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Iginio Ugo Tarchetti
I fatali
Esistono realmente esseri destinati ad esercitare un’influenza sinistra sugli uomini e sulle cose che li circondano? È una verità di cui siamo testimonii ogni giorno, ma che alla nostra ragione freddamente positiva, avvezza a non accettare che i fatti i quali cadono sotto il dominio dei nostri sensi, ripugna sempre di ammettere.
Se noi esaminiamo attentamente tutte le opere nostre, anche le più comuni e le più inconcludenti, vedremo nondimeno non esservene una da cui questa credenza ci abbia distolti, o a compiere la quale non ci abbia in qualche maniera eccitati. Questa superstizione entra in tutti i fatti della nostra vita.
Molti credono schermirsene asserendo per l’appunto non esser ella che una superstizione, e non s’avvedono che fanno così una semplice questione di parole. Ciò non toglierebbe valore a questa credenza, poichè anche la superstizione è una fede.
Noi non possiamo non riconoscere che, tanto nel mondo spirituale quanto nel mondo fisico, ogni cosa che avviene, avvenga e si modifichi per certe leggi d’influenze di cui non abbiamo ancora potuto indovinare intieramente il segreto. Osserviamo gli effetti, e restiamo attoniti e inscienti dinanzi alle cause. Vediamo influenze di cose su cose, di intelligenze su intelligenze, e di queste su quelle ad un tempo; vediamo tutte queste influenze incrociarsi, scambiarsi, agire l’una sull’altra, riunire in un solo centro di azione questi due mondi disparatissimi, il mondo dello spirito e il mondo della materia.
Fin dove la penetrazione umana è arrivata noi abbiamo portato la nostra fede; il segreto dei fenomeni fisici è in parte violato; la scienza ha analizzato la natura; i suoi sistemi, le sue leggi, le sue influenze ci sono quasi tutte note: ma essa si è arrestata dinanzi ai fenomeni psicologici, e dinanzi ai rapporti che congiungono questi a quelli. Essa non ha potuto avanzarsi di più, e ha trattenuto le nostre credenze sulla soglia di questo regno inesplorato. Poichè nell’ordine dei fatti noi possiamo ammettere delle tesi generali, delle verità complesse; non nell’ordine delle idee.
Dove i fatti sono incerti, le idee sono confuse. Avvengono fatti che non presentano un carattere deciso, sensibile, ben definito, e che la nostra ragione calcolatrice non sa se negare od ammettere. Vi sono perciò idee incomplete, oscure, fluttuanti, che non possono presentarsi mai sotto un aspetto chiaro, e che non sappiamo se accettare o respingere. Questa incertezza di fatti, questa incompletazione di idee, questo stato di mezzo tra una fede ferma e una fede titubante, costituiscono forse ciò che noi chiamiamo superstizione — il punto di partenza di tutte le grandi verità. Perchè la superstizione è l’embrione, è il primo concetto di tutte le grandi credenze.
Qualora io vedo una superstizione impadronirsi dell’anima delle masse, io dico che in fondo ad essa vi è una verità, poichè noi non abbiamo idee senza fatti, e questa superstizione non può essere partita che da un fatto. Se esso non si è ancora rinnovato e generalizzato per confermarla, egli è che la via dell’umanità è lunga — più lunga quelle delle cose — e nessuno può determinare il tempo e le circostanze in cui potrà ripetersi. Gli uomini hanno adottato un sistema facile e logico in fatto di convenzioni; ammettono ciò che vedono, negano ciò che non vedono; ma questo sistema non ha impedito finora che essi abbiano dovuto ammettere più tardi non poche verità che avevano prima negate. La scienza e il progresso ne fanno fede. Del resto, comunque sia, per ciò che è fede nelle influenze buone e sinistre che uomini e cose possono esercitare sopra di noi, non v’è uomo che non ne abbia una più o meno salda, più o meno illuminata, più o meno confermata dall’esperienza della vita. Tutto al più si tratterebbe di riconoscere se essa abbia o no ragione di essere, e fino a qual punto debba venire accettata, non di negarla — poichè l’esistenza di questa fede è indiscutibile.
Io ne trovo dovunque delle prove. Per me l’antipatia non è che una tacita coscienza dell’influenza fatale che una persona può esercitare sopra di noi. Nelle masse ignoranti questa coscienza ha creato la jettatura, nelle masse colte la prevenzione, le diffidenza, il sospetto.
Non v’è cosa più comune che udire esclamare: «quell’uomo non mi piace — non vorrei incontrarmi per via con quella persona — mi fa paura — d’innanzi a lui io non sono più nulla — ogni qualvolta mi sono imbattuto in quell’uomo mi è accaduta una sventura.» Nè questa fede che si presenta sotto tanti aspetti, che quasi non avvertiamo, che è pressochè innata con noi come tutti gli istinti di difesa che ci ha dato la natura, è sentita esclusivamente da pochi uomini — essa è, in maggiori o minori proporzioni, un retaggio naturale di tutti.
Questa superstizione accompagna l’umanità fino dalla sua infanzia, è diffusa da tutti i popoli. Gli uomini di genio, quelli che hanno molto sofferto, vi hanno posto maggior fede degli altri. Il numero di coloro che credettero essere perseguitati da un essere fatale è infinito: lo è del paro il numero di quelli che credettero essere fatali essi stessi, Hoffman, buono ed affettuoso, fu torturato tutta la vita da questo pensiero.
Non giova dilungarsi su ciò, perchè la storia è piena di questi esempi, e ciascuno di noi può trovare nella sua vita intima le prove di questa credenza quasi istintiva.
Io non voglio dimostrarne nè l’assurdo nè la verità. Credo che nessuno lo possa fare con argomenti autorevoli. Mi limito a raccontare fatti che hanno rapporto con questa superstizione.
* * *
Nel carnevale del 1866 io mi trovava a Milano. Era la sera del giovedì grasso, e il corso delle maschere era animatissimo. Devo però fare una distinzione — animatissimo di spettatori, non di maschere. Chè se la taccia di fama usurpata, così frequente, e spesso così giusta in arte, potesse applicarsi anche alle feste popolari, il carnevale di Milano ne avrebbe indubbiamente la sua parte. Queste feste non sono più che una mistificazione, ed hanno ragione di esserlo, giacchè le migliaja di forastieri che vengono annualmente ad assistervi non sono però meno convinti di divertirsi. Tutto stava nell’istillar loro la persuazione che il carnevale di Milano fosse la cosa più comica, più spiritosa, più divertente di questo mondo. Una volta infuso questo convincimento, non erano più necessari i fatti per confermarlo — lo scopo di divertire era ottenuto.
Comunque fosse, il Carnevale del 1866 non era meno animato degli altri, e nelle prime ore della sera del giovedì grasso, la popolazione si era versata sulle strade a torrenti. La folla aveva talmente stipate le vie che in alcuni punti era impossibile muoversi e presso la crociera della via di S. Paolo, ove mi trovava io, si era letteralmente pigiati.
Gli onesti milanesi si frammischiavano fraternamente ai forestieri, e si inebbriavano del piacere di guardarsi l’un l’altro nel bianco degli occhi — ciò che costituisce l’unico, ma ineffabile divertimento di questo celebre Carnevale.
Non so da quanto tempo io mi trovassi colà, in piedi, in mezzo a quella gran ressa, in una posizione incomodissima, allorchè voltandomi per vedere se v’era mezzo di uscirne, osservai intorno a me uno spettacolo assai curioso.
La folla non si era diradata, ma si era ristretta in modo da lasciare in mezzo a sè uno spazio circolare abbastanza vasto. Nel centro di questo circolo miracoloso v’era un giovinetto che non mostrava aver più di diciotto anni, ma cui, a guardarlo bene, se ne sarebbero dati venticinque, tanto il suo volto appariva patito, e tante erano le traccie che v’erano impresse d’una esistenza travagliata e più lunga. Era biondo e bellissimo, eccessivamente magro, ma non tanto che la bellezza dei lineamenti ne fosse alterata; aveva gli occhi grandi ed azzurri, il labbro inferiore un po’ sporgente, ma con espressione di tristezza più che di rancore; tutta la sua persona aveva qualche cosa di femminile, di delicato, di ineffabilmente grazioso, qualche cosa di ciò che i francesi dicono souple, e che io non saprei esprimere meglio con altra parola della nostra lingua. La purezza e l’armonia delle sue linee erano meravigliose; egli vestiva con estrema eleganza; e guardava quà e là, un poco alla folla e un poco alle maschere, con aria malinconica e divagata come se si trovasse in quel luogo a suo dispetto, e fosse più occupato di sè che dello spettacolo poco allettante che aveva d’innanzi allo sguardo.
