Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Iginio Ugo Tarchetti

    Uno spirito in un lampone

    Nel 1854 un avvenimento prodigioso riempì di terrore e di meraviglia tutta la semplice popolazione d’un piccolo villaggio della Calabria.

    Mi attenterò a raccontare, con quanta maggior esattezza mi sarà possibile, questa avventura meravigliosa, benché comprenda essere cosa estremamente difficile l’esporla in tutta la sua verità e con tutti i suoi dettagli più interessanti.

    Il giovine barone di B. - duolmi che una promessa formale mi vieti di rivelarne il nome - aveva ereditato da pochi anni la ricca ed estesa baronia del suo avo paterno, situata in uno dei punti più incantevoli della Calabria. Il giovine erede non si era allontanato mai da quei monti sì ricchi di frutteti e di selvaggiume; nel vecchio maniere della famiglia, che un tempo era stato un castello feudale fortificato, aveva appreso dal pedagogo di casa i primi erudimenti dello scrivere, e i nomi di tre o quattro classici latini di cui sapeva citare all’occorrenza alcuni distici ben conosciuti. Come tutti i meridionali aveva la passione della caccia, dei cavalli e dell’amore - tre passioni che spesso sembrano camminare di conserva come tre buoni puledri di posta - potevale appagare a suo talento, né s’era mai dato un pensiero di più; non aveva neppur mai immaginato che al di là di quelle creste frastagliate degli Appennini vi fossero degli altri paesi, degli altri uomini e delle altre passioni.

    Del resto siccome la sapienza non è uno dei requisiti indispensabili alla felicità - anzi parci l’opposto - il giovine barone di B. sentivasi perfettamente felice col semplice corredo dei suoi distici; e non erano meno felici con lui i suoi domestici, le sue donne, i suoi limieri, e le sue dodici livree verdi incaricate di precedere e seguire la sua carrozza di gala nelle circostanze solenni.

    Un solo fatto luttuoso aveva, alcuni mesi prima dell’epoca a cui risale il nostro racconto, portata la desolazione in una famiglia addetta al servigio della casa e alterate le tradizioni pacifiche del castello. Una cameriera del barone, una fanciulla che si sapeva aver tenute tresche amorose con alcuni dei domestici, era sparita improvvisamente dal villaggio; tutte le ricerche erano riuscite vane; e benché pendessero non pochi sospetti sopra uno dei guardaboschi - giovine d’indole violenta che erane stato un tempo invaghito, senza esserne corrisposto - questi sospetti erano poi in realtà così vaghi e così infondati, che il contegno calmo e sicuro del giovane era stato più che sufficiente a disperderli.

    Questa sparizione misteriosa che pareva involgere in sé l’idea di un delitto, aveva rattristato profondamente l’onesto barone di B.; ma a poco a poco egli se n’era dimenticato spensierandosi coll’amore e colla caccia: la gioia e la tranquillità erano rientrate nel castello; le livree verdi erano tornate a darsi buon tempo nelle anticamere; e non erano trascorsi due mesi dall’epoca di questo avvenimento che né il barone, né alcuno de’ suoi domestici si ricordava della sparizione della fanciulla.

    Era nel mese di novembre.

    Un mattino, il barone di B. si svegliò un po’ turbato da un cattivo sogno, si cacciò fuori del letto, spalancò la finestra, e vedendo che il cielo era sereno, e che i suoi limieri passeggiavano immalinconiti nel cortile e raspavano alla porta per uscirne, disse: “Voglio andare a caccia, io solo; vedo laggiù alcuni stormi di colombi selvatici che si son dati la posta nel seminato, e spero che ne salderanno il conto colle penne”. Fatta questa risoluzione finì di abbigliarsi, infilzò i suoi stivali impenetrabili, si buttò il fucile ad armacollo, accomiatò le due livree verdi che lo solevano accompagnare ed uscì circondato da tutti i suoi limieri, i quali agitando la testa, facevano scoppiettare le loro larghe orecchie, e gli si cacciavano ad ogni momento tra le gambe accarezzando colle lunghe code i suoi stivali impenetrabili.

    Il barone di B. si avviò direttamente verso il luogo ove aveva veduto posarsi i colombi selvatici. Era nell’epoca delle seminagioni, e nei campi arati di fresco non si scorgeva più un arbusto od un filo d’erba. Le pioggie dell’autunno avevano ammollito il terreno per modo che egli affondava nei solchi fino al ginocchio, e si vedeva ad ogni momento in pericolo di lasciarvi uno stivale. Oltre a ciò i cani, non assuefatti a quel genere di caccia, rendevano vana tutta la strategia del cacciatore, e i colombi avevano appostate qua e là le loro sentinelle avanzate, precisamente come avrebbe fatto un bravo reggimento della vecchia guardia imperiale.

