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Ippolito Nievo
Gli ultimi amanti delle illusioni
John Flan è un cittadino degli Stati Uniti d’America; robusto milionario rozzo e materiale come un vero americano. Non che gli mancasse la volontà di istruirsi, ma gliene mancavano i mezzi. L’America è la terra dei mestieri, non quella delle arti, delle lettere e delle scienze. Se la Francia può personificarsi in un libro, la Russia nello knout, la Germania in una bottiglia di birra filosofica, l’Austria in un capestro, e la Spagna in un rosario, gli Stati Uniti d’America potrebbero esser rappresentati da una balla di cotone. Figuratevi che atmosfera negativa per lo sviluppo delle forze spirituali!
Scusate il vocabolo, ma lo spirito di John Flan era perfettamente cotonizzato. Egli non poteva piú pensare, ma toccava e palpava anch’esso come fanno le mani in Europa. Tuttavia siccome John era milionario ed ozioso si era intinto d’un po’ di francese e aveva preso a leggere Soulié, Dumas, Balzac, Souvestre, la Sand, e compagni.
Leggeva molto e capiva poco. Fra le altre egli lesse non so dove che le illusioni sono sulla terra la sola felicità. E questa sentenza gli sembrò piú inconcepibile di tutto il resto.
Cosa sono queste illusioni? Per quanto fantasticasse non arrivava ad immaginarsele. Ne domandò conto ai vicini, al medici, ai giornalisti, ai negozianti del suo paese; e nessuno gliene diede una definizione intelligibile. Cominciava a vacillare nel cervello, e a temere di diventar pazzo davvero. Comprese che l’unico e piú ovvio ripiego era quello di vender l’anima al Diavolo purché gli facesse conoscere qualche beato possessore di quelle illusioni. Vedete ch’egli preferiva anche ne’ suoi metodi di studii la pratica alla grammatica.
Ma c’era un piccolo guaio. John Flan apparteneva ad una setta cristiana che non ammette l’esistenza del Diavolo. Si spaventerà egli dell’ostacolo? Tutt’altro! Fece pubblicamente la sua professione di buon cattolico; e avuto appena il diritto di credere al Diavolo, se lo chiamò vicino e gli spiattellò la formula del contratto.
— È, difficile! è molto difficile! — rispose Mefistofele. — Le vere e colossali illusioni, capaci di convincere della loro esistenza anche un giudizio cosí cotonizzato come il vostro, sono omai divenute cosí rare anche in Europa, nell’antica patria dell’immaginazione, che io temo, caro John Flan, di non poter trovare in tutto quel continente cinque o sei persone che ne abbiano ancora. Il mondo dà ogni dove nel positivo; e perfino i miei dannati s’innamorano della regola del tre.
— Dite che ve n’hanno cinque o sei? — rispose l’americano. — È piú del bisogno; fatemegli conoscere, e la mia anima è vostra.
— Badate che il viaggio sarà lungo e faticoso! — soggiunse Mefistofele.
— Non importa; sono disposto a tutto —
Allora il dotto successor di Plutone stese le mani e fu visto uno strano miracolo. i muscoli facciali di John Flan si contrassero spaventosamente. Sbadigliò, sbadigliò, sbadigliò. La forza d’aspirazione crebbe tanto, diventò cosí diabolica e soprannaturale ch’egli si trovò assorto nell’aria e trascinato a mille metri di altezza in mezzo all’Atlantico; là successe il fenomeno della respirazione con tal veemenza del pari, con tanta magia di precisa direzione, ch’egli fu lanciato in un attimo sul fumaiuolo d’un castello signorile in riva al lago di Costanza. Rotolò giú pel camino e capitò nella stanza ove dormiva saporitamente l’erede immaginario del toscano Morfeo.
— Chi vedi? — domandò Mefistofele.
— Un giovinetto paffuto, di discreta apparenza e che dorme poco tranquillo per la sua età — rispose John Flan. — Deve essere il figlio avvinazzato di qualche conte tedesco.
— Eh giusto! guarda ora! — soggiunse il Demonio.
Tolse via dall’augusto capo del dormente la callotta del cranio, e spinse l’americano a guardar coll’occhio là dentro.
— oh cielo! che veggo mali — sclamava questi. — Egli si crede granduca di Toscana! si crede a Firenze in palazzo Pitti, si crede...
— Ecco le illusioni — lo interruppe Mefistofele —, la ferma convinzione di ciò che non avverrà mai. Ma passiamo al secondo atto, ché è già tardi per presentarsi decentemente nell’alcova della ex-duchessa di Parma —.
Lo ritirò fuori dal castello, e lo lanciò diritto nell’albergo Bauer a Zurigo a cavallo d’un br... (Vi preghiamo di non credere che questo br... sia l’articolista del Pasquino; è invece un articolo che usava portare nella sua gioventú anche l’ex-duchessa di Parma).
La duchessa che leggeva tediosamente un gran libro di devozioni fu esternamente scandolezzata dell’intempestivo ingresso del cavaliere e della cavalcatura. Internamente, a quello che si dice, gradí moltissimo il primo, e rimpianse la seconda.
— Chi vedi? — domandò Mefistofele ch’era nascosto dietro la cortina.
— Una vecchia bigotta, grassa come la mia cuoca e che dev’essere molto amica dei preti — rispose l’ingenuo John Flan.