Ma ciò che mi era parso rimarchevole era che egli sembrava non essersi avveduto di quel circolo che s’era formato d’intorno a lui, nè alcuni di quelli stessi che lo avevano formato mostravano di averci posto mente. Non era nulla in ciò di veramente straordinario; pure l’esistenza di uno spazio così vasto in mezzo ad una folla così fitta, in mezzo ad una moltitudine che si moveva, fremeva, ondeggiava come un corpo solo, senza riempire mai il vuoto che s’era formato in quel punto, mi pareva cosa meritevole di attenzione. Si sarebbe detto che da quel giovine emanasse un fluido ripulsivo, una virtù misteriosa atta ad allontanare da lui tutto ciò che lo circondava.
In quell’istante che io lo stava guardando, essendogli stati gettati alcuni confetti, di cui parecchi si fermarono tra le pieghe del suo mantello che teneva avviluppato sul braccio, un fanciulletto si spiccò dal circolo e gli venne d’appresso quasi per domandarglieli, giacchè egli nè li aveva presi, nè aveva scosso il mantello per farli cadere.
Il giovine lo guardò con affetto, raccolse le confetture, gliele diede; e prima che si allontanasse gli passò una mano tra i capelli con una specie di tenerezza piena di soavità e di malinconia.
Egli aveva posto tanto affetto in quell’atto che, ove anche la natura non lo avesse dotato di un volto così dolce e così simpatico, lo si sarebbe subito giudicato buono e cortese.
È un fatto che il volto è lo specchio dell’anima: non si può indovinare se la natura abbia dato ella stessa un’espressione buona ai buoni, e cattiva ai cattivi; o se la bontà e la malvagità umana possano talmente agire sulle nostre fattezze da modificarle e da imprimervi il loro suggello; ma egli è ben certo che il cuore trasparisce dal viso, anche da quelli la cui bellezza vorrebbe nascondere un animo turpe, o la cui laidezza uno onesto.
Io non mi sarei stancato mai di guardarlo. Non so se le affezioni degli altri uomini sieno governate da questa legge di simpatie e di antipatie improvvise, energiche, inesorabili cui vanno soggette le mie, — per me l’innamorarmi di un uomo o di una donna, il concepire un’inclinazione od un’avversione irresistibile per una creatura qualunque non fu mai opera che di pochi minuti — ma mi ricordo che l’avrei abbracciato lì sulla via, tanto l’espressione del suo volto era affettuosa, tanto quel linguaggio andava dritto al cuore, senza dar campo alla ragione di discuterci sopra.
Non mi mossi di là finchè non se ne mosse egli pure. La festa incominciava a languire, la folla incominciava a diradarsi, e il crepuscolo ad avvolgere tutta quella scena in un penombra grigia e pesante. Eravamo a due passi da un caffè, ed egli vi entrò con aria d’uomo che non sa come passare il suo tempo, che sente il peso delle sue braccia, delle sue gambe, di tutta la sua persona, e che vorrebbe sbarazzarsene e buttarlo là sopra un divano come un fardello noioso ed inutile. Io era nello stesso caso, non aveva che fare, e gli tenni dietro.
Ci sedemmo di faccia, io a guardarlo, egli a leggere. Se non che egli pareva sì poco occupato della sua lettura, che se anche avesse afferrato il giornale pel rovescio credo che non se ne sarebbe avveduto. I suoi occhi erano fissi sulle colonne di quel diario, ma sembravano guardare di dentro piuttostochè di fuori, parevano aver concentrata tutta la loro virtù visiva in sè medesimi, e non occuparsi che di ciò che avveniva nell’animo del giovine.
Io non aveva però avuto che il tempo di fare questa riflessione, allorchè dietro la vetrina della finestra scorsi un nuovo affollarsi di gente e sentii come delle grida femminili; stavo per alzarmi allorchè si aperse la porta del caffè, e ne fu recato dentro un fanciullo svenuto, il quale era stato travolto dalle ruote di una vettura, e ne aveva avuto un braccio spezzato. Rimasi dolorosamente colpito dal riconoscere in quel fanciullo quello stesso che l’incognito aveva accarezzato in mezzo a quel circolo, e a cui aveva regalato i confetti caduti sul suo mantello. Per un moto istintivo diressi lo sguardo dalla sua parte, e lo scorsi nell’istante che usciva frettolosamente dalla sala. Il suo volto riflesso in quel momento da uno specchio che era di fronte a me, mi parve pallidissimo.
Io abbandonai poco dopo quel caffè in preda a tristi pensieri.
In quella sera stessa doveva aver luogo alla Scala una rappresentazione straordinaria.
L’opera annunciata era la Sonnambula, e il pubblico vi era accorso numeroso ad ascoltare quella musica divina, così piena, così complessa nella sua semplicità, così affettuosa. Si era rappresentata poco prima l’ Africana — da Mayerbeer a Bellini la differenza almeno, se non la distanza, era ben grande. Il teatro era illuminato a giorno, la platea era stipata di uditori; e non v’erano altri palchi vuoti da cinque o sei all’infuori, posti tutti nello stesso punto; e in uno dei quali riconobbi con mia grande sorpresa il giovine che aveva veduto poco prima assistendo al corso delle maschere.
Egli era solo e non mi sembrava più nè sì triste, nè sì pensieroso. Vestiva un abito nero molto elegante, ma nulla dimostrava che fosse avvezzo a prendere gran cura della sua persona. Non so se fosse inganno mio, o allucinazione, e che altro, ma egli mi pareva straordinariamente bello, assai più di quanto mi fosse sembrato poche ore prima.
Vi era sul suo volto qualche cosa di luminoso, qualche cosa di quella trasparenza profonda, benchè torbida, benchè appannata, che ha l’alabastro. Egli aveva difatto la stessa pallidezza: a non guardarne gli occhi, a non esaminare la mobilità prodigiosa dei lineamenti, lo si sarebbe detto morto o impietrito. I suoi capelli conservavano ancora quella finezza, quella arrendevolezza, quella lucidità, quell’arricciamento semplice e naturale che hanno i fanciulli; erano di un biondo meraviglioso, e lucevano come fili d’oro al riflesso delle fiamme dei candelabri. Teneva appoggiato il gomito al parapetto, e la guancia sulla mano: la sua testa così inclinata pareva ancora più bella. Egli aveva quella specie di bellezza che hanno le donne, e che ritrae dalla luce un prestigio misterioso e affascinante. A contemplare dalla platea — d’onde non si vedeva il resto della persona — quella sua testa così diafana e così bianca, la si sarebbe creduta appartenere ad un fanciullo, ad una creatura fragile e delicata, forse ad un essere sopranaturale.
Io solo aveva rimarcato cosa che mi pareva avere una strana relazione con ciò che aveva osservato prima al corso delle maschere, voglio dire quel trovarsi egli così isolato in un palco intorno al quale ve n’erano cinque o sei altri vuoti, mentre non era possibile vederne da tutte le altre parti del teatro un solo che non fosse occupato — bisognava aver osservato prima l’accidente del circolo, per trovar causa di meraviglia in questo fatto, — ma gli spettatori erano stati unanimi nell’avvertire la sua bellezza e nell’ammirarla, nè tardai ad accorgermi che le signore sopratutto ne erano state colpite, e gareggiavano nel dirigere i loro cannocchiali verso il suo palco.
Tra quelle di esse che erano riuscite ad attirarsi più facilmente la sua attenzione, vi era una fanciulla che era pure assai bella, ed occupava un palco non molto lontano da quello del giovine. Come avviene a tutte le ragazze veramente ingenue, non di quella ingenuità convenzionale che esse devono ostentare spesso come una parte di commedia, fino a che il marito non le autorizza a rappresentare una parte diversa, ma di quella ingenuità vera che ha la sua radice nella verginità della mente e del cuore, essa ne era rimasta fortemente e subitamente impressionata. Era troppo giovine per sapersi già infingere, e credo di non essere stato io solo ad avvedermi del suo turbamento e della sua agitazione.
Assistetti per un po’ di tempo a quella specie di rapporto misterioso che s’era stabilito tra di loro, mi cacciai come un intruso in quella specie di corrente magnetica che avevano formato i loro sguardi; poi quasi vergognandomi di quello spiare, di quell’ammiccare alla loro felicità, come un pitocco che assista ad un banchetto dalla soglia della stanza, e non possa fruire che del profumo delle salse e delle vivande, mi raccolsi in me stesso, e procurai di rivolgere tutta la mia attenzione allo spettacolo dell’opera.
