi
    Le imprese ti rimembra e gli ozi illustri
    Che infino a te per secoli cotanti
    Misti scesero al chiaro altero sangue,
    E l’ubbioso pensier vedrai fuggirsi
    Lunge da te per l’aere rapito
    Su l’ale de la Gloria alto volanti;
    Et indi a poco sorgerai qual prima
    Gran Semidèo che a sé solo somiglia.
    Fama è cosí, che il dí quinto le Fate
    Loro salma immortal vedean coprirsi
    Già d’orribili scaglie, e in feda serpe
    Volta strisciar sul suolo a sé facendo
    De le inarcate spire impeto e forza;
    Ma il primo sol le rivedea piú belle
    Far beati gli amanti, e a un volger d’occhi
    Mescere a voglia lor la terra e il mare.
    Fia d’uopo ancor, che da le lunghe cure
    T’allevii alquanto, e con pietosa mano
    Il teso per gran tempo arco rallenti.
    Signore, al ciel non è piú cara cosa
    Di tua salute: e troppo a noi mortali
    È il viver de’ tuoi pari util tesoro.
    Tu adunque allor che placida mattina
    Vestita riderà d’un bel sereno,
    Esci pedestre, e le abbattute membra
    All’aura salutar snoda e rinfranca.
    Di nobil cuoio a te la gamba calzi
    Purpureo stivaletto, onde il tuo piede
    Non macchino giammai la polve e ’l limo
    Che l’uom calpesta. A te s’avvolga intorno
    Leggiadra veste che sul dorso sciolta
    Vada ondeggiando, e tue formose braccia
    Leghi in manica angusta a cui vermiglio
    O cilestro velluto orni gli estremi.
    Del bel color che l’elitropio tigne
    Sottilissima benda indi ti fasci
    La snella gola: e il crin... Ma il crin, Signore,
    Forma non abbia ancor da la man dotta
    Dell’artefice suo; ché troppo fôra,
    Ahi! troppo grave error lasciar tant’opra
    De le licenzïose aure in balía.
    Non senz’arte però vada negletto
    Su gli omeri a cader; ma, o che natura
    A te il nodrisca, o che da ignota fronte
    Il piú famoso parrucchier lo tolga
    E l’adatti al tuo capo, in sul tuo capo
    Ripiegato l’afferri e lo sospenda
    Con testugginei denti il pettin curvo.
    Poi che in tal guisa te medesmo ornato
    Con artificio negligente avrai,
    Esci pedestre a respirar talvolta
    L’aëre mattutino; e ad alta canna
    Appoggiando la man, quasi baleno
    Le vie trascorri, e premi ed urta il volgo
    Che s’oppone al tuo corso. In altra guisa
    Fôra colpa l’uscir, però che andrièno
    Mal distinti dal vulgo i primi eroi.
    Ciò ti basti per or. Già l’orïolo
    A girtene ti affretta. Ohimé che vago
    Arsenal minutissimo di cose
    Ciondola quindi, e ripercosso insieme
    Molce con soavissimo tintinno!
    Di costí che non pende? avvi per fino
    Piccioli cocchi e piccioli destrieri
    Finti in oro cosí, che sembran vivi.
    Ma v’hai tu il meglio? ah sì, che i miei precetti
    Sagace prevenisti: ecco che splende
    Chiuso in picciol cristallo il dolce pegno
    Di fortunato amor. Lunge, o profani,
    Ché a voi tant’oltre penetrar non lice.
    E voi, dell’altro secolo feroci
    Ed ispid’avi, i vostri almi nipoti
    Venite oggi a mirar. Co’ sanguinosi
    Pugnali a lato le campestri rôcche
    Voi godeste abitar, truci all’aspetto,
    E per gran baffi rigidi la guancia
    Consultando gli sgherri, e sol gioiendo
    Di trattar l’arme che d’orribil palla
    Givan notturne a traforar le porte
    Del non meno di voi rivale armato.
    Ma i vostri almi nipoti oggi si stanno
    Ad agitar tra le tranquille dita
    Dell’orïolo i ciondoli vezzosi;
    Ed opra è lor se all’innocenza antica
    Torna pur anco, e bamboleggia, il mondo.
    Or vanne, o mio Signore, e il pranzo allegra
    De la tua Dama: a lei dolce ministro
    Dispensa i cibi, e detta al suo palato
    E a la sua fame invïolabil legge.
    Ma tu non oblïar, che in nulla cosa
    Esser mediocre a gran Signor non lice:
    Abbia il popol confini; a voi natura
    Donò senza confini e mente e cuore.
    Dunque a la mensa, o tu schifo rifuggi
    Ogni vivanda, e te medesmo rendi
    Per inedia famoso, o nome acquista
    D’illustre voratore. Intanto addio,
    Degli uomini delizia, e di tua stirpe,
    E della patria tua gloria e sostegno.
    Ecco che umíli in bipartita schiera
    T’accolgono i tuoi servi: altri già pronto
    Via se ne corre ad annunciare al mondo,
    Che tu vieni a bearlo; altri a le braccia
    Timido ti sostien mentre il dorato
    Cocchio tu sali, e tacito e severo
    Sur un canto ti sdrai. Apriti, o vulgo,
    E cedi il passo al trono ove s’asside
    Il mio Signore: ahi te meschin s’ei perde
    Un sol per te de’ prezïosi istanti!
    Temi ’l non mai da legge o verga o fune
    Domabile cocchier, temi le rote,
    Che già piú volte le tue membra in giro
    Avvolser seco, e del tuo impuro sangue
    Corser macchiate, e il suol di lunga striscia,
    Spettacol miserabile! segnâro.




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