— Ah ribelle sfrontato! — gridò scalmanata la principessa. — Sono sangue borbonico, sono la duchessa di Parma, ti farò appiccare!!...
— Illusioni, illusioni! — mormorò Mefistofele trascinando lunge dall’albergo Bauer il sorpreso americano.
Questo fu molto contento di partire poiché oltre la nausea che gli dava quella vecchia, v’era lí appresso un odor di trattato che rivoltava lo stomaco. Mefistofele gli attortigliò un capestro intorno al collo, e maneggiandolo come una fionda lo scaraventò traverso l’impero d’Austria fino al palazzo imperiale di Vienna al cospetto dell’erede degli Absburgo. Quella maniera di viaggiare è molto di moda in quell’impero.
Che ti pare? — domandò ancora Mefistofele.
È un giovinotto di cattiva indole — rispose John Flan —, che viso arrovesciato, che baffi spinosi! Ben gli sta di aver le casse vuote, la casa in confusione, e i sudditi in rivolta! Spero che di qui ad un anno non rimarrà di lui e del suo impero che l’ombra d’una memoria! —
L’imperatore non capiva l’inglese e perciò non rispose. Ma John Flan fu molto meravigliato di vederlo aprire un armadio, trarne una spada, cingerla al fianco, e colla mano sull’elsa pavoneggiarsi fieramente dinanzi ad uno specchio.
— Con quella spada — riprese Mefistofele —, con quella spada egli crede di saldare i suoi debiti, ricomporre la cassa, e rimettere i sudditi all’obbedienza!
— Sciocco, sciocco! — sclamò l’americano.
— E quell’altro là in quel canto che accenna di sí, sí come fanno i polli bevendo? — ripigliò il Demonio — Ti pare un bell’arnese da principe?
— Mi pare un ubbriacone, e a viso anche una forca d’usuraio — sclamò l’americano che se ne intendeva.
— Eh giusto! Egli è arciduca a Vienna e crede di tornar duca a Modena!
— Imbecille, imbecille!
— Illusioni, illusioni! — soggiunse Mefistofele. E condusse il compagno nell’arsenale di Vienna.
Là si sentí ficcato in un cannone, e pum! a cavallo d’una granata giunse come una folgore nel palazzo reale di Napoli.
Bombino dormiva, laonde fu facile a Mefistofele fargli nelle costole un’operazione che mise a nudo la regione dove gli uomini sogliono avere il cuore.
— Cosa vedi? — domandò il Diavolo.
— Misericordia! — sclamò John Flan. — In vece di cuore veggo una specie di bomba.
— Non è una bomba — rispose Mefistofele — la bomba l’aveva suo padre, questo ha una granata. Eppur crede che non gli verranno meno l’affetto e, la fedeltà del suo popolo!
— Imbecille! il suo popolo lo manderà presto all’inferno! — sclamò l’americano.
— Zitto, che non lo svegli! — soggiunse Mefistofele. — Per lo spavento farebbe appiccare tutti i camerieri —.
Lo condusse chetamente sulla riva del mare e là si offerse loro una specie assai curiosa di naviglio. Era un cappellone di gesuita arrovesciato a cui avevano applicato una macchina a vapore. Il cappellone pareva malcontentissimo di esser costretto a viaggiare per acqua colla forza motrice del progresso. Tuttavia o di buona o di cattiva voglia li condusse fino a Roma. Sua Santità era ancora in orazione nella sua cappella privata, e non s’accorse dei due forestieri che entravano.
John Flan era bastantemente a giorno delle cose romane, e col suo grosso buon senso americano fu molto sorpreso di trovar il papa cosí tranquillo sul genuflessorío. Altri avrebbe detto che era la calma dello spirito e la sicurezza del trionfo.
— È in procinto di perdere ogni cosa e bamboleggia in preghiere da donnicciuole! — mormorò egli invece all’orecchio del Diavolo. — Mi pare un vero...
— Rispetta il tuo papa fin che n’hai tempo, disgraziato! — gli diè sulla voce Mefistofele. — E sappi che con quelle preghiere egli crede di indurre Domeneddio ad armare in profitto del pregiudizio e dell’avarizia di alcuni preti ducento milioni di cattolici.
— Misericordia! mi faccio turco! — gridò John Flan. Non voglio piú servire codesti pazzi!
— Non hai piú tempo di farti né turco né altro! — gridò diabolicamente Mefistofele scuoiandogli il petto. — Ti ho mostrato gli ultimi adoratori delle illusioni, ho guadagnato la tua anima, e voglio papparmela in pace!
— Ahi! ahi! ahi! — gridava John Flan; ma la voce s’affievoliva nella gola lacerata dalle unghie diaboliche finché si spense del tutto.
Mefistofele da accorto beccaio arrivò cogli artigli al profondo ripostiglio dell’anima; ma non vi trovò che una pallottola di cotone. La prese un po’ mortificato, poi siccome patisce da qualche tempo d’una postema, se la mise nell’orecchio, e per non aver fatto la strada indarno salí a far visita al cardinal Antonelli.
Cosí finí l’esperienza metafisica di John Flan; e se da questo fatto autentico i signori Borri e Rota volessero cavare un libretto di ballo fantastico, si pregano a volersi prima intendere coll’autore dell’articolo che si chiama
ARSENICO