Dico che me n’era vergognato, ma per me solo. Che se v’è qualche cosa al mondo, d’innanzi alla quale io non sappia nè sogghignare per sprezzo nè piangere per pietà, è la vista di due persone che si amano. Mi sono cacciato spesso di notte sotto i viali pubblici, sotto i boschetti di tigli, appositamente per incontrarvi qualche coppia d’innamorati; e non mi venne mai di passar vicino ad una di esse senza sentirmi compreso da un sentimento di rispetto profondo. Lo confesso, furono quelli i soli istanti della mia vita, in cui i miei simili mi sieno sembrati meno tristi del solito.
Era così riuscito a poco a poco ad occuparmi interamente della rappresentazione, e non aveva più alzato gli occhi verso il palco di quello sconosciuto, allorchè avvedendomi d’un movimento improvviso che si manifestava negli spettatori, e scorgendo la folla addensarsi verso la porta, mi mossi io pure e entrato a stento nel vestibolo, vidi passarvi due signori che reggevano sulle loro braccia una fanciulla svenuta, e la trasportavano in una delle sale del teatro.
Non dirò quale fosse la mia meraviglia nel ravvisare in lei quella stessa fanciulla che aveva guardato con tanto affetto e con tanta insistenza il mio incognito. Tutto ciò che era accaduto non poteva essere stato che un capriccio del caso: pure era la seconda volta nel termine di poche ore, che io vedeva una persona alla quale egli aveva dato segno di predilezione, venir colpita improvvisamente da una sventura.
Rientrai nella platea.
Egli occupava ancora il suo posto, era rimasto nella posizione di prima colla guancia appoggiata alla mano; ma il suo volto coloritosi improvvisamente di un rossore vivace, era tornato in un istante di una pallidezza cadaverica. Non era difficile accorgersi che egli soffriva, che s’era avveduto degli sguardi curiosi e quasi reprensivi di cui era fatto oggetto, e che non era rimasto immobile al suo posto che per dissimulare la sua commozione, e per non accusare in certo modo quella specie di complicità che aveva avuto in quell’avvenimento.
Allorchè parve che il pubblico avesse cessato di occuparsi di lui, egli uscì dal teatro, e ne uscii io pure.
Nessuno conosceva forse il caso assai più deplorevole che aveva avuto luogo poche ore prima: nessuno aveva forse rimarcata la circostanza singolare e incomprensibile di quella specie di vuoto che egli pareva formare intorno a sè, nè aveva posto mente ai rapporti che sembravano congiungere tutti questi fatti, ma io ne era tutto in pensiero. Era evidente esservi in lui qualche cosa di inesplicabile e di fatale.
Io lo aveva veduto solo nel seno di uno spazio formato quasi miracolosamente in mezzo ad un folla fittissima, aveva veduto rinnovarsi lo stesso caso in un teatro ripieno di spettatori; aveva veduto un fanciullo che aveva ricevuto le sue carezze venir travolto dalle ruote di una carrozza, e una fanciulla osservata da lui, essere colta da un malessere improvviso. Non mi pareva possibile che una pura combinazione avesse dato luogo a questa serie di avvenimenti. E se così non era, chi era dunque egli? Quale era l’influenza che poteva esercitare quell’uomo?
* * *
Otto giorni dopo io mi trovava al caffè Martini — quel convegno di artisti che non lavorano, di cantanti che non cantano, di letterati che non scrivono, e di eleganti che non hanno uno spicciolo — e si parlava, raccolti in buon numero attorno ad un tavolo, d’una specie di pasticcio di nuova invenzione, qualche cosa di consimile al pudding, che era stato aggiunto quel giorno alla nota delle vivande del ristorante.
Da questo soggetto la conversazione era caduta, filtrando per l’idea del pudding e dell’oca di cui le classi ricche a Londra usano regalare le classi povere nel giorno di Natale, sul discorso che la regina d’Inghilterra aveva fatto allora al parlamento.
Una frase di questo discorso aveva dato un gran colpo alla discussione e l’aveva gettata di balzo sulle eventualità d’una guerra in Italia. Da ciò, giù per la china delle opinioni e delle antiveggenze personali si era arrivati ai pronostici; e dai pronostici ai presagi; e da questi, entrando nel campo della vita intima, alle fatalità, alle stregature, alle malie; per modo che cinque minuti dopo aver difeso a spada tratta l’eccellenza di questo pasticcio di nuova invenzione, io raccontava a quel circolo di sfaccendati gli avvenimenti incomprensibili di cui era stato testimonio pochi giorni prima a proposito di quel giovine incognito.
Inutile dire che si rise di me e che non mi si volle prestar fede; il fatto della fanciulla svenuta poche sere innanzi era bensì noto, ma le cause, dicevano essi, dovevano essere diverse. Nondimeno il soggetto di questa nuova deviazione del nostro discorso era stato trovato interessante, e la conservazione dopo aver fluttato su tanti argomenti, si era arrestata saldamente su questo. Ciascuno esponeva le proprie idee, ciascuno aveva qualche cosa a raccontare a questo riguardo. E come avviene ogni qualvolta ci affacciamo a questo mondo pauroso dell’incomprensibile e del soprannaturale, che se ne ride da principio per ostentazione di coraggio e si finisce coll’atterrirsi di ciò che si ascolta, e spesso di ciò che abbiamo raccontato noi stessi, ciascuno di noi si sentiva compreso da un sentimento misto di paura e di meraviglia, e si affannava a riannodare e a rinfocare la conversazione ogni qualvolta questa mostrava di languire, con quell’insaziabilità che hanno i fanciulli di ascoltare i racconti spaventevoli dei maghi e delle fate.
Avevamo pressochè esaurito tutto il repertorio delle nostre cognizioni su questa tesi, allorchè un vecchio artista da teatro che tutti noi conosciamo da tempo — una dalle cariatidi più celebri di quel caffè — si alzò da un tavolo vicino da cui era stato ascoltando, e venne a prender posto nel nostro circolo.
— Il signore ha ragione, diss’egli, accennandomi col dito. Io non conosco il giovine di cui egli ha parlato poco fa, e non posso far fede dell’influenza che gli attribuisce, ma che esistano uomini siffattamente fatali, anzi assai più fatali di quel giovine, non è cosa da potersi mettere in dubbio. Chi di voi ha sentito nominare il conte Corrado di Sagrezwitcth?
— Nessuno.
— È strano, giacchè egli si è formato in quasi tutti gli Stati d’Europa e in molte delle provincie degli Stati Uniti una terribile reputazione. Egli è considerato come l’uomo più fatale di cui si abbia memoria, la sua presenza segnala dovunque una sventura immancabile, egli si è trovato sempre sul teatro delle calamità più terribili, ha assistito ai disastri più spaventosi. Egli si trovava nell’America del Sud allorchè bruciò la chiesa di S. Jago in cui perirono più di mille persone; egli viaggiava or fanno due anni sulla ferrovia del Pacifico allorchè avvenne quello scontro in cui perdettero la vita più di trecento viaggiatori; egli era a Pietroburgo allorchè rovinò il palazzo del principe di Jakorliff in cui tante nobili dame e tanti dignitari dello Stato trovarono la morte. Nelle miniere irlandesi e in quelle di Alstau Moor in Scozia — luoghi che egli ha spesso visitati — il suo nome non viene ascoltato mai senza spavento; ogni sua visita ha segnalato qualcuna di quelle catastrofi che sono tanto frequenti e tanto temute nelle miniere. Il conte di Sagrezwitcth è stato già parecchie volte in Italia; vuolsi che egli si trovasse a Torino all’epoca della convenzione allorchè avvennero i fatti luttuosi di settembre, ma nessuno, per quanto io sappia, ve lo ha veduto.
— E voi lo conoscete?
— L’ho incontrato quattro volte ne’ miei viaggi. Voi sapete che io ho percorso come artista e come impresario teatrale, quasi tutta l’Europa e una buona metà del Nuovo Mondo. È forse perciò che ho potuto essere edotto dell’esistenza di quest’uomo straordinario, e conoscerlo personalmente. La prima volta che lo vidi fu a Berlino dove esordii nel capolavoro di Mozart colla parte di D. Giovanni. Lo incontrai poscia in una sala di caffè a Nuova York, allorchè ferveva ancora in America la guerra di secessione, e precisamente alla vigilia dell’ultima disfatta dei separatisti, e la terza volta che mi imbattei con esso fu di nuovo a Berlino....
— E di che paese è egli?
— Alcuni vogliono americano, alcuni polacco. Nessuno ne conosce con certezza la patria, forse nemmeno il nome. In America si faceva chiamare coll’appellativo di Duca di Nevers, in Europa conservò sempre il nome di conte di Sagrezwitcth; i minatori scozzesi lo chiamano l’uomo fatale. Egli parla correttamente molte lingue, ha le abitudini e i costumi di tutti i paesi che ha visitato; in Italia è italiano, in Inghilterra è inglese, e in America è americano modello...
— E che età può avere?
