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Giuseppe Parini
La impostura
Venerabile Impostura
Io nel tempio almo a te sacro
Vo tentón per l’aria oscura;
E al tuo santo simulacro,
Cui gran folla urta di gente,
Già mi prostro umilemente.
Tu de gli uomini maestra
Sola sei. Qualor tu detti
Ne la comoda palestra
I dolcissimi precetti,
Tu il discorso volgi amico
Al monarca ed al mendico.
L’un per via piagato reggi;
E fai sì che in gridi strani
Sua miseria giganteggi;
Onde poi non culti pani
A lui frutti la semenza
De la flebile eloquenza.
Tu dell’altro a lato al trono
Con la Iperbole ti posi:
E fra i turbini e fra il tuono
De’ gran titoli fastosi
Le vergogne a lui celate
De la nuda umanitate.
Già con Numa in sul Tarpèo
Desti al Tebro i riti santi,
Onde l’augure potèo
Co’ suoi voli e co’ suoi canti
Soggiogar le altere menti
Domatrici de le genti.
Del Macedone a te piacque
Fare un dio, dinanzi a cui
Paventando l’orbe tacque:
E nell’Asia i doni tui
Fur che l’Arabo profeta
Sollevàro a sì gran meta.
Ave dea. Tu come il sole
Giri e scaldi l’universo.
Te suo nume onora e cole
Oggi il popolo diverso:
E fortuna a te devota
Diede a volger la sua rota.
I suoi dritti il merto cede
A la tua divinitade,
E virtù la sua mercede.
Or, se tanta potestade
Hai qua giù, col tuo favore
Che non fai pur me impostore?
Mente pronta e ognor ferace
D’opportune utili fole
Have il tuo degno seguace:
Ha pieghevoli parole;
Ma tenace, e quasi monte
Incrollabile la fronte.
Sopra tutto ei non oblìa
Che sì fermo il tuo colosso
Nel gran tempio non starìa,
Se qual base ognor col dosso
Non reggessegli il costante
Verosimile le piante.
Con quest’arte Cluvïeno,
Che al bel sesso ora è il più caro
Fra i seguaci di Galeno,
Si fa ricco e si fa chiaro;
Ed amar fa, tanto ei vale,
A le belle egre il lor male.
Ma Cluvien dal mio destino
D’imitar non m’è concesso.
Dell’ipocrita Crispino
Vo’ seguir l’orme da presso.
Tu mi guida o Dea cortese
Per lo incognito paese.
Di tua man tu il collo alquanto
Sul manc’ omero mi premi:
Tu una stilla ognor di pianto
Da mie luci aride spremi:
E mi faccia casto ombrello
Sopra il viso ampio cappello.
Qual fia allor sì intatto giglio
Ch’io non macchj, e ch’io non sfrondi,
Dalle forche e dall’esiglio
Sempre salvo? A me fecondi
Di quant’oro fien gli strilli
De’ clienti e de’ pupilli!
Ma qual arde amabil lume?
Ah, ti veggio ancor lontano
Verità mio solo nume,
Che m’accenni con la mano;
E m’inviti al latte schietto,
Ch’ognor bevvi al tuo bel petto.
Deh perdona. Errai seguendo
Troppo il fervido pensiere.
I tuoi rai del mostro orrendo
Scopron or le zanne fiere.
Tu per sempre a lui mi togli;
E me nudo nuda accogli.