    Stizzito da questa astuzia, il barone di B., continuò nondimeno a perseguitarli con maggiore accanimento, quantunque non gli venissero mai al tiro una sola volta; e sentivasi stanco e sopraffatto dalla sete, quando vide lì presso in un solco una pianticella rigogliosa di lamponi carica di frutti maturi.

    “Strano! - disse il barone. - Una pianta di lamponi in questo luogo... e quanti frutti! Come sono belli e maturi!”

    E abbassando la focaia del fucile, lo collocò presso di sé, si sedette; e spiccando ad una ad una le coccole del lampone, i cui granelli di porpora parevano come argentati graziosamente di brina, estinse, come poté meglio, la sete che aveva incominciato a travagliarlo.

    Stette così seduto una mezz’ora; in capo alla quale si accorse che avvenivano in lui dei fenomeni singolari.

    Il cielo, l’orizzonte, la campagna non gli parevano più quelli; cioè non gli parevano essenzialmente mutati, ma non li vedeva più colla stessa sensazione di un’ora prima; per servirsi d’un modo di dire più comune, non li vedeva più cogli stessi occhi.

    In mezzo a’ suoi cani ve n’erano taluni che gli sembrava di non aver mai veduto, e pure riflettendoci bene, li conosceva; se non che li osservava e li accarezzava tutti quanti con maggior rispetto che non fosse solito fare: parevagli in certo modo che non ne fosse egli il padrone, e dubitandone quasi, si provò a chiamarli: “Azor, Fido, Aloff!”.

    I cani chiamati gli si avvicinarono prontamente, dimenando la coda.

    “Meno male - disse il barone. - I miei cani sembrano essere proprio ancora i miei cani... Ma è singolare questa sensazione che provo alla testa, questo peso... E che cosa sono questi strani desideri che sento, queste volontà che non ho mai avute, questa specie di confusione e di duplicità che provo in tutti i miei sensi? Sarei io pazzo?... Vediamo, riordiniamo le nostre idee... Le nostre idee! Sì, perfettamente... perché sento che queste idee non sono tutte mie. Però... è presto detto riordinarle! Non è possibile, sento nel cervello qualche cosa che si è disorganizzato, cioè... dirò meglio... che si è organizzato diversamente da prima... qualche cosa di superfluo, di esuberante; una cosa che vuol farsi posto nella testa, che non fa male, ma che pure spinge, urta in modo assai penoso le pareti del cranio... Parmi di essere un uomo doppio. Un uomo doppio! Che stranezza! E pure... sì, senza dubbio... capisco in questo momento come si possa essere un uomo doppio. Vorrei sapere perché questi anemoni mezzo fradici per le pioggie, ai quali non ho mai badato in vita mia, adesso mi sembrano così belli e così attraenti... Che colori vivaci, che forma semplice e graziosa! Facciamone un mazzolino.”

    E il barone, allungando la mano senza alzarsi, ne colse tre o quattro che, cosa singolare! si pose in seno come le femmine.

    Ma nel ritrarre la mano a sé, provò una sensazione ancora più strana; voleva ritrarre la mano, e nel tempo stesso voleva allungarla di nuovo; il braccio mosso come da due volontà opposte, ma ugualmente potenti, rimase in quella posizione quasi paralizzato.

    “Mio Dio!” disse il barone; e facendo uno sforzo violento uscì da quello stato di rigidità, e subito osservò attentamente la sua mano come a guardare se qualche cosa vi fosse rotto o guastato. Per la prima volta egli osservò allora che le sue mani erano brevi e ben fatte, che le dita erano piene e fusolate, che le unghie descrivevano un elissi perfetto; e l’osservò con una compiacenza insolita; si guardò i piedi e vedendoli piccoli e sottili, non ostante la forma un po’ rozza de’ suoi stivali impenetrabili, ne provò piacere e sorrise. In quel momento uno stormo di colombi si innalzò da un campo vicino, e venne a passargli d’innanzi al tiro.