— Mostra cinquant’anni, ma i suoi capelli e la sua barba nerissima non hanno ancora alcun segno di canizie. È un uomo di statura mezzana, di aspetto antipatico, benchè le sue fattezze sieno regolari e in qualche modo leggiadre. Porta quasi sempre nell’inverno un berretto di pelo a foggia di turbante, e suol vestire volontieri i costumi dei paesi in cui si trova. A giudicarne dallo sperpero che egli fa ordinariamente del suo danaro, lo si direbbe assai ricco; nondimeno fu visto parecchie volte alloggiarsi in osterie di second’ordine, e tenere un regime di vita molto economico. A Nuova York, per esempio, era bensì alloggiato all’albergo del Fifth-Avenue, quel colosso di marmo che ha mille e duecento stanze, ma vi occupava un letto della sala di riposo concessa ai viaggiatori che dispongono di mezzi assai limitati. È fama che egli abbia coscienza della sua fatalità, e che si compiaccia di esercitarla. Quel suo recarsi continuo da un capo all’altro del mondo non può essere senza uno scopo. Del resto si sa che egli non ebbe mai affetti, non amicizie, forse nemmeno conoscenze, toltene alcune poche e superficialissime. Coloro che ne conoscono la potenza lo sfuggono per progetto, quelli che la ignorano, per istinto. — Che vi sieno persone che gli negano questo potere, questa specie di missione arcana e terribile, riprese egli vedendo che alcuni di noi sorridevano con aria di incredulità, è cosa naturalissima. Nessuno può provare che le sciagure avvenute nei luoghi ove egli si è trovato, e negli istanti in cui vi si è trovato, abbiano avuto una causa nella sua volontà, o in ciò che noi chiamiamo la sua influenza. Egli è d’altronde un uomo come tutti gli altri; parla, veste, opera come tutti gli altri; volendo è affabile e gentiluomo, vi è nulla a che opporre; ma parmi cecità il negare cosa che la maggior parte degli uomini ha ammesso, il negare perchè non si comprende.
— Noi non neghiamo, gli diss’io, dubitiamo. Ma, a proposito, avete dimenticato di dirci dove l’avete incontrato la quarta volta.
— Ah! riprese egli un poco rassicurato dalle mie parole. Quest’ultimo incontro ha una data molto recente. Io lo vidi due mesi or sono a Londra, allorchè vi bruciò il teatro della regina. Seppi anzi che egli aveva intenzione di passare presto in Italia, e se egli ha scelto questa stagione per venirvi, vi è nulla di più probabile che le feste del carnovale lo abbiano condotto a Milano.
— A Milano!
— Sì, e desidererei che lo vedeste. Non so dirvi il motivo di questo desiderio, pure mi sembra che al solo vederlo potreste comprendere il perchè di tante cose che io non posso spiegarvi; mi pare che non potreste più dubitare della verità della mia asserzione. — Osservereste, riprese egli dopo qualche istante, una cosa assai rimarchevole nel suo abbigliamento, voglio dire la freschezza e la finezza de’ suoi guanti che egli suole mutare più volte in un sol giorno, per modo che nessuno l’ha mai veduto a mani scoperte; e un’altra singolarità non meno notevole nella sua persona, cioè la potenza del suo sguardo, un non so che di magnetico e di inesplicabile che vi è in lui, e che vi sforza quasi a guardarlo e a salutarlo vostro malgrado.
— A salutarlo! esclamammo noi sorridendo.
— Sì, a salutarlo.
— Oh! vorrei vederlo!
— Davvero!
— Vorremmo vederlo!
In quell’istante — potevano essere le due dopo mezzanotte — si aperse l’uscio del caffè, e un uomo pingue e tarchiato entrò nella sala. Al ritratto che ci era stato delineato poco prima, al berretto di pelo, alle mani calzate da guanti freschissimi, all’espressione singolare del suo volto, noi non tardammo a riconoscere in lui l’uomo di cui si era parlato. Allora, o fosse meraviglia, o fosse confusione di idee prodotta da quella sorpresa, ci alzammo unanimemente a salutarlo. Egli portò la mano al berretto con atto di cortesia schietto ma moderato, e si sedette all’altra estremità della stanza.
Io non posso esprimere la confusione, la meraviglia, il dispetto che s’impadronì di noi in quell’istante. Comprendevamo di esserci mostrati deboli verso di lui, verso di noi stessi, di esserci mostrati fors’anche ridicoli. Ciascuno era rimasto assorto in questo pensiero, nè aveva osato riprendere la parola. Il silenzio aumentava la nostra confusione.
L’incognito chiese una tazza di punch che bevve avidamente. Gettò sulla guantiera uno scudo d’argento, e respinse al cameriere il residuo del prezzo della sua bibita. Il cameriere nell’allontanarsi inciampò del piede nell’estremità della sua sedia e cadde; la guantiera essendogli scivolata di mano, percosse del volto sui cocci della tazza che si era spezzata, e si ferì in modo che il viso gli si coperse in un istante di sangue.
A quella vista ci alzammo tutti come mossi da una sola volontà, e uscimmo a precipizio dalla sala.
* * *
Nei primi giorni della mia residenza a Milano aveva dovuto quasi mio malgrado, stringere conoscenza con una famiglia, la quale per mediazione di amici, mi aveva reso anni prima alcuni servigii assai utili. Abitava essa una di quelle casupole grigie e isolate che fiancheggiano il naviglio dalla parte occidentale della città — una vecchia casupola a due piani che il tetto sembrava comprimere e schiacciare l’uno sull’altro come una cappa pesante di piombo, tanto erano bassi ed angusti. Correvanle tutto all’intorno alcuni assiti neri e tarlati su cui si arrampicavano delle zucche nane e dei convolvoli malati di clorosi.
Un setificio vicino l’avvolgeva notte e giorno in un’atmosfera di fumo, l’umido del naviglio aveva prodotto qua e là alcune rifioriture nell’intonaco esterno delle pareti, e le aveva rivestite di muffa e di piccole pianticelle di acetosa; nubi di moscherini entravano per la bocca e pel naso al primo affacciarsi alla finestra; e il cicaleccio, e lo sbattere, e il canticchiare delle lavandaie che risciacquavano, e sciorinavano su quegli assiti e su quelle zucche produceva da mattina a sera un baccano continuato e assordante.
Non vi sono forse a Milano cento persone le quali abitino nel centro della città, e conoscano con esattezza quella parte de’ suoi dintorni. Milano è la miniatura esatta di una gran città; ha in piccole proporzioni tutto ciò che è proprio delle grandi capitali. Quel lembo estremo di case che costeggia il naviglio da Porta Nuova a Porta Ticinese è ciò che è la Marinella a Napoli, ciò che è il Temple a Parigi, ciò che è Seven-dials a Londra.
Avverso, mezzo per istinto, mezzo per progetto, a conoscere nuove cose e nuove persone, io ho sempre considerato una conoscenza nuova come un peso nuovo aggiunto alla mia vita — non aveva avuto però a dolermi di quella. Era una famiglia di onesti negozianti arrichitasi mediocremente nel commercio, e venuta ad alloggiare in quella casa solitaria per godervi in pace la piccola fortuna che aveva raggranellato.
Silvia l’unica erede di quella fortuna, era una delle più splendide bellezze che io avessi mai veduto, e non aveva che diciasette anni allorchè io la conobbi. Non era una di quelle beltà fine e delicate che preferiamo spesso alle beltà robuste — l’amore ha fatto da alcuni anni un gran passo verso lo spiritualismo — ma la sua bellezza, benchè ineffabilmente serena benchè fiorente di tutti i vezzi della gioventù e della salute era temperata da qualche cosa di gentile e di pensieroso che non hanno ordinariamente le bellezze di questo genere. Nè io potrei dirne di più; ciascuno di noi porta in sè un ideale diverso di bellezza, e quando si è detto d’una donna: è leggiadra, si è detto tutto ciò che si può dirne. Un pittore, uno scultore potrebbero darne nella loro arte un immagine meno incompleta, la letteratura non lo può — le altre arti parlano ai sensi, la letteratura alle idee. Ho veduto due incisioni di Jubert, due angeli simboleggiati da due giovinette nude, paffute, rosate, per ciò che è colorito e pienezza di forme, due vere popolane; eppure l’artista aveva saputo dare a quei volti tanta spiritualità che incantavano e non si potevano guardare senza restarne rapiti. Nelle madonne del Carraccio ho osservato lo stesso contrasto. La bellezza di Silvia era di questo genere, risolveva in certo modo lo stesso problema — la spiritualità della materia.
Essa era una di quelle anime semplici, pie, modeste che non sanno aver mai alcun rancore colla vita, ricche di quella cara fatuità che la natura ha dispensato con tanta larghezza alla donna, felici nell’ordine e nella quiete che la loro semplicità medesima ha creato intorno ad esse, e che l’assenza delle loro passioni non può mai turbare.
