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Giuseppe Parini
La tempesta
Odi Alcone il muggito
Nell’alto mar de la crudel tempesta
E la folgor funesta,
Che con tuono infinito
Scoppia da lungi, e rimbombar fa il lito.
Ahimè miseri legni,
Che cupidigia e ambizïon sospinse;
E facil’ aura vinse
Per li mobili regni
Lor speme a sciorre oltre gli Erculei segni!
Altro sperò giocondo
Tornar da ignote prezïose cave;
E d’oro e gemme grave
Opprimer col suo pondo
De la spiaggia nativa il basso fondo.
Credeva altro d’immani
Mostri oleosi preda far nell’alto;
Altro feroce assalto
Dare a gli abeti estrani,
E dell’altrui tesoro empier suoi vani.
Ma il tuono e il vento e l’onda
Terribilmente agita tutti e batte;
Nè le vele contratte
Nè da la doppia sponda
Il forte remigar, l’urto che abbonda
Vince nè frena. E in tanto
Serpendo incendïoso il fulmin fischia:
E fra l’orribil mischia
De’ venti e il buio manto
Del cielo, ognun paventa essere infranto.
E già più l’un non puote
L’alto durar tormento: uno al destino
Fa contrario cammino;
Un contro all’aspra cote
Di cieco scoglio il fianco urta e percote:
E quale il flutto avverso
Beve già rotto: e qual del multiforme
Monte dell’acque enorme
Sopra di lui riverso
Cede al gran peso; e alfin piomba sommerso.
Alcon, non ti rammenti
Quel che superbo per ornata prora
Veleggiava finora,
Di purpurei lucenti
Segni ingombrando gli alberi potenti?
A quello d’ambo i lati
Ignivome s’aprìan di bronzo bocche;
Onde pari a le rocche
Forza sprezzava e agguati
D’abete o pin contro al suo corso armati.
E l’onde allettatrici
Stendeansi piane a lui davanti: e ai grembi
Fregiati d’aurei lembi
De’ canapi felici
Spiravan ostinati i venti amici:
Mentre Glauco e i Tritoni
Pur con le braccia lo spingean più forte;
E da le conche torte
Lusingavano i buoni
Augurj intorno a lui con alti suoni.
E lungo i pinti banchi
Le Dee del mar sparse le chiome bionde
Carolavan per l’onde,
Che lucide su i bianchi
Dorsi fuggian strisciando e sopra i fianchi.
Fra tanto, senza alcuno
Il beato nocchier timor che il roda,
Dall’alto de la proda
Al mattin primo e al bruno
Vespro così cantava inni a Nettuno:
A te sia lode o nume,
Di cui son l’opre ognor potenti e grandi,
O se nel suol ti spandi
Con le fuggenti spume
O di Cinzia t’innalzi al chiaro lume.
Tu col tridente altero
Al tuo piacer la terra ampia dividi;
Tu fra gli opposti lidi
Del duplice emispero
Scorrevole a i mortali apri sentiero.
Rota per te le nuove
Con subitaneo piè veci Fortuna:
E quello, che con una
Occhiata il tutto move,
Non è di te maggior superno Giove.
Tale adulava. Or mira
Or mira, Alcon, come del porto in faccia,
Lungi dal porto il caccia
Nettuno stesso; e a dira
Sorte con gli altri lo trasporta e aggira!
E la ricchezza imposta
Indi con la tornante onda ritoglie;
E le lacere spoglie
Ne gitta, e la scomposta
Mole a traverso dell’arida costa.
Ahi qual furore il mena
Pur contra noi d’ogni avarizia schivi,
Che sotto a i sacri ulivi
Radendo quest’arena
Peschiam canuti con duo remi a pena!
Alcon, che più s’aspetta?
Ecco il turbine rio, che omai n’è sopra.
Lascia che il flutto copra
La sdrucita barchetta;
E noi nudi salvianci al sasso in vetta.
O giovanetti, piante
Ponete in terra; quì pomi inserite;
Quì gli armenti nodrite
Sotto a le leggi sante
De la natura in suo voler costante.
Quì semplici a regnare;
Quì gli utili prendete a ordir consigli;
Nè fidate de’ figli
La sorte, o de le care
Spose a l’arbitrio del volubil mare.