Library / Literary Works |
Iacopo Vittorelli
Lo specchio
Io su l’altar de la volubil moda
Sparsi devotamente e carmi e fiori,
Nè scortese privò d’ingenua loda
Le quadrilustri rime Egeria o Clori.
E, se l’affabil Dea volgasi e m’oda,
Or de lo specchio canterò gli onori,
Col suo favor narrando a parte a parte
Le cure di Madama in queste carte.
Grazie a gli Dei. Già per l’aerea mole
Gli scintillanti alipedi sospinge
Il cocchio rapidissimo del sole,
Che la metà di sua carriera attinge.
E già la vaga innamorata Jole
A sorger da le coltri omai si accinge;
Mentre ne l’anticamere Brunetta
De l’argenteo metallo il segno aspetta.
Già il chiaro tintinnio le aurette siede,
E già l’ancella fortunata avanza
Tra soglia e soglia con veloce piede
Nel sacro orror de la rimota stanza.
E subito Madama a lei richiede
Lo specchio consiglier giusta l’usanza,
Per vedere se il giglio o pur la rosa
Tinga la guancia sua fresca e vezzosa.
Sovente pallidetta avvien che sia,
Come bianco ligustro in sul mattino,
Qualor ne la sognante fantasia
Le comparve infedele il suo Lesbino.
Sovente il Rokembol cagion ne fia,
Che a lei jer sera emunse il borsellino;
Poichè nel luogo disugual contrasto
Ebbe nemica la spadiglia e il basto.
Jole si appoggia a i morbidi origlieri,
E Brunetta la stanza intanto alluma,
Finchè quel labbro intemerato anneri
Del cioccolatte la nettarea spuma.
Già su le penne a i zeffiri leggeri
L’odorifero impasto olezza e fuma;
E la beata chicchera già tocca
L’estremità de la virginea bocca.
Rinvigorito a l’utile bevanda
Il delicato stomaco languente
Le usate spoglie sue Jole domanda,
Onde balzar dal talamo repente.
Eccola in aria graziosa e blanda
Correre a la toletta immantinente,
E d’un pugno afferrar vetri bacheche
Guantiere orciuoli nei spille e manteche.
Con tale ardor fra i sibili e le brume
Del Getico aquilon, del verno crudo,
Seguendo il patrio giovanil costume,
Ippolita surgea dal terren nudo;
E a i foschi raggi del nascente lume
Correva ad imbracciar l’asta e lo scudo,
Tutta spargendo la montagna e il piano
Co le Amazzoni sue di sangue umano.
Chi raccontar varria con qual profondo
Studio de i ricci al magistero assista?
Cosa per lei non si ritrova al mondo
In cui maggiore attenzion consista.
Se fornita non è da capo a fondo,
Ella non perde il suo cristal di vista;
E il figliolin, che a vezzeggiarla prende,
Uno sguardo fuggiasco in van pretende.
Spesso Dorindo a la gentil cognata
Un libriccin fra le guantiere appresta,
Onde furtiva donile un’occhiata,
Mentre le acconcia il parrucchier la testa:
Ma Jole bruscamente o l’accommiata,
O a incartocciare le manteche ei resta;
Nè l’infingarda coltivar procura
Quell’acre ingegno, che le diè natura.
E mal ciarla talun per lo contrario
Il qual fra i maschi e fra le donne tutte
Vuol che passi in acume un gran divario;
Poichè, se fosser ne lo studio istrutte,
In qual siasi esercizio letterario
Manderiano i dottori a Calicutte;
E il Portico e la Stoa vedovi quasi
Diventerebbon floridi ginnasi.
Ogni filosofante ogni cantore,
Che dal vulgo fanatico si appella
De l’Accademia e del Liceo splendore,
Reggere non potrebbe a tal coppella.
Qual poeta di Pindaro maggiore?
Eppur lo vinse tenera donzella:
Corinna il vinse, e l’invido Tebano
Per ben tre volte provocolla in vano.
Ma già comincia a torreggiar il crine,
E Jole su lo specchio il guardo aguzza:
Compiesi l’edifizio, e tutta alfine
Per intimo piacer si ringalluzza.
Indi quelle manuccie alabastrine
Di cristallino umor l’ancella spruzza;
E su le dita de la casta Ninfa
La profumata sgorga innocua linfa.
Quinci con molle spugna o pannolino
L’intatta neve del bel viso terge,
Come far suole candido armellino,
Che a biancheggiar vie più nel rio s’immerge.
Poi di belletto acconcio e soprafino,
Quanto il vetro desia, le gote asperge;
E per lucido albore in trita polve
Le perle Comogotiche dissolve.
Se in lor tanta scopria virtù novella,
Che le seguaci età rinvenner dopo,
La regnatrice incestuosa e bella
Del Fario sen, de l’Amicleo Canopo,
Avrebbe un tempo risparmiata quella
Meravigliosa perla a simil uopo;
Di comparir fra le vivande paga
Quanto fastosa men tanto più vaga.
Nè sol Egle, Nerea, Fillinda, e Nice,
Soggette oimè! de l’iterizia a i danni,
Ricorrono dolenti a la vernice,
Che l’invido squallor tolga ed appanni:
Ma fin l’etate rancida e infelice,
Che pieno ha il dorso di magagne e d’anni,
Le rughe avvien che stranamente implichi
Di putridi color, d’unti orichichi.