Durante le mie prime visite, aveva conosciuto in quella famiglia un cugino di Silvia, certo Davide, giovine maturo e positivo che era giunto da poco a Milano, e che era stato un tempo interessato negli affari commerciali di quella casa. Pericoloso come tutti i cugini — non so se parimenti fortunato — non m’era stato difficile accorgermi che egli amoreggiava la fanciulla. Come tutti gli altri uomini non era nè bello, nè brutto — la bellezza dell’uomo è una cifra di cui non si è ancora trovato il valore, anche per la maggior parte delle donne non è che una cosa insignificante; noi cerchiamo nell’uomo un carattere, le donne vi cercano semplicemente un uomo — sono esse che hanno creato quel noto aforismo: un uomo è sempre bello.
Io confesserò che quella scoperta era stata uno dei motivi essenziali che m’avevano indotto a trascurare la conoscenza di quella famiglia. Io non aveva posto occhio nè sulla dote, nè sulla bellezza di Silvia, ma aveva compreso che l’amore di Davide che io credeva corrisposto mi poneva d’innanzi a lui in una certa quale inferiorità di cui mi sentiva umiliato. In ogni uomo che avvicina una donna si suppone il desiderio di corteggiarla; in due uomini che l’avvicinano a un tempo si suppone quasi il dovere di lottare per ottenerne la preferenza. Almeno la società ed il cuore umano hanno ancora di tali pregiudizii: abbiamo mutato vocaboli, ma non abbiamo mutato cose e passioni: presso ogni circolo di donne vi è ancora una piccola corte d’amore intima dove si combatte ad armi cortesi per l’affetto di una dama preferita. E poi io mi sono sempre sentito sì meschino dinnanzi ad un uomo positivo, che non mi bastò mai l’animo di impegnarmi in una lotta qualunque con un nemico siffatto. Che cosa è egli un dotto, un letterato, un sapiente al confronto di ciò che noi chiamiamo un uomo di mondo? È pur poca cosa l’ingegno! Come gli uomini ignoranti, col loro buon senso borghese, grossolano, triviale ci avanzano nella scienza e nella pratica delle cose! Noi non facciamo che inciampare come fanciulli a tutti i più piccoli scogli della vita!
Questa coscienza della mia inferiorità aveva dunque reso meno frequenti le mie visite — io ho ora nella stessa città in cui abito conoscenza di famiglie che mi reco a visitare ogni tre o quattro anni, come tornassi da un viaggio di circonvoluzione attorno al globo — e più tardi, morto il padre di Silvia, che era delle persone della famiglia quella cui era più specialmente obbligato, ne aveva preso pretesto per troncarle completamente.
Era trascorso così pressochè un anno allorchè, pochi giorni dopo quella singolare comparsa del conte di Sagrezwitcth al caffè Martini, m’imbattei in Davide che non aveva più veduto da quel tempo e che mi parve molto mutato.
Egli mi strinse le mani e mi guardò con espressione triste e turbata — quell’espressione mista di ritegno e di confidenza che hanno coloro i quali vogliono farvi comprendere di avere un segreto doloroso, e di non volervelo confidare.
— Non vi si è più veduto in casa di mia cugina, mi diss’egli, la vostra assenza improvvisa ha prodotto una sorpresa un poco penosa in quella famiglia. Perchè voi sapete che mia zia aveva molta confidenza in voi, e poi... si era presa l’abitudine di vedervi. Se sapeste! sono avvenute nuove sciagure in quella casa; Silvia sta per morire....
— Per morire!
— Sì, la poveretta è travagliata da una malattia di consunzione, una malattia misteriosa che i medici non sanno nè conoscere nè definire più esattamente, ma che hanno dichiarata inguaribile. Essa doveva prender marito....
— Voi forse?
— Non io, diss’egli tristamente, un ricco forestiero a cui mi ha posposto, e pel quale ha concepito una passione di cui non l’avrei mai creduta capace. Essa doveva sposarlo allorchè cadde malata, e queste nozze, ancorchè le si facciano ora come credo che abbiano risolto, non potranno aver più alcuna influenza sulla sua salute. Dubito che la felicità abbia potere di farla vivere più lungamente, ma ad ogni modo sarà almeno felice per quei pochi istanti di vita che le rimangono. Sarà felice anche senza di me, aggiunse egli con amarezza. È facile avvedersi che ella deperisce ogni giorno, e che è impossibile arrestare il processo di questo deperimento così rapido e così misterioso.
— Come! io dissi, ella sposerà dunque quel giovane ancorchè tanto inferma come mi dite? Davide scosse la testa con aria di disapprovazione, e rispose:
— Che volete! Hanno deciso così, anzi è lei stessa che ha deciso. Del resto la sua malattia non è una di quelle che costringono al letto, piuttosto una di quelle di cui diciamo: si muore in piedi. Ma perchè non venite a vederci? Son certo che mia zia ne avrebbe gran piacere, e anche Silvia.
— Ci andate ora?
— Ora.
Mi accompagnai con esso. Potevano essere le dieci di sera quando ponemmo piede in quella casa. La zia di Davide, una buona vecchia — la vecchiaia e l’infanzia si toccano, i vecchi sono sempre buoni come i fanciulli — mi accolse con gioia schietta e cordiale, ma temperata da un poco di rimprovero e di mestizia.
— Ci troverete molto mutati, mi diss’ella. Voi non venite più nella casa di un tempo... La povera Silvia.... — E s’interruppe un istante come per soffermarsi sul pensiero di quella sventura — ma passate in questa stanza, la rivedrete voi stesso, ciò le farà piacere; e vi presenterò anche a mio genero.
Entrammo nella camera vicina.
Silvia era seduta sopra una sedia a bracciuoli, una gran seggiola a rotelle, tutta imbottita e tapezzata di velluto turchino; e presso a lei, sopra una seggiola più bassa il giovane sconosciuto che io aveva veduto al corso e al teatro. Egli aveva avvicinata la sua sedia a quella della fanciulla in modo da poter posare il capo sullo stesso bracciuolo su cui ella posava il braccio; e Silvia aveva inclinata la sua testa su quella del giovane con atto di tenerezza commovente.
Dio! quanto mutata! Appena era possibile riconoscerla. Quella fanciulla che io aveva veduto sì robusta, sì serena, sì vivace non era più che un’ombra del passato, non aveva più che un riflesso pallido e incerto della sua bellezza di un tempo. Non che la sua antica avvenenza fosse del tutto svanita, ma si era alterata; era ora un’avvenenza diversa, era la bellezza di un fiore sbocciato all’ombra, di un frutto maturato precocemente perchè roso dal tarlo. Il volto del giovine era pallido, ma quello di Silvia era bianco, più bianco dell’abito lungo e vaporoso che avvolgeva la sua persona, se non che gli zigomi delle guancie un po’ asciutte erano leggermente rosati, ma senza sfumatura come se vi fossero state sovrapposte due foglie di rosa già scolorite. I suoi capelli avevano quel lucido morto che hanno ordinariamente i capelli degli infermi, e pendevano, non sciolti ma scomposti, sulla testa del giovine che la stava guardando con espressione di pietà inesprimibile.
Il pallore di lui, benchè estremo, non era di quel genere che danno le malattie, ma di quello che dà l’abitudine del pensiero e del dolore. Egli era ancora più bello di quanto mi fosse sembrato al teatro — e questa volta aveva potuto giudicarne davvicino — bello di una beltà più femminile che maschia, ma ad ogni modo assai bello. I suoi capelli biondi e quasi dorati facevano uno strano contrasto così confusi colle treccie nerissime della fanciulla. Io non aveva veduto mai un gruppo così stupendo, un quadro d’amore più spirituale e più puro.
I due amanti si riscossero allo stridere che fece l’uscio nell’aprirsi — essi erano soli nella sala.
— Guarda, Silvia, disse dolcemente la vecchia tenendomi per mano, guarda chi ci ha ricondotto tuo cugino.
E rivolgendosi allo sconosciuto ed a me, pronunciò prima il mio nome, poi quello del giovine che disse essere il barone di Saternez nativo di Pilsen in Boemia.
Ci inchinammo scambievolmente. Egli mi guardò con uno sguardo sì dolce che io gli porsi la mia mano quasi senza avvertirlo.
Scambiate alcune parole, la vecchia, forse per lasciar soli i due giovani, mi trasse presso di sè in un angolo opposto della stanza.