    Il barone fu sollecito a curvarsi, ad afferrare il suo fucile, ad inarcarne il cane, ma... cosa prodigiosa! in quell’istante si accorse che aveva paura del suo fucile, che il fragore dello sparo lo avrebbe atterrito; ristette e si lasciò cader l’arma di mano, mentre una voce interna gli diceva: “Che begli uccelli! che belle penne che hanno nelle ali!... mi pare che sieno colombi selvatici...”.

    “Per l’inferno! - esclamò il barone portandosi le mani alla testa. - Io non comprendo più nulla di me stesso... sono ancora io, o non sono più io? o sono io ed un altro ad un tempo! Quando mai io ho avuto paura di sparare il mio fucile! Quando mai ho sentito tanta pietà per questi maledetti colombi che mi devastano i seminati? I seminati! Ma... veramente parmi che non sieno più miei questi seminati... Basta, basta, torniamo al castello, sarà forse effetto di una febbre che mi passerà buttandomi a letto.”

    E fece atto di alzarsi. Ma in quello istante un’altra volontà che pareva esistere in lui lo sforzò a rimanere nella posizione di prima, quasi avesse voluto dirgli: “No, stiamo ancora un poco seduti”.

    Il barone sentì che annuiva di buon grado a questa volontà, poiché dallo svolto della via che fiancheggiava il campo era comparsa una brigata di giovani lavoratori che tornavano al villaggio. Egli li guardò con un certo senso di interesse e di desiderio di cui non sapeva darsi ragione; vide che ve ne erano alcuni assai belli; e quando essi gli passarono d’innanzi salutandolo, rispose al loro saluto chinando il capo con molto imbarazzo, e si accorse che aveva arrossito come una fanciulla. Allora sentì che non aveva più alcuna difficoltà ad alzarsi, e si alzò. Quando fu in piedi gli parve di essere più leggiero dello usato: le sue gambe parevano ora ingranchite, ora più sciolte; le sue movenze erano più aggraziate del solito, quantunque fossero poi in realtà le stesse movenze di prima, e gli paresse di camminare, di gestire, di dimenarsi, come aveva fatto sempre per lo innanzi.

    Fece atto di recarsi il fucile ad armacollo, ma ne provò lo stesso spavento di prima, e gli convenne adattarselo al braccio, e tenerlo un poco discosto dalla persona, come avrebbe fatto un fanciullo timoroso.

    Essendo arrivato ad un punto in cui la via si biforcava, si trovò incerto per quale delle due strade avrebbe voluto avviarsi al castello. Tutte e due vi conducevano del paro, ma egli era solito percorrerne sempre una sola: ora avrebbe voluto passare per una, e ad un tempo voleva passare anche per l’altra: tentò di muoversi, ma riprovò lo stesso fenomeno che aveva provato poc’anzi: le due volontà che parevano dominarlo, agendo su di lui colla stessa forza, si paralizzarono reciprocamente, resero nulla la loro azione: egli restò immobile sulla via come impietrato, come colpito da catalessi. Dopo qualche momento si accorse che quello stato di rigidità era cessato, che la sua titubanza era svanita, e svoltò per quella delle due strade che era solito percorrere.

    Non aveva fatto un centinaio di passi che s’abbatté nella moglie del magistrato la quale lo salutò cortesemente.

    “Da quando in qua - disse il barone di B. - io sono solito a ricevere i saluti della moglie del magistrato?” Poi si ricordò che egli era il barone di B., che egli era in intima conoscenza colla signora, e si meravigliò di essersi rivolta questa domanda.

    Poco più innanzi si incontrò in una vecchia che andava razzolando alcuni manipoli di rami secchi lungo la siepe.

    “Buon dì, Caterina - le disse egli abbracciandola e baciandola sulle guancie, - come state? avete poi ricevuto notizie di vostro suocero?”

    “Oh! Eccellenza... quanta degnazione... - esclamò la vecchia, quasi spaventata dalla insolita famigliarità del barone, - le dirò...”

    Ma il barone l’interruppe dicendole: “Per carità, guardatemi bene, ditemi: sono ancora io? sono ancora il barone di B.?”.

    “Oh, signore!...” diss’ella.

    Egli non stette ad attendere altra risposta, e proseguì la sua strada, cacciandosi le mani nei capelli, e esclamando: “Io sono impazzito, io sono impazzito”.