Lalage appunto disparuta ed agra,
Che il lustro dodicesmo appena tocca,
Nulla ostante il catarro e la podagra
Per cui veglia la notte e il dì tarrocca,
Tutto il mattin sollecita consagra
Non a seria lettura od a la rocca;
Ma solo a specolar nel fido vetro
Il suo deforme e rincagnato spetro.
Su Persico origliero intanto accoscia
Giusto rimpetto al lucido cristallo:
Prima si guarda, si vagheggia, e poscia
Distempera la biacca ed il corallo.
Ed or la fronte rugginosa e floscia,
Ora il labbro dipinge arido e giallo:
E arrubina sul mento e su la guancia
L’insalubre color di melarancia.
Tal la vizza Fabulla a i giorni prischi
Imbellettar solea la pelle irsuta
Di fetidi cinabri untumi e vischi,
Onde giovane e bella esser creduta.
Ma i gravi danni e i perigliosi rischi
De la pioggia e del sol fuggiva astuta;
Poichè l’acqua inimica, e ’l solar astro
Disciolto arian quel triplicato empiastro.
Lalage senza specchio i suoi capricci
Nè determina mai, nè mai seconda.
Se di denti bianchissimi posticci
Le vedove gengie fascia e circonda:
Se vuole ricoprir di finti ricci
La cuticagna inaridita e monda,
O sotto arduo cuffion tenerla occulta,
Sempre lo specchio Lalage consulta.
Certo men brutta men deforme e sozza
Fu quella vecchia stomacosa un dì,
Che co l’animatrice tavolozza
Il fantastico Zeusi colorì;
Ma un riso tale chiusegli la strozza,
Poichè quel ceffo orribile compì,
Che giacquesi boccon di vita esausto
A la deformità primo olocausto.
Ma Jole impaziente ne richiama,
E vola al suo gridar la nostra Musa,
Quando co la vecchiaja insulsa e grama
Di trescar volentieri ella non usa.
Nuova beltà sul volto di Madama
In grazia del belletto or è diffusa;
E specchiandosi il labbro e le pupille
Sembra lieta sclamar: cedimi, o Fille.
Quanto compiango l’inesperta Dea,
Cui Cecrope innalzò templi ed altari,
La qual dovendo su la cima Idea
Gareggiar di beltà, giudice Pari,
Sotto a la sferza ignivoma correa
(Bella semplicità!) de’ rai solari;
Onde poi comparir nel gran litigio
Vermiglia e rubiconda innanzi al Frigio.
In così dir la vaga Jole osservo,
Che al leggiadro de’ nei costume intende,
Forse a celar quell’invido e protervo
Bitorzolino, che la gota offende.
E già dal bruno immacolato acervo
Senza nulla indugiar varj ne prende:
Col vetro si consiglia, e per capriccio
Ne attacca un su la fronte, un sotto al riccio.
Ciò fatto avvien che d’abito si cange
Presso al cristal l’affannosetta Diva;
Ed ecco sparsa di minute frange
Quasi in trionfo l’andrienne arriva:
Poi di merli e di nastri una falange
La seguita dappresso in comitiva,
E qual tributa lavorio più gajo
Batava spola o Parigin telajo.
Ma che vegg’io repente? Ah largo, largo:
Ecco il pendulo alfin cerchio solenne,
Che folcer dee lo sventolante margo
De la Gallico-italica andrienne.
Qual sia lo specchio sì mirando e largo
Che il gran volume interamente accenne?
Fortunate Nereidi! a cui la vasta
Acqua del mar per ispecchiarvi basta.
Infrascatasi appien, Jole contenta
Quanto fa, quanto puote, or si vagheggia,
E nel cristallo suo medita intenta
Come il ventaglio pertrattar si deggia,
Come la vita or celere ed or lenta
Certo languor dolcissimo richieggia;
E come stringa il suo bocchin Dameta
Nel dir Monsieur con lo sfuggevol zeta.
Oh! veramente semplice e inurbana
L’età, da cui fuggir le grazie in bando,
Che specchiava al ruscello e a la fontana
I luccicanti occhietti e il viso blando,
Poichè soffio legger d’aura lontana
La superficie liquida increspando,
Fea comparire ne l’instabil fonte
Torta la bocca e irregolar la fronte.
Oh de lo specchio nobil magistero!
Oh vivo quadro armonioso e bello,
Simile tanto ed uniforme al vero,
Che sei del ver moltiplice fratello!
Ceda spontaneo a te l’onor primiero,
Bassan, Paolo, Caraccio, e Raffaello,
O qual veleggia su i marini bordi
Pittor famoso a i taciti Milordi.
Potrei fra l’Alpi e il gelido Pirene
Del Lannese Gobin volare al lido,
Poichè su quelle industriose arene
Fondò l’arte del vetro albergo e nido.
Potrei le circostanti isole amene
De l’Adria salutar con fausto grido,
La rena mescolando in giusta norma
A quella soda, che lo specchio informa.
Potrei non meno col solerte fabbro
De la sulfurea vampa al fumo tetro
Quel mercurio natio scior dal cinabro,
Che deo lo specchio intonacare addietro.
E rivolger potrei l’esperto labbro
A soffiar da la canna il bianco vetro;
O pur, seguendo l’ingegnoso Gallo,
Colar sul desco il liquido cristallo.
Certo potrei; ma il fulgido apparecchio
Me non invita di straniera gloria.
Bastami sol che lietamente orecchio
Porga taluno a la gioconda storia:
Bastami sol che quanto il fido specchio
Di ritrar Jole al natural si gloria,
Tanto le cure e le ansietà di lei
Scopransi al natural ne’ versi miei.