— Che ve ne pare di mio genero? mi chiese ella. E continuò senza aspettare la mia risposta: — un giovine a dovere, sapete, un giovine ricco come il mare; se vedeste i regali che ha fatto alla Silvia!... E poi, di che famiglia! Baroni, e dei più illustri di Boemia. Egli ha dovuto emigrare per affari di politica, credo che volesse far annettere la Boemia al granducato di Sassonia, figuratevi!, Ma tanto era lo stesso, oramai egli non aveva più interesse a restare nel suo paese, giacchè era rimasto solo di tutta la sua famiglia. E guardate che bel giovine; non vi offendete — e mi guardò come per interrogarmi, io sorrisi — non vi offendete, ma non credo che ve ne sia al mondo un altro come quello. E pensare... La vecchia s’interruppe come colpita improvvisamente da un triste pensiero.
— Povera Silvia! riprese ella dopo qualche istante. Voi l’avete veduta prima d’oggi, vi ricordate come era! E adesso! Guardatela. Non sono più di quattro mesi che essa ha incominciato a deperire così; fu dal giorno in cui mio genero è entrato la prima volta nella nostra casa. Ora che avrebbe potuto essere così felice; essa che lo ama tanto, che ne è tanto amata! Ditemi, vi pare che potrà guarire?
— Non vi è pur luogo a dubitarne, io risposi tanto per riconfortarla. Silvia era vissuta finora sì ritirata; sì quieta, sì calma che questo disordine insolito ne’ suoi affetti ha gettato un po’ di turbamento anche nella sua salute. Ma tutto sarà finito quando ogni cosa sarà rientrata in uno stato normale, quando essi saranno marito e moglie. A proposito, ho sentito da vostro nipote che ciò deve avvenire assai presto.
— Fra otto giorni, disse la vecchia, e spero che in quella circostanza sarete dei nostri. Son essi che hanno voluto così, e i medici non l’hanno disapprovato. Silvia è ancora abbastanza forte per sopportare il moto della carrozza fino alla Chiesa; d’altronde ne siamo a due passi. — Sarà una festa un po’ triste, aggiunse ella stringendomi la mano, ma voi non rifiuterete di prendervi parte.
La ringraziai, e l’assicurai che vi sarei venuto. Passai tutto il rimanente di quella sera agitato da pensieri strani e tumultuosi, diviso tra la simpatia irresistibile che mi inspirava il fidanzato di Silvia, e la ripugnanza che faceva nascere in me l’idea di quella missione fatale che pareva esercitare. Giacchè non v’era più dubbio; quel giovine sì bello, sì dolce, sì attraente spargeva d’intorno a sè la desolazione e la sventura, lasciava delle traccie spaventose sulla sua via. Tutti gli esseri che egli prediligeva soccombevano a questa influenza; il fanciullo delle maschere, la signora del teatro, Silvia, quella stessa Silvia già così bella, così spensierita, così fiorente facevano fede di questo suo potere terribile. E ne fosse egli o no consapevole, questo potere non era meno reale e meno funesto; era dovere e pietà il prevenirne le vittime, il sottrarle all’influenza incomprensibile di quell’uomo.
Uscii da quella casa verso mezzanotte. Davide mi accompagnava. Il mio cuore era pieno. Ci avviammo senza profferir parola verso i bastioni.
La notte era fredda ma asciutta; gli ippocastani colle loro corteccie nere, coi loro fusti alti e slanciati parevano spettri di alberi; il cielo, come avviene nelle notti serene d’inverno, scintillava di miriadi di stelle. Non tardai ad avvedermi che anche l’animo del mio compagno era profondamente turbato.
— Sediamoci, gli dissi accennandogli un sedile di pietra, devo rivelarvi alcune cose che riguardano vostra cugina.
E gli narrai distesamente tuttociò che aveva osservato a proposito del barone di Saternez, non gli nascosi i miei sospetti, gli parlai del conte di Sagrezwitcth e dell’incontro che ne avevamo fatto al caffè Martini, e conchiusi consigliandolo ad adoperarsi per scongiurare la sventura che minacciava quella casa.
— Vi ringrazio, mi rispose egli dopo avermi ascoltato con molta attenzione; quelle nozze non si faranno, ve ne do la mia parola. Ho potuto esitare fin ora, ma adesso...
— E come intendete di opporvivi?
— Non so, vedrete. E aggiunse con voce terribile: no, quelle nozze non si faranno. Io, io stesso le renderò impossibili... perchè... esse non devono farsi. Perchè son io che dovea godere di quella felicità, perchè io lo detesto quell’uomo, perchè è lui che mi ha rapito l’amore di Silvia... perchè io l’odio!
* * *
Al domani mattina Davide venne per tempo a trovarmi in mia casa. Egli era calmo, ma di quella calma fredda e convulsa che si distende come un velo sulle fattezze quando la riflessione ha già concentrato tutta la lotta nel cuore. E delle tempeste del cuore umano come di quelle dell’Oceano: le meno apparenti sono le più profonde.
— Vengo, egli mi disse, a chiedervi alcune notizie riguardo alle rivelazioni che mi avete fatto ier sera. Ci ho pensato tutta notte e non ho chiuso occhio; avrei d’uopo sapere ove abita il conte di Sagrezwitcth, e s’egli è tuttora a Milano. Voi forse potete dirmelo.
— Non lo so, io risposi meravigliato. Ma che! intendereste forse di andarlo a visitare? E a che scopo?
— Voi mi avete parlato, riprese egli, dell’influenza funesta che esercitano questi due uomini, egli ed il barone di Saternez, e del potere che hanno di compiere il male per altre vie che non sia dato di farlo a noi, ne sieno essi o no consapevoli. Il conte, mi avete detto possiederebbe in maggior grado questo potere. Ora qualunque sieno le cause di questa influenza, qualunque ne sia la natura, se essa esiste, se essa non è pari in ciascuno di loro, avete pensato alle conseguenze che risulterebbero dall’urto di queste due forze, dall’incontro di questi due uomini fatali? Ponetemeli l’uno di fronte all’altro, e se l’esistenza di questo potere è verace, l’uno dovrà distruggere l’altro, la disparità delle forze cagionerà lo squilibrio; la sconfitta del più debole è inevitabile.
— È un trovato abbastanza specioso, io dissi, voi avreste dunque pensato....
— Di fare in modo che il conte di Sagrezwitcth venga a trovarsi alla presenza del mio rivale.
— E avreste in animo di parlare a quel conte?
— Solo che potessi rinvenirlo. Mi era recato perciò da voi, e sono afflitto che non possiate darmi le indicazioni che mi abbisognano. — Ma lo troverò, lo troverò continuò egli con risolutezza. Non vi sono a Milano che pochi alberghi eleganti, nei quali egli possa aver preso alloggio, li girerò tutti, domanderò di lui a tutte le porte, e se egli o qui ancora, o se è partito da poco, non dispero di mettermi sulle sue tracce.
Ciò detto Davide uscì con precipitazione dalla stanza, prima che la mia maraviglia e la mia titubanza tra lo incorraggiarlo o il distoglierlo da quel progetto mi avessero permesso di articolar una parola.
Passai tutto quel giorno in un’inquietudine mortale.
Alla notte, e ad ora assai tarda, ricevetti da Davide una lettera così concepita:
«Io parto in questo momento per Genova, d’onde raggiungerò la mia famiglia in un piccolo villaggio del litorale. È da lungo tempo che meditava questo progetto senza mai sapermi risolvere. Gli avvenimenti già compiuti e quelli che stanno per compiersi m’hanno fatto prendere finalmente questa decisione. Non ho voluto rimanere qui perchè nè la pietà mi distogliesse dalla mia vendetta — se pure io ho il potere di arrestarla — nè la vista del suo compimento, qualunque ella sia per essere, mi opprimesse di rimorsi che non debbo avere; sento il bisogno di dirvi tutto ciò che ho fatto per la salvezza di Silvia. In questo tentativo non vi era egoismo; il suo cuore non mi apparteneva più, nè io voleva pretendervi ancora; io non voleva che la sua felicità. Il disinteresse mio apparirà più sincero dalla rinuncia che farò alla mano di mia cugina, anche allorquando il suo cuore sarà libero e la sua gioventù rifiorita.
Non posso dirvi di più. Ho trovato il conte di Sagrezwitcth e gli ho parlato. Quei due uomini si conoscono. Io non ho alcuna parte in ciò che sta per succedere; ricordatelo bene. Io non poteva nè prevedere, nè arrestare gli avvenimenti che dovranno compiersi; è la mano della fatalità, che li aveva preparati. Io non ne sono stato che uno strumento: ho avvicinato due uomini che dovevano rimanere lontani, ecco tutta la mia responsabilità; ed è l’amore di Silvia che mi ha indotto ad assumerne il peso. Che questa mia giustificazione non sfugga dalla vostra memoria! Mi è impossibile spiegarmi maggiormente. Distruggete subito questa lettera.»