    Gli avveniva spesso lungo la via di arrestarsi a contemplare oggetti o persone che non avevano mai destato in lui il minimo interesse, e vedeali sotto un aspetto affatto diverso di prima. Le belle contadine che stavano sarchiando nei campi coll’abito rimboccato fin sopra il ginocchio, non avevano più per lui alcuna attrattiva, e le parevano rozze, sciatte e sguaiate. Gettando a caso uno sguardo su’ suoi limieri che lo precedevano col muso basso e colla coda penzoloni, disse: “Tò! Visir che non aveva che due mesi adesso sembra averne otto suonati, e s’è cacciato anche lui nella compagnia dei cani scelti”.

    Mancavangli pochi passi per arrivare al castello quando incontrò alcuni de’ suoi domestici che passeggiavano ciarlando lungo la via, e, cosa singolare! li vedeva doppi; provava lo stesso fenomeno ottico che si ottiene convergendo tutte e due le pupille verso un centro solo, per modo d’incrociarne la visuale; se non che egli comprendeva che le cause di questo fenomeno erano affatto diverse da quelle; poiché vedeali bensì doppi, ma non si rassomigliavano totalmente nella loro duplicità; vedeali come se vi fossero in lui due persone che guardassero per gli stessi occhi.

    E questa strana duplicità incominciò da quel momento ad estendersi su tutti i suoi sensi; vedeva doppio, sentiva doppio, toccava doppio; e - cosa ancora più sorprendente! - pensava doppio. Cioè, una stessa sensazione destava in lui due idee, e queste due idee venivano svolte da due forze diverse di raziocinio, e giudicate da due diverse coscienze. Parevagli in una parola che vi fossero due vite nella sua vita, ma due vite opposte, segregate, di natura diversa; due vite che non potevano fondersi, e che lottavano per contendersi il predominio de’ suoi sensi, d’onde la duplicità delle sue sensazioni.

    Fu per ciò che egli vedendo i suoi domestici, conobbe bensì che erano i suoi domestici; ma cedendo ad un impulso più forte, non poté fare a meno di avvicinarsi ad uno di essi, di abbracciarlo con trasporto e di dirgli: “Oh! caro Francesco, godo di rivedervi; come state? come sta il nostro barone? - e sapeva benissimo di essere egli il barone. - Ditegli che mi rivedrà fra poco al castello”.

    I domestici si allontanarono sorpresi; e quello tra loro che erane stato abbracciato, diceva tra sé stesso: “Io mi spezzerei la testa per sapere se è, o se non è veramente il barone che mi ha parlato. Io ho già inteso altre volte quelle parole... non so... ma quella espressione... quell’aspetto... quell’abbraccio... certo, non è la prima volta che io fui abbracciato in quel modo. E pure... il mio degno padrone non mi ha mai onorato di tanta famigliarità”. Pochi passi più innanzi, il barone di B. vide un pergolato che s’appoggiava ad un angolo del recinto d’un giardino, per modo che quando era coperto di foglie doveva essere affatto inaccessibile agli occhi dei curiosi. Egli non poté resistere al desiderio di entrarvi, quantunque vi fosse in lui un’altra volontà che l’incitava ad affrettarsi verso il castello. Cedette al primo impulso, e appena sedutosi sotto la pergola, sentì compiersi in se stesso un fenomeno psicologico ancora più curioso.

    Una nuova coscienza si formò in lui: tutta la tela di un passato mai conosciuto si distese d’innanzi a’ suoi occhi: delle memorie pure e soavi di cui egli non poteva aver fecondata la sua vita vennero a turbare dolcemente la sua anima. Erano memorie di un primo amore, di una prima colpa; ma di un amore più gentile e più elevato che egli non avesse sentito, di una colpa più dolce e più generosa che egli non avesse commesso. La sua mente spaziava in un mondo di affetti ignorato, percorreva regioni mai viste, evocava dolcezze mai conosciute.

    Nondimeno tutto questo assieme di rimembranze, questa nuova esistenza che era venuta ad aggiungersi a lui, non turbava, non confondeva le memorie speciali della sua vita. Una linea impercettibile separava le due coscienze.

    Il barone di B. passò alcuni momenti nel pergolato, dopo di che sentì desiderio di affrettarsi verso il villaggio. E allora le due volontà agendo su di esso collo stesso accordo, egli ne subì un impulso così potente che non poté conservare il suo passo abituale, e fu costretto a darsi ad una corsa precipitosa.
    Queste due volontà incominciarono da quell’istante a dominarsi e a dominarlo con pari forza.

    Se agivano d’accordo, i movimenti della sua persona erano precipitati, convulsi, violenti; se una taceva, erano regolari; se erano contrarie, i movimenti venivano impediti, e davano luogo ad una paralisi che si protraeva fino a che la più potente di esse avesse predominato.

    Mentre egli correva così verso il castello, uno de’ suoi domestici lo vide, e temendo di qualche sventura, lo chiamò per nome. Il barone volle arrestarsi, ma non gli fu possibile; rallentò il passo e si fermò bensì per qualche istante, ma ne seguì una convulsione, un saltellare, un avanzarsi e un retrocedere a sbalzi per modo che sembrava invasato, e gli fu giocoforza continuare la sua corsa verso il villaggio.

    Il villaggio non parevagli più quello, parevagli che ne fosse stato assente da molti mesi; vide che il campanile della parrocchia era stato riattato di fresco, e quantunque lo sapesse, gli sembrava tuttavia di non saperlo.

    Lungo la strada si abbatté in molte persone che, sorprese di quel suo correre, lo guardavano con atti di meraviglia. Egli faceva a tutte di cappello, benché comprendesse che nol doveva; e quelle rispondevangli togliendosi i loro berretti, e meravigliando di tanta cortesia. Ma ciò che sembrava ancora più singolare era che tutte quelle persone consideravano quasi come naturale quel suo correre, quel suo salutare; e pareva loro di aver travisto, intuito, compreso qualche cosa in que’ suoi atti, e non sapevano che cosa fosse. Ne erano però impaurite e pensierose.

    Giunto al castello si arrestò; entrò nelle anticamere; baciò ad una ad una le sue cameriere; strinse la mano alle sue livree verdi, e si buttò al collo di una di esse che accarezzò con molta tenerezza, e a cui disse parole come di passione e di affetto.

    A quella vista le cameriere e le livree verdi fuggirono, e corsero urlando a rinchiudersi nelle loro stanze.

    Allora il barone di B. salì agli altri piani, visitò tutte le sale del castello, e essendo giunto alla sua alcova, si buttò sul letto, e disse: “Io vengo a dormire con lei, signor barone”. In quell’intervallo di riposo, le sue idee si riordinarono, egli si ricordò di tutto ciò che gli era avvenuto durante quelle due ore, e se ne sentì atterrito; ma non fu che un lampo. Egli ricadde ben presto nel dominio di quella volontà che lo dirigeva a sua posta.

    Tornò a ripetersi le parole che aveva dette poc’anzi: “Io vengo a dormire con lei, signor barone”. E delle nuove memorie si suscitarono nella sua anima; erano memorie doppie, cioè le rimembranze delle impressioni che uno stesso fatto lascia in due spiriti diversi, ed egli accoglieva in sé tutte e due queste impressioni. Tali rimembranze però non erano simili a quelle che aveva già evocato sotto la pergola; quelle erano semplici, queste complesse; quelle lasciavano vuota, neutrale, giudice una parte dell’anima; queste l’occupavano tutta: e siccome erano rimembranze di amore, egli comprese in quel momento che cosa fosse la grande unità, l’immensa complessività dell’amore, il quale essendo nelle leggi inesorabili della vita un sentimento diviso fra due, non può essere compreso da ciascuno che per metà. Era la fusione piena e completa di due spiriti, fusione di cui l’amore non è che una aspirazione, e le dolcezze dell’amore un’ombra, un’eco, un sogno di quelle dolcezze. Né potrei esprimere meno confusamente lo stato singolare in cui egli si trovava.

    Passò così circa un’ora, scorsa la quale si accorse che quella voluttà andava scemando, e che le due vite che parevano animarlo si separavano. Discese dal letto, si passò le mani sul viso come per cacciarne qualche cosa di leggiero... un velo, un’ombra, una piuma; e sentì che il tatto non era più quello; gli parve che i suoi lineamenti si fossero mutati, e provò la stessa sensazione come se avesse accarezzato il viso di un altro.

    V’era lì presso uno specchio e corse a contemplarvisi. Strana cosa! Non era più egli; o almeno vi vedeva riflessa bensì la sua immagine, ma vedeala come fosse l’immagine di un altro, vedeva due immagini in una. Sotto l’epidermide diafana della sua persona, traspariva una seconda immagine a profili vaporosi, instabili, conosciuti. E ciò gli pareva naturalissimo, perché egli sapeva che nella sua unità vi erano due persone, che era uno, ma che era anche due ad un tempo,

    Allontanando lo sguardo dal cristallo, vide sulla parete opposta un suo vecchio ritratto di grandezza naturale, e disse: “Ah! questo è il signor barone di B.... Come è invecchiato!”. E tornò a contemplarsi nello specchio.

