Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Ippolito Nievo

    A un trilobite raccolto in Carnia

    Mentre alla roccia madre, che stretto ti avvolge, l’impronta
    del tripartito corpiciattolo strappo,

    e nella pietra viva mirabilmente scolpiti
    della glabella turgida l’arco miro,

    e l’incavata pleura, che un dì l’aura triste bevette
    di nessun polline ancor feconda, un grido

    misterioso salire par dalla roccia ferita,
    dalla roccia pur ora ribaciata dal sole.

    Incerto, e dalla mano tremante sfuggonmi e cadono
    gli scalpelli, mi arresto. « Qual di secoli, chieggo,

    o impietrato vivente, qual mai di secoli corse
    catena lunga da quel remoto giorno

    in cui la riva fangosa di un tiepido mare segnasti,
    vagante artropodo, de l’incerta tua orma?

    Le sigillarie cupe levavan nell’aere nebbioso
    le scarse chiome; per le selve lugubri

    non sorriso di fiori non gaio d’augelli richiamo.
    Tu, inconsapevole schiavo di eterna legge,

    tu, efimero vivente intento all’opera eterna
    di vita, allora al divenir del mondo

    umile fosti ed utile strumento, e passasti e, nel grembo
    tranquillo, il mare al fine ti raccolse;

    il mar di vita e di morte origine alterna e perenne,
    il mare abisso di misteri profondo.

    Volava intanto la terra, da l’infinito lanciata,
    di suo destino ignara, verso un altro infinito.

    Poi dove vasti aprivansi gli oceani sonanti per lunga
    opra di secoli, si incurvarono monti;

    e sulle terre giovani impetuosi torrenti
    lor rinnovata foga esercitarono.

    Tu nel sepolcro intanto, che il mare costrutto t’aveva,
    dormivi, e in selce lentamente mutavi.

    Quando un virgulto nuovo del florido albero antico
    di cui tu, inconscio, alle radici fosti,

    improvviso comparve. Fuggiva sempre la terra
    di suo destino ignara, per il cielo infinito.

    Dominatore nuovo, al suo minuscolo regno
    volse lo sguardo avidamente l’uomo,

    e, di quello non pago, oltre il modesto confine
    lanciò la mente, indagatrice ardita.

    Delle origini prime a te il segreto richiese,
    chiese al passato del futuro l’arcano.

    Vana fatica! S’agita dei sensi l’anima schiava
    in una cava nube, non trasparente, diafana.

    A lei del vero attenuata la luce giunge; ma indarno
    tra la caligin scruta, e affannosa persegue

    del vero eterno le forme. Esse intraviste, dileguano,
    inafferrabili, e impenetrato rimane

    il segreto dei mondi. Corre verso esso la terra
    fatalmente lanciata nel mistero infinito.


    Canti del Friuli




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