Non mai nella mia vita mi era trovato avvolto in una trama più triste e più complicata. Quali erano i bisogni di Davide? che cosa gli aveva detto il conte di Sagrezwitcth? come poteva egli parlarmi con tanta sicurezza di una vendetta che doveva compiersi senza di lui? e perchè era egli partito? Anche la salvezza di Silvia, se tal cosa era ancora possibile, non mi confortava della mia dispiacenza di aver confidato a Davide il segreto del barone di Saternez, e di averlo messo nella possibilità di vendicarsene. Io era in dovere di rimediare, se lo poteva, al male che aveva fatto. Non mancavano più che sette giorni all’epoca fissata per le nozze, e questa vendetta, il cui scopo era d’impedirle, avrebbe dovuto compiersi in quell’intervallo di tempo.
Risolsi di recarmi a visitare il giovane barone, e secondo ciò che egli avrebbe risposto alle mie insinuazioni, confidargli interamente, o lasciargli sospettare il pericolo che lo minacciava. Distrussi la lettera di Davide: e valendomi dell’indirizzo che egli mi aveva dato del suo rivale, mi recai tosto alla sua casa.
Il barone di Saternez non si mostrò punto meravigliato di vedermi; mi porse la mano con atto di affetto più che di semplice cortesia, e disse: vi aspettava.
— Come! esclamai io sorpreso, voi conoscete dunque lo scopo della mia visita?
— Sì, diss’egli. E dopo un istante di silenzio rispose sorridendo d’un sorriso violento: — io non sono soltanto un uomo pericoloso, sono anche un abile fisionomista. Quando vi ho veduto ieri l’altro per la prima volta, ho indovinato che il vostro cuore era buono, e che se aveste potuto fallire per debolezza o per fine di bene, non avreste indugiato a dolervi delle conseguenze dei vostri errori, e a tentare di ripararvi. In seguito alla visita del vostro amico, il conte di Sagrezwitcth è stato qui due ore or sono. Era dunque naturale che io vi aspettassi.
Io chinai il capo e tacqui:
Egli riprese dopo un nuovo istante di silenzio:
— Non vi affliggete di ciò che avete fatto, non rimproverate a Davide i mali che ha preparato. Ciò che avverrà doveva avvenire. Voi non siete stati che un mezzo nelle mani della fatalità. I sentimenti che vi hanno mossi a prevenire le mie opere sono lodevoli, benchè forse infruttuosi: non ho l’ingiustizia di disconoscerlo. Quell’uomo ed io ci conoscevamo da tempo, fors’anche ci cercavamo. — Egli pronunciò in modo più inarcato queste parole — Tra me e lui corrono dei rapporti che la natura od il caso hanno posto quasi per dileggio, dei rapporti terribili che un segreto mi vieta di rivelarvi. Il nostro incontro era inevitabile perchè era predestinato. Era necessario che uno di noi due dovesse sparire, perchè due elementi contrarii non possono incontrarsi senza lottare; non possono percorrere la stessa via, camminare l’uno a fianco dell’altro, come non avessero che una virtù comune ad esercitare, una missione comune a compiere. Che cosa avreste potuto voi soli sulla mia vita? Voi avete avuto ragione di fare ciò che avete fatto. È la fortuna che vi ha diretti. Era tempo!
S’interruppe, e riprese dopo un altro momento di silenzio in cui io non aveva osato parlare:
— Guardatemi! voi vedete in me un uomo come tutti gli altri, forse apparentemente migliore degli altri; la mia persona non inspira alcuna ripugnanza, il mio viso, i miei modi quella parte dell’anima che la natura ha posto sulle nostre fattezze come per rivelarne le virtù celate nel cuore, non hanno nulla di odioso, nulla che non sia umano, che non sia dolce, che non sia forse anche attraente. Ebbene, questo giovine che avreste giudicato innocuo, di cui avreste forse ambita l’amicizia non conoscendolo, ha sparso la rovina e la desolazione d’intorno a sè, ha ucciso le persone che lo amavano, ha attraversato la vita e la felicità di tutti coloro che lo conobbero e che lo ebbero caro. Perchè.... sì, voi avete indovinato, voi avete afferrato il suo segreto. Costui, questo miserabile, proseguì egli con crescente esaltazione, non ha avuto finora la virtù di rinunciare ad una esistenza che ne aveva già reso tante infelici; ed ecco la sua colpa. Egli era nato per il bene. La natura gliene aveva posta l’immagine d’innanzi agli occhi come un’ideale brillante, come una meta soave e luminosa. Egli avrebbe voluto amare, beneficare, gioire della felicità che avrebbe sparso d’intorno a sè, gettare delle corone sulle teste di tutti gli uomini.... e un destino crudele, tremendo, ineluttabile lo condannava a compiere il male, a schiacciare sotto il peso della sua fatalità tutti quegli esseri buoni ed affettuosi che lo circondavano.
Tacque, e si coperse il volto colle mani.
— Calmatevi, io dissi, se voi avete questo potere, ne esagerate per certo il valore.
Egli sorrise come per mostrare di compatire al mio dubbio, e riprese:
— No, non ho esagerato. Converrebbe che voi poteste risalire alle sorgenti della mia vita per rinvenire le traccie che essa ha lasciato dietro di sè, e giudicare della loro profondità e della loro estensione. La mia stessa fanciullezza — l’età in cui tutti sono felici — non fu per me che un periodo di tristezza e di dolore. Gli esseri che più mi amavano avevano incominciato a soccombere; i miei fratelli, le mie sorelle, mia madre erano morti; io aveva incominciato ad avvedermi del vuoto che si faceva intorno a me, e a comprendere che vi era qualche cosa di fatale nel mio destino. Rimasi solo al mondo assai presto. Quanto più vedeva dilatarsi il cerchio delle mie relazioni, dei miei affetti, delle mie simpatie, altrettanto vedeva dilatarsi quel vuoto; quanto più entrava nella vita, tanto più entrava nell’isolamento. Ho provato il bisogno dell’amicizia, ho provato la febbre dell’amore.... amici ed amanti sparivano nell’abisso che io scavava loro ai miei piedi. Incominciai ad essere assalito da un dubbio spaventoso: era io fatale a tutto ciò che io amava, a tutto ciò che mi amava? Ritornai sul mio passato, rifeci orma per orma il cammino della mia esistenza, interrogai tutte le rovine che aveva lasciato dietro di me.... Era vero — bisognava crederlo — era terribilmente vero! Allora mi allontanai dalla mia patria, errai pel mondo fuggendo e fuggendomi. La sventura che aveva colpito i miei più cari mi aveva colmato di ricchezze a prezzo della loro vita; benchè di tali ricchezze io non abbia potuto giovarmi che per me solo, benchè nessuno abbia mai potuto essere beneficato da me impunemente. Fu così che vagando di paese in paese io venni a Milano, che fuggendo la folla e la società per rendermi meno fatale, frequentando i quartieri più modesti e più remoti, conobbi Silvia, e ne fui preso irresistibilmente, prima che la coscienza del male che le avrei cagionato, avesse avuto il potere di distogliermi da quell’affetto. Essa mi corrispose. Io era giovine, io era sventurato, io aveva il diritto di dare dell’amore e di chiederne; io che non aveva provato mai la felicità, che non aveva fatto che toglierla altrui senza poterla dare a me stesso, che aveva dovuto sempre gettarla lontano da me come un frutto amaro e vietato. Voi sapete il resto. Voi sapete che sono ora minacciato da un pericolo, e venite per avvertirmene. Ebbene, è troppo tardi — lo scopo della mia vita è raggiunto. La morte — se essa deve colpirmi non ha per me più nulla di amaro e di increscevole: io ho realizzata l’estrema delle mie aspirazioni, e sorrido dell’impotenza di coloro che avrebbero voluto impedirlo.
Egli pronunciò queste parole con una specie di alterezza che diede alla sua fisionomia già tanto soave un’espressione singolarmente severa.
— Sì, è troppo tardi, continuò egli con entusiasmo; voi avete voluto impedire le mie nozze; ebbene, sappiatelo, queste nozze non sono più che un pretesto dinnanzi alla società, che una giustificazione di ciò che l’amore ha già dato spontaneamente. Silvia fu mia! Che monta che essa abbia a morire? E che cosa è egli il morire? Ebbe mai l’amore altra aspirazione? Ebbe egli mai altra ricompensa che questa? O preceduto, o seguito, io invoco ora questa morte che voi avete voluto prepararmi.
— Oh, non io! esclamai, il cielo mi è testimonio se io ho desiderato e preparato la vostra morte. Voi dimenticate che io sono qui in questo momento per avvertirvi di un pericolo, non certo per minacciarvene.
— È vero, rispose egli con dolcezza, perdonate. E mi porse la mano che ritrasse subito, come avesse temuta di offendermi o di nuocermi con quel contatto.