    La vista di quella tela gli fece allora ricordare che vi era nel corridoio del castello un’immagine simile a quella che aveva veduto poc’anzi trasparire dalla sua persona nello specchio, e si sentì dominato da una smania invincibile di rivederla. Si affrettò verso il corridoio.

    Alcune delle sue cameriere che vi passavano in quell’istante furono prese da uno sgomento ancora più profondo di prima, e corsero fuggendo a chiamare le livree verdi che stavano assembrate nell’anticamera, concertandosi sul da farsi.

    Intanto nel cortile del castello si era radunato buon numero di curiosi: la notizia delle follie commesse dal barone si era divulgata in un attimo nel villaggio, e vi aveva fatto accorrere il medico, il magistrato ed altre persone autorevoli del paese.

    Fu deciso di entrare nel corridoio. Il disgraziato barone fu trovato in piedi d’innanzi ad un ritratto di fanciulla - quella stessa che era sparita mesi addietro dal castello - in uno stato di eccitamento nervoso impossibile a definirsi. Egli sembrava in preda ad un assalto violento di epilessia; tutta la sua vitalità pareva concentrarsi in quella tela; pareva che vi fosse in lui qualche cosa che volesse sprigionarsi dal suo corpo, che volesse uscirne per entrare nell’immagine di quel quadro. Egli la fissava con inquietudine, e spiccava salti prodigiosi verso di lei, come ne fosse attratto da una forza irresistibile.

    Ma il prodigio più meraviglioso era che i suoi lineamenti parevano trasformarsi, quanto più egli affissava quella tela, ed acquistare un’altra espressione. Ciascuna persona riconosceva bensì in lui il barone di B., ma vi vedeva ad un tempo una strana somiglianza coll’immagine riprodotta nel quadro. La folla accorsa nel corridoio si era arrestata compresa da un panico indescrivibile. Che cosa vedevano essi? Non lo sapevano: sentivano di trovarsi d’innanzi a qualche cosa di soprannaturale.

    Nessuno osava avvicinarsi, nessuno si moveva: uno spavento insuperabile si era impadronito di ciascuno di essi; un brivido di terrore scorreva per tutte le loro fibre...

    Il barone continuava intanto ad avventarsi verso il quadro; la sua esaltazione cresceva, i suoi profili si modificavano sempre più, il suo volto riproduceva sempre più esattamente l’immagine della fanciulla... e già alcune persone parevano voler prorompere in un grido di terrore, quantunque uno spavento misterioso li avesse resi muti od immobili, allorché una voce si sollevò improvvisamente dalla folla che gridava: “Clara! Clara!”.

    Quel grido ruppe l’incantesimo. “Sì, Clara! Clara!” ripeterono unanimi le persone radunate nel corridoio, precipitandosi l’una sull’altra verso le porte, sopraffatte da un terrore ancora più grande, e quel nome era il nome della fanciulla sparita dal castello, la cui immagine era stata riprodotta dalla tela.

    Ma a quella voce, il barone di B. si spiccò dal quadro e si slanciò in mezzo alla folla gridando: “Il mio assassino, il mio assassino!”. La folla si sparpagliò e si divise. Un uomo era in terra svenuto - quello stesso che aveva gridato, - il giovane guardaboschi su cui pendevano sospetti per la sparizione misteriosa di Clara.

    Il barone di B. fu trattenuto a forza dalle sue livree verdi. Il guardaboschi rinvenuto domandò del magistrato, cui confessò spontaneamente di aver uccisa la fanciulla in un eccesso di gelosia, e di averla sotterrata in un campo, precisamente in quel luogo dove, poche ore innanzi, aveva veduto lo sfortunato barone sedersi e mangiare le coccole del lampone.

    Fu data subito al barone di B. una forte dose di emetico che gli fece rimettere i frutti non digeriti, e lo liberò dallo spirito della fanciulla.

    Il cadavere di essa, dal cui seno partivano le radici del lampone, fu dissotterrato e ricevette sepoltura cristiana nel cimitero.

    Il guardaboschi, tradotto in giudizio, ebbe condanna a dodici anni di lavori forzati.

    Nel 1865 io lo conobbi nello stabilimento carcerario di Cosenza che mi era recato a visitare. Mancavangli allora due anni a compiere la sua pena; e fu da lui stesso che intesi questo racconto meraviglioso.




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