Io lo guardai in volto come per interrogarlo. Egli era sì bello, sì sereno, era tornato sì nobilmente calmo; e v’era qualche cosa di così virile su quel suo viso di fanciulla, e v’era tanta forza in quella sua stessa debolezza, che io compresi come una donna avesse potuto accettare il suo amore anche a prezzo della vita. Ignorava se Silvia avesse conosciuto il segreto di quel giovine, ma sentiva come anche conoscendolo, il sacrificio della sua esistenza avesse dovuto apparirle assai misera cosa in confronto della dolcezza di quell’amore.
Egli conosceva forse il potere della sua bellezza, o mi lesse nell’animo, poichè fece atto di offrirmi una seconda volta la mano, e mi disse:
— Andate, andate, ve ne scongiuro. Voi siete buono, voi potreste sentire forse un poco di simpatia per me, e io potrei pagare d’ingratitudine il servigio che avete voluto rendermi colla vostra visita. È il mio destino!...
— E sia pur tale, interruppi, io non lo temo. — E afferrai la sua mano che mi strinsi al cuore. — Io vi aveva giudicato diverso, io aveva voluto impedire una sventura; fu tutta mia la colpa.
— Non vi torturate con questo pensiero, disse egli. Non sono io colui che potrà credere alla libertà delle azioni umane — l’arbitrio è una menzogna — la volontà non è che la prescienza di un atto già preordinato; essa non ha alcun peso sulla bilancia su cui si librano tutte le cose della vita — sulla bilancia del destino.
Io crollai il capo con espressione di dubbio. Egli osservò quell’atto e riprese:
— No, io non tenterò alcuna via per allontanare da me quel pericolo; sarebbe inutile. Ad ogni modo vi ringrazio.
— Vi rivedrò ancora? io chiesi, quasi dubitoso di lasciarlo così fermo in quel proposito.
Egli sorrise con espressione di gratitudine, e disse: — quando vorrete, a domani?
— A domani.
Ometto il racconto delle mie relazioni col barone di Saternez durante quei sette giorni che precedettero le sue nozze. Fu per esse che io potei formarmi un’idea meno inesatta del suo carattere, quantunque non mi fosse mai dato di penetrare nel segreto della sua vita, più di quanto non mi fosse stato possibile nel nostro primo incontro. Aveva nondimeno conosciuto tanto di lui da potermi formare una convinzione a suo riguardo. Egli era indubbiamente onesto, indubbiamente buono. Ho conosciuto pochi uomini che presentassero nella loro indole una mistura di debolezza e di forza più singolare — intendo quella debolezza che sta nella sensibilità, nell’attitudine a ricevere potentemente le impressioni, non nella fiacchezza del carattere. Era scettico di mente e credente di cuore: la sventura non lo aveva prostrato, ma lo aveva reso vecchio anzi tempo, per modo che compariva giovine o vecchio a intervalli, secondo l’impulso interno che riceveva dalle sue passioni. E benchè sembrasse naturalmente espansivo, come tutti i buoni, non lo era; che forse quel tristo potere di cui si credeva dotato l’aveva ammaestrato a nascondere e a dissimulare; nè mai da quei giorno, per quanto mostrasse di avermi caro, rialzò quel velo che si distendeva sul suo passato, e di cui mi aveva sollevato un lembo in quel primo momento di espansione.
Mi era sembrato in quei giorni che la sua indole non fosse così malinconica, come lo aveva giudicato dapprincipio, ma mi era poi avveduto facilmente che vi era qualche cosa di violento, di forzato, di convulso nella sua gioia, e che egli viveva sotto l’apprensione di un pensiero che lo riempiva di terrore. Passava dagli eccessi dell’ilarità, agli eccessi della tristezza; spesso pareva calmo, e affettava una serenità d’animo che non sentiva. Ma ciò era per Silvia. Essa lo amava con quella specie di cecità che non vede nulla.
Aveva fatto in quei giorni con me lunghe passeggiate, e mi aveva fatto osservare nella campagna alcune prospettive e alcuni effetti di luce e di neve che sarebbero sfuggiti ad una mente nè poetica, nè osservatrice. Non mostrava di temere il pericolo di cui gli aveva parlato, e non ne fece meco alcun cenno, ma impallidiva visibilmente nel sentir pronunciare il nome del conte. Una notte — mancavano due soli giorni agli sponsali — fui sorpreso nell’incontrarlo in compagnia del conte di Sagrezwitcth lungo un viottolo oscuro e remoto. Tenni lor dietro, ma non giunsi a comprendere una sola parola del loro dialogo vivace ed animato. Essi parlavano una lingua che io non conosceva; e mi parve dal gesto e dall’imperiosità della voce del conte, che questi insistesse in una domanda, cui l’altro si ostinava a rifiutarsi di accondiscendere.
Da quella notte apparve evidente che egli tentava stordirsi, con ogni mezzo possibile, da qualche grande affanno. Egli aveva incominciato a chiedere al vino la dimenticanza di questo dolore segreto, e nel giorno seguente lo aveva ricondotto a casa io stesso in uno stato di ebbrezza assai grave.
Ma abbrevierò la mia narrazione.
Il giorno delle nozze era giunto, e le nozze stesse si erano compiute senza che fosse sorto alcun ostacolo ad impedirle. Una festicciuola di famiglia aveva luogo in quella sera; i congiunti e le amiche della sposa erano intervenuti in gran numero.
Silvia era raggiante; il barone di Saternez era così giovanilmente felice, che io mi rallegrava con me stesso della vanità delle minaccie di Davide, e fors’anche di quella della pretesa influenza del giovine, a cui era tentato di cessare di credere. Parevami che la prospettiva d’una felicità così grande avrebbe dovuto restituire la salute alla fanciulla, e distruggere in lui quel potere terribile e misterioso di cui si credeva dotato.
Era trascorsa già la mezzanotte, e io pensava, seduto in un angolo della sala, alla possibilità di questo avvenire dei due giovani, allorchè sentii pronunciare presso di me il nome del duca di Nevers; e mi ricordai tosto essere questo il nome che il conte di Sagrezwitcth aveva portato spesso in America. Trasalii e mi rivolsi. Un servo era entrato nella stanza, e aveva presentato allo sposo un biglietto di visita su cui era impresso quel nome sormontato da una corona di duca. Quello strano visitatore doveva parlar subito al barone di Saternez, e lo attendeva sotto l’atrio della casa.
— È cosa d’un istante, disse il giovine senza manifestare la benchè menoma emozione. Infatti.... io aveva bisogno di parlare a quell’uomo. Sarò di ritorno tra pochi minuti.
Strinse la mano a Silvia, e discese. Nell’aprirsi dell’uscio mi parve d’intravvedere nel fondo dell’atrio il conte di Sagrezwitcth, ma non potrei asserirlo. La persona che si era fatta annunciare col nome di duca di Nevers portava però, come disse in seguito il servo che lo vide, un berretto di pelo assai grande, e guanti di capretto d’una bianchezza irreprensibile.
Lo si attese tutta la notte — una notte fredda e piovviginosa di marzo — ma indarno. Io rinuncio a descrivere la desolazione di quella famiglia; sarebbe compito superiore alla parola. Al domani si leggeva nelle cronache dei giornali: «Un giovine straniero domiciliato da qualche tempo nella nostra città, ove era giunto con passaporto falso sotto il nome di barone Saternez, boemo; ma il cui vero nome è Gustavo dei conti di Sagrezwitcth, polacco, fu trovato stamane morto dietro i bastioni di Porta Tanaglia, con un coltello immerso nel cuore. Non si conoscono finora nè le circostanze, nè gli autori di questo assassinio.»
Ora quali erano i legami che congiungevano quelle due persone e quei due nomi? Quale era il vero nome di ciascuno di quei due uomini? Lo aveva uno di essi usurpato all’altro, o lo portavano entrambi? E il duca di Nevers! Era questo veramente il casato di Sagrezwitcth che aveva asserito di conoscere il giovine, e col quale costui aveva detto di avere alcuni rapporti che non poteva rivelare? È un’enimma che nè io, nè alcuno di coloro a cui ho raccontato questa storia ha potuto mai decifrare.
Del resto Silvia guarì — fosse caso, fosse natura del male, guarì; benchè le piaghe del suo cuore non si sieno mai rimarginate. La sua famiglia ha venduto quella casa grigia e ammuffita che abitava qui, e si è domiciliata in un piccolo villaggio della Brianza. L’uomo conosciuto sotto il nome di conte di Sagrezwitcth non fu mai più visto a Milano. Di Davide non seppi più nulla.
Sono scorsi due anni dalla data di questo avvenimento, e nessuna luce fu fatta su